(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 2833 depositata il 30 gennaio 2024.

1.Con la sentenza che di seguito pubblichiamo, la Corte di Cassazione ha ribadito che, nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, l’obbligo datoriale dell’amministrazione di motivare il recesso: a) non esclude né attenua la discrezionalità dell’ente nella valutazione dell’esperimento e, b) è finalizzato alla «verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall’altro, all’effettivo andamento della prova stessa», fermo restando che grava sul lavoratore l’onere di dimostrare il perseguimento di finalità discriminatorie o altrimenti illecite o la contraddizione tra recesso e funzione dell’esperimento medesimo (Si v. Cass. nn. 31091/2018; 26679/2018; 23061/2017;21586/2008; 19558/2006).

Lavoro-Recesso dal rapporto di lavoro per mancato superamento della prova–Licenziamento senza preavviso–Motivazione ritorsiva–Prova nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato–Mancato conferimento delle mansioni e responsabilità contrattualmente previsti–Rigetto.

2.Corte di cassazione, sentenza n. 2833/2024.

“[…] Svolgimento del processo.

1. La Corte di Appello di Lecce ha rigettato l’impugnazione proposta dalla Camera di Commercio industria, artigianato e agricoltura (CCIAA) di Lecce nei confronti di L.C.L., avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Lecce.

2. Il lavoratore aveva impugnato dinanzi al Tribunale di Lecce il recesso dal rapporto di lavoro per mancