(Studio legale  G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

Corte di Cassazione. Ordinanza 30 luglio 2024, n. 21242.

Licenziamento. Superamento periodo di comporto. Malattia. Infortunio in itinere. Diritto alla conservazione del posto. Accoglimento.

“[…] La Corte di Cassazione,

(omissis)

Rilevato che

1. La Corte d’appello di Milano ha respinto il reclamo di M.G., confermando la sentenza di primo grado che, al pari dell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, aveva respinto l’impugnativa del licenziamento intimatogli con lettera del 10 aprile 2020 per superamento del periodo di comporto.

2. La Corte territoriale ha premesso che al lavoratore era stato comunicato il superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro, ai sensi dell’art. 41 c.c.n.l., per essere rimasto assente per malattia per 391 giorni, da considerare continuativi perché intervallati da periodi di ripresa del servizio inferiori a 30 giorni (secondo quanto previsto dall’art. 41, comma 1, cit.).

Ha ritenuto che non potesse detrarsi dal computo rilevante ai fini del comporto il periodo dal 10 novembre 2017 fino al 2 gennaio 2018, in cui il lavoratore era stato assente a causa di un infortunio in itinere, come tale riconosciuto dall’ Inail con nota del 12 aprile 2020.

Ciò in base all’interpretazione data all’articolo 50, comma 6, del contratto collettivo, nel senso di escludere i giorni di assenza dovuti ad infortunio dal computo del comporto per sommatoria, in ragione dell’espresso riferimento fatto dall’art. 50, comma 6, all’articolo 41, comma 2, che disciplina, appunto, il comporto per sommatoria.

3. Avverso tale sentenza M.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. P.I. spa ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

4. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.

Considerato che

5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 41, comma 1, e dell’art. 50 del c.c.n.l. per il personale non dirigente di P.I. del 30.11.2017, anche in relazione all’art. 3 Cost.

6. Il ricorrente censura l’interpretazione data dai giudici di merito all’articolo 50 del c.c.n.l. perché non tiene conto del primo comma del medesimo articolo che sancisce, in via generale, il diritto alla conservazione del posto per i lavoratori non in prova in caso di infortuni o malattie professionali.

7. Con il secondo motivo è dedotta violazione o falsa applicazione degli artt. 91 – 93 c.p.c. invocandosi una diversa regolamentazione del regime delle spese processuali quale conseguenza dell’accoglimento del primo motivo di ricorso.

8. Il primo motivo di ricorso è fondato.

9. Questa Corte ha più volte statuito come la fattispecie di recesso del datore di lavoro in caso di assenze determinate da malattia del lavoratore si inquadri nello schema previsto e sia soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, con la conseguenza che, in dipendenza di tale specialità e del contenuto derogatorio delle suddette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto periodo di comporto), predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo ne’ della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, ne’ della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (Cass. n. 5413 del 2003).

10. Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. (Cass. 15972 del 2017; Cass. n. 5413 del 2003 cit.).

11. Più esattamente, la computabilità delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale nel periodo di comporto non si verifica nelle ipotesi in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie – secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l’impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata (Cass. n. 7037 del 2011).

12. Si è anche sottolineato come nessuna norma imperativa vieti che disposizioni collettive escludano dal computo delle assenze ai fini del periodo di comporto, cui fa riferimento l’articolo 2110 c.c., quelle dovute a infortuni sul lavoro o malattie professionali, ne’ tale esclusione – che è ragionevole e conforme al principio di non porre a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell’attività lavorativa espletata – incontra limiti nella stessa disposizione, che, come lascia ampia libertà all’autonomia delle parti nella determinazione di tale periodo, così non può intendersi preclusiva di una delle forme di uso di tale libertà, quale è quella di delineare la sfera di rilevanza delle malattie secondo il loro genere e la loro genesi (Cass. n. 14377 del 2012; Cass. n. 9187 del 1997; Cass. n. 6080 del 1985; Cass. n. 889 del 1983).

13. Il contratto collettivo applicato al rapporto in esame, all’art. 41, la cui rubrica recita “Assenze per malattie – Trattamento”, stabilisce:

I. Il lavoratore non in prova, assente per malattia, ha diritto alla conservazione del posto ed alla corresponsione dell’intera retribuzione fissa per un periodo di mesi dodici. I periodi di malattia che intervengano con intervalli inferiori a trenta giorni si sommano ai fini della maturazione del predetto periodo di dodici mesi.

 Nel computo del periodo di dodici mesi, non si tiene conto delle assenze dovute all’effettuazione di terapie salvavita nonché alle seguenti patologie di particolare gravità […]

II. Il diritto alla conservazione del posto cessa quando il lavoratore, anche per effetto di una pluralità di episodi morbosi e indipendentemente dalla durata dei singoli intervalli, raggiunga il limite di ventiquattro mesi di assenza entro l’arco massimo di quarantotto mesi consecutivi. I termini si computano dal primo giorno del primo periodo di assenza per malattia.

Durante il predetto periodo di conservazione del posto di lavoro, al lavoratore verrà corrisposto un importo pari all’intera retribuzione fissa per un periodo complessivo di 18 mesi […].

IV. Trascorsi i periodi di conservazione del posto di cui ai precedenti commi I e II o il periodo di aspettativa richiesto ai sensi del precedente comma III, la Società può procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro corrispondendo al lavoratore l’indennità sostitutiva del preavviso”.

14. L’art. 50, dedicato a “Infortuni sul lavoro e malattie professionali” prevede:

I. La Società assicura i lavoratori presso l’INAIL contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Fermo restando quanto previsto al comma VI che segue, i lavoratori non in prova hanno diritto, in tali casi, alla conservazione del posto ed al trattamento di cui al comma V del presente articolo […]

V. Il lavoratore ha diritto all’intera retribuzione in godimento per la giornata in cui si è verificato l’infortunio. In caso di inabilità temporanea assoluta derivante da infortunio sul lavoro, la Società corrisponde al lavoratore, il 100% della retribuzione anche per i successivi 3 giorni (carenza) a quello in cui si è verificato l’infortunio.

Dal quarto giorno successivo a quello dell’infortunio corrisponde una integrazione dell’indennità corrisposta dall’INAIL fino al raggiungimento del 100% della retribuzione giornaliera normalmente spettante, per tutta la durata della inabilità e fatto salvo quanto previsto dal successivo comma VI.

VI. Per il raggiungimento del limite di cui all’art. 41 comma II del presente contratto, i primi 16 mesi di assenza dovuti ad infortuni sul lavoro o a malattia professionale non sono considerati utili ai fini del relativo computo […]

VIII. La normativa di cui al presente articolo trova applicazione subordinatamente al riconoscimento da parte dell’INAIL dell’infortunio, ivi compreso quello in itinere ai sensi della normativa vigente, o della malattia professionale”.

15. In via preliminare, deve ribadirsi che la denuncia di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., come modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, è parificata sul piano processuale a quella delle norme di diritto, sicché anch’essa comporta, in sede di legittimità, l’interpretazione delle loro clausole in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (artt. 1362 ss. c.c.) come criterio interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione dell’esattezza e della congruità della motivazione, senza più necessità, a pena di inammissibilità della doglianza, di una specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, né del discostamento da parte del giudice di merito dai canoni legali assunti come violati o di una loro applicazione sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti (Cass. n. 6335 del 2014; n. 13860 del 2019).

16. Il contratto collettivo applicato al rapporto in esame disciplina il diritto alla conservazione del posto attraverso due distinte disposizioni: l’art. 41, relativo alle assenze per malattia, come si ricava dalla rubrica e dal tenore del primo comma, formulati con esclusivo riferimento alla malattia; l’art. 50, quanto alle assenze causate da infortunio sul lavoro o malattia professionale.

17. L’art. 41 individua un termine massimo di conservazione del posto di lavoro in caso di assenze per malattie protrattesi fino a 12 mesi (comporto secco, comprensivo di malattie con intervalli non superiori a trenta giorni) oppure 24 mesi nell’arco di 48mesi consecutivi (comporto per sommatoria).

18. L’art. 50, per l’ipotesi di assenze dovute a infortunio sul lavoro o malattia professionale, prevede che il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto.

La disposizione ha carattere generale e non contiene alcun riferimento alla responsabilità datoriale né ad un termine massimo ma contempla una sola eccezione, espressa con la locuzione “Fermo restando quanto previsto al comma VI”.

Il comma VI sancisce che, in caso di assenza dovuta ad infortuni sul lavoro o a malattia professionale, i primi sedici mesi non sono considerati utili ai fini del computo per sommatoria, di cui al secondo comma dell’art. 41.

Il che significa che le assenze per le causali suddette che si protraggano oltre i sedici mesi vanno computate ai fini del calcolo del tetto massimo di conservazione del posto di 24 mesi.

Da ciò si desume, a contrario, che le assenze causate da infortuni o malattie professionali non rilevano, cioè non vanno mai computate, ai fini del comporto cd. secco.

19. In tal senso depone, anzitutto, il chiaro tenore letterale delle disposizioni esaminate e la loro interpretazione sistematica, atteso che ciascuna regolamenta il diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro ma l’art. 41 riguardo alle assenze per malattia e l’art. 50 riguardo alle assenze per infortuni e malattie professionali.

Sempre in base ai medesimi criteri, la locuzione che apre il primo comma dell’art. 50 (“Fermo restando quanto previsto al comma VI”) introduce, in modo evidente, una eccezione alla regola, poi enunciata, del diritto in generale e senza condizioni alla conservazione del posto di lavoro in caso di assenze per infortuni e malattie professionali.

Il sesto comma, all’evidente fine di contenere l’obbligo del datore di conservazione del posto del dipendente infortunato o che ha contratto una malattia professionale, introduce un limite individuato nelle assenze che si collocano dopo i primi sedici mesi e che saranno computabili unicamente ai fini del comporto per sommatoria, riferito cioè ad una “pluralità di episodi morbosi”.

D’altra parte, dal punto di vista logico, non sarebbe in alcun modo ragionevole una disciplina contrattuale, come intesa dalla Corte di merito, che escludesse il rilievo delle assenze per infortuni e malattie professionali solo dal computo del comporto per sommatoria e non dal calcolo del comporto secco.

L’errore interpretativo dei giudici di merito sta nell’avere essi considerato l’art. 41 come norma generale destinata a regolare il diritto alla conservazione del posto di lavoro in ogni caso, sia per le assenze dovute a malattia comune e sia per quelle dipendenti dalla nocività dell’ambiente di lavoro, ignorando la portata del primo comma dell’art. 50 che, nel disciplinare le conseguenze degli infortuni e malattie professionali, tratta in termini generali anche del diritto alla conservazione del posto di lavoro, risultando la disciplina dell’istituto distribuita in maniera paritetica sulle due disposizioni.

20. Ricorre quindi la violazione denunciata quanto alla interpretazione del contratto collettivo. Per tale ragione, deve accogliersi il primo motivo di ricorso, con assorbimento del secondo motivo, e cassarsi la sentenza impugnata con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità […]”.