Licenziamento per inidoneità alla mansione; illegittimità.

Corte di Cassazione, ordinanza 21 marzo 2022, n. 9158.

Corte di Cassazione, ordinanza 21 marzo 2022, n. 9158.

Licenziamento per inidoneità alla mansione; illegittimità.

Il licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica accompagnato dalla violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute, integra l’ipotesi di difetto di giustificazione, suscettibile di reintegrazione.

Licenziamento. Inidoneità al servizio. Consenso del lavoratore all’adibizione a mansioni inferiori.  Impossibilità di repechage. Onere della prova a carico del datore.  Insussistenza dei motivi posti a base del recesso. Applicabilità tutela reintegratoria.

Nota di Luigi Verde

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza che qui di seguito riportiamo, ha confermato la  decisione con la quale la Corte di appello aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato da una società ad un lavoratore in relazione ad una sua sopravvenuta inidoneità al lavoro.

La Corte d’Appello aveva rigettato il ricorso della società datrice e confermato la reintegrazione del dipendente nel  posto di lavoro, con condanna della società al risarcimento del danno e al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

Secondo la Corte d’Appello, gli accertamenti medici posti alla base del licenziamento erano sindacabili, soprattutto a fronte di una perizia medico legale come quella disposta nel corso del giudizio, che aveva accertato una inidoneità fisica del lavoratore rispetto alle mansioni di ausiliario, vale a dire ad uno solo dei profili dell’ampio livello professionale e di inquadramento del lavoratore.

In siffatto contesto, la società datrice non aveva dimostrato di non essere in grado di utilizzare diversamente il lavoratore, se del caso anche in mansioni inferiori. La società,  a tale riguardo, non aveva allegato né offerto alcuna prova, anche solo in via presuntiva, circa la impossibilità di una diversa utilizzazione, anche a fronte di un consenso del prestatore di lavoro ad essere adibito a mansioni inferiori.

Contro la decisione della Corte d’Appello la società datrice aveva avanzato ricorso in sede di legittimità, denunciando violazione e falsa applicazione di legge. Secondo la società datrice, la Corte di merito aveva erroneamente ritenuto sindacabili gli accertamenti medici concernenti la inidoneità alle mansioni, peraltro nemmeno prontamente opposti dal prestatore.

Con l’ordinanza che qui si commenta (ordinanza 21 marzo 2022, n. 9158), la Corte di Cassazione ha giudicato infondata la censura della società datrice. Come anticipato, la Corte territoriale aveva ben chiarito, da un lato, che nessun onere di allegazione gravava sul lavoratore e, dall’altro, che la società datrice non aveva offerto alcuna prova circa la situazione di stabile copertura di posti di lavoro compatibili con la posizione del lavoratore sia al momento del licenziamento sia per un congruo periodo successivo ad esso.

La Suprema Corte ha evidenziato che l’art. 42 del d.lgs. n. 81 del 2008, nel prevedere che il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche possa essere assegnato anche a mansioni equivalenti o inferiori, nell’inciso “ove possibile” contempera il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di ricercare -anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto- le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell’onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l’attuazione dei detti diritti (Cass. 13511/2016).

Nel caso esaminato, la Corte d’Appello aveva accertato che nel livello professionale e di inquadramento del lavoratore esisteva un’ampia gamma di profili cui poteva essere adibito, tenuto conto del fatto che questi era risultato inidoneo alle sole mansioni di ausiliario. Inoltre, era stato dato atto che il lavoratore si era da subito reso disponibile ad essere assegnato anche a mansioni inferiori.

Alla luce di tali premesse la  S.C. ha ritenuto che la censura fosse infondata nella parte in cui si assumeva la non sindacabilità del giudizio di inidoneità non opposto, e comunque non si confrontava con l’affermazione della Corte di Appello che aveva  ben chiarito, da un canto, che nessun onere di allegazione gravava sul lavoratore e, dall’altro, che nessuna prova era stata offerta della situazione di stabile copertura di posti di lavoro compatibili con la posizione del lavotratore, sia al momento del licenziamento che per un congruo periodo successivo ad esso. Sulla base di tali premesse, il giudice del reclamo, nel prendere atto dell’orientamento giurisprudenziale che grava il datore di lavoro dell’onere di provare, anche attraverso presunzioni, l’impossibilità del repechage, ha escluso che tali circostanze di fatto fossero state anche solo allegate.

Rispetto, infine, alla tutela applicabile, la Suprema Corte ha giudicato corretto il ricorso alla reintegrazione , ai sensi dell’art. 18 comma 7 dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/1970).

La Corte, a tal proposito, ha richiamato il principio secondo cui “il licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica accompagnato dalla violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute, integra l’ipotesi di difetto di giustificazione, suscettibile di reintegrazione“. Reintegra che è possibile quando risulti manifestamente insussistente il fatto posto a base del recesso, vale a dire in caso di chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del licenziamento

La “manifesta insussistenza” -ha precisato la Corte di Cassazione-  va riferita ad un’assenza dei presupposti evidentemente e facilmente verificabile sul piano probatorio, che consenta di apprezzare la pretestuosità del recesso medesimo.

 

Dal testo dell’ordinanza.

[…] CORTE DI CASSAZIONE. Ordinanza 21 marzo 2022, n. 9158.

Rilevato che

  1. La Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che, rigettando l’opposizione di T. s.p.a. avverso il provvedimento reso dallo stesso Tribunale all’esito della fase sommaria, aveva ritenuto che il licenziamento intimato dalla società a P.G. l’8 aprile 2015, in relazione ad una sua inidoneità al servizio, era illegittimo e che il lavoratore doveva essere reintegrato nel posto di lavoro con condanna della società a risarcire il danno quantificato in dodici mensilità di retribuzione oltre che al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal licenziamento alla reintegrazione ed al pagamento degli interessi legali e della rivalutazione monetaria.
  2. Nel rigettare il reclamo della società la Corte territoriale – dopo aver premesso che gli accertamenti medici presupposti al licenziamento erano sindacabili dal giudice e che la perizia medico legale, disposta nel corso dell’opposizione, aveva accertato che l’inidoneità fisica del lavoratore aveva riguardo alle mansioni di ausiliario che costituivano solo uno dei profili dell’ampio livello professionale E di inquadramento del lavoratore – ha ritenuto che la società non avesse offerto la prova di non poter diversamente utilizzare il lavoratore eventualmente anche in mansioni inferiori. Con riguardo a queste ha evidenziato che la società nulla aveva allegato e che non aveva offerto alcuna prova, anche solo in via presuntiva, dell’impossibilità di una sua utilizzazione sebbene lo stesso lavoratore, prima ancora del licenziamento, avesse prestato il suo consenso all’adibizione a mansioni inferiori.
  3. Quanto alla tutela applicabile, il giudice del reclamo ha ribadito di dover applicare la reintegrazione ai sensi dell’art. 18 comma 7 della legge n. 300 del 1970.
  4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso T. s.p.a. affidato a quattro motivi ai quali ha resistito P.G. con controricorso ulteriormente illustrato da memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis 1 cod. proc. civ.

Anche T. s.p.a. ha depositato memoria.

Considerato che

  1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 41 del d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81.

5.1. Sostiene la ricorrente che erroneamente la Corte di merito ha ritenuto sindacabili gli accertamenti medici relativi all’inidoneità alle mansioni. Osserva che tale accertamento era suscettibile di opposizione da parte del lavoratore nel termine di 30 giorni dalla avvenuta comunicazione da parte dell’organo di vigilanza e che l’eventuale diniego sull’opposizione era impugnabile con ricorso straordinario al Capo dello Stato ovvero con ricorso al TAR. Precisa al riguardo che nessuna opposizione era stata proposta e rileva che anche la consulenza disposta nel corso del giudizio aveva accertato che il lavoratore non era idoneo allo svolgimento delle mansioni proprie del suo inquadramento.

5.2. Deduce inoltre la società ricorrente che nello specifico era stato verificato che non vi erano mansioni equivalenti o inferiori rispetto a quelle cui era stato in precedenza adibito presso la ditta appaltatrice per la quale aveva lavorato, ed il cui rapporto era stato poi convertito alle dipendenze di T. all’esito di un giudizio. Osserva allora che in mancanza di posizioni equivalenti o inferiori, esclusa la necessità di dover procedere a modifiche organizzative, correttamente era stato disposto il licenziamento del lavoratore inidoneo.

5.3. Sottolinea ancora che il G. non aveva neppure allegato l’esistenza di posizioni lavorative alle quali avrebbe potuto essere destinato e che il giudice di appello non aveva in concreto verificato se e quali erano le mansioni alle quali questi avrebbe potuto essere adibito evidenziando che, peraltro, eventuali attività compatibili erano state da tempo esternalizzate.

  1. Il motivo è per taluni aspetti inammissibile e comunque infondato.

6.1. Occorre premettere che questa Corte ha da tempo chiarito che la dichiarazione di inidoneità fisica in esito alle procedure di cui all’art. 5 dello Statuto dei lavoratori non ha carattere di definitività, potendo il giudice della controversia pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d’ufficio disposta nel giudizio di merito (cfr. Cass. 06/06/1998 n. 5600 e nel tempo tra le altre Cass. 08/02/2008 n. 3095, 25/07/2011 n. 16195, 04/09/2018 n. 21620 e 16/01/2020 n. 822). La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 420 del 14/12/1998 – nel dare atto del fatto che secondo il diritto vivente la dichiarazione di inidoneità fisica in esito alle procedure di cui all’art. 5 dello Statuto non ha carattere di definitività poiché il giudice della controversia può pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d’ufficio disposta nel giudizio di merito – ha ritenuto che rientrano nel “rischio d’impresa” le conseguenze della scelta del datore di lavoro di optare per l’immediato licenziamento del dipendente invece che agire secondo le normali regole contrattuali con la risoluzione giudiziaria del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, ed ha sottolineato al riguardo che si tratta di una scelta del legislatore chiaramente rivolta a tutela del soggetto più debole. D’altra parte, diversamente opinando, il rischio di un errato accertamento da parte dell’organo amministrativo deputato verrebbe fatalmente a gravare sul lavoratore, che si troverebbe a subire la risoluzione del rapporto anche in assenza di una causa giustificativa.

6.2. L’art. 42 del d.lgs. n. 81 del 2008, poi, nel prevedere che il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche possa essere assegnato anche a mansioni equivalenti o inferiori, nell’inciso “ove possibile” contempera il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di ricercare – anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto – le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell’onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l’attuazione dei detti diritti (Cass. 01/07/2016 n. 13511).

6.4. Questo essendo il contesto nel quale esaminare la questione posta dalla presente controversia va rilevato che il giudice di merito ha accertato che nel livello professionale E di inquadramento del lavoratore esisteva un’ampia gamma di profili cui adibirlo tenuto conto del fatto che questi era risultato inidoneo alle sole mansioni di ausiliario. Inoltre ha dato atto del fatto che il lavoratore si era da subito reso disponibile ad essere adibito anche a mansioni inferiori. Sulla base di tali premesse il giudice del reclamo, nel prendere atto dell’orientamento giurisprudenziale che grava il datore di lavoro dell’onere di provare, anche attraverso presunzioni, l’impossibilità del repechage, ha escluso che tali circostanze di fatto in tal senso fossero state anche solo allegate.

6.5. Alla luce di tali premesse ritiene allora il Collegio che la censura sia infondata nella parte in cui si assume la non sindacabilità del giudizio di inidoneità non opposto ed comunque non si confronti con l’affermazione della Corte del reclamo che ha ben chiarito da un canto che nessun onere di allegazione gravava sul lavoratore e dall’altro che nessuna prova era stata offerta della situazione di stabile copertura di posti di lavoro compatibili con al posizione del G. sia al momento del licenziamento che per un congruo periodo successivo ad esso.

  1. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 111 comma 6 Cost. 132 cod.proc.civ. e 118 disp. att. cod.proc.civ. apparenza ed illogicità motivazione circa la prova dell’impossibilità del repechage e della soppressione delle mansioni di pulizia treni/manipolazione accumulatori.

7.1. Deduce la società ricorrente che il datore di lavoro deve, in primo luogo, evitare che l’attività svolta possa essere pericolosa per il lavoratore e tuttavia non deve modificare la sua organizzazione né è tenuto a procedere ad una riqualificazione il lavoratore. Rileva allora che nel corso del giudizio era stato allegato e si era chiesto di provare che le altre attività di ausiliario, compatibili con il livello di inquadramento del G., erano state esternalizzate e che comunque il profilo rientrava tra quelli il cui personale era eccedentario.

  1. La censura, pur veicolata come vizio di violazione di legge, si risolve nella pretesa di un diverso apprezzamento dei fatti allegati in giudizio non consentita al giudice di legittimità se non nei limiti in cui ancora oggi è consentito di censurare la motivazione della sentenza di secondo grado.

8.1. Nel richiamare quanto affermato da questa Corte sin dalla sentenza 07/04/2014 n. 8053, va ricordato che con riguardo al contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, cod.proc.civ. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 14/02/2020 n. 3819) vizio che nel caso in esame non può essere ravvisato ove si consideri che la motivazione c’è e non presenta profili di illogicità tali da poterne viziare il contenuto sì da farla ritenere sostanzialmente inesistente.

  1. Il terzo motivo ricorso, con il quale è denunciata ancora la nullità della sentenza per omessa motivazione circa la mancata ammissione della prova testimoniale richiesta sull’impossibilità del repechage e l’omesso esame ex art. 360 primo comma n. 5 cod.proc.civ. della relativa allegazione in fatto della società, non può essere accolto per ragioni analoghe a quelle più sopra esposte.

9.1. La Corte territoriale ha chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto generici ed irrilevanti i capitoli di prova articolati dalla società e non è ravvisabile alcun vizio nella motivazione che è sintetica ma esistente e non trascura alcun fatto decisivo che nello specifico non viene allegato se non sotto il profilo di una non condivisa valutazione della prova sotto il profilo della sua ammissibilità che non integra certo un vizio di motivazione.

  1. L’ultimo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la violazione dell’art. 18 comma 7 della legge 230 maggio 1970 e ss.mm., con riguardo alla ritenuta applicabilità della tutela reintegratoria è del pari infondato.

10.1. Rileva il Collegio che la ricorrente deduce che il licenziamento era stato motivato oltre che dalla inidoneità del lavoratore ai compiti di istituto, accertata anche dal consulente, anche in relazione all’avvenuta soppressione delle mansioni originariamente attribuite al lavoratore sicché ritiene che, più correttamente, al caso in esame avrebbe dovuto essere applicata la tutela dettata dal comma 5 della citata disposizione di legge non potendosi ritenere che il fatto fosse manifestamente insussistente.

10.2. In via generale va rammentato che il licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica accompagnato dalla violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute, integra l’ipotesi di difetto di giustificazione, suscettibile di reintegrazione, a norma dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012 (Cass. 25/09/2018 n.22675) che è possibile quando risulti manifestamente insussistente il fatto posto a base dello stesso vale a dire che sia chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso. Al riguardo si è ritenuto che a tale nozione non possa essere ricondotto il caso in cui la prova sia meramente insufficiente ovvero quando non si possa ritenere legittimo il recesso in relazione all’esistenza di elementi di prova opinabili e non univoci (cfr. Cass. 04/03/2021 n. 6083). Del pari si è ritenuto che una insufficienza probatoria in ordine all’adempimento dell’obbligo di repechage non potesse essere sussunta nell’alveo della manifesta insussistenza del fatto (cfr. Cass. 08/01/2019 n. 181). In definitiva la “manifesta insussistenza” va riferita ad assenza dei presupposti evidente e facilmente verificabile sul piano probatorio che consenta di apprezzare la pretestuosità del recesso (cfr. Cass. 02/05/2018 n. 10435).

10.3. Questo, in fatto, è quello che ha verificato il giudice del reclamo nel confermare la tutela reintegratoria già accordata dal giudice dell’opposizione e prima ancora quello della fase sommaria registrando tutti una evidente mancanza di allegazione quanto all’impossibilità di riutilizzare il lavoratore in altre mansioni anche inferiori. Si tratta di un apprezzamento dei fatti allegati, che ha portato il giudice di merito a ritenere evidente l’insussistenza dei motivi posti a base del recesso, che si allinea ai principi enunciati e non incorre nella censura che viene mossa alla decisione.

  1. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 qua ter del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto […]..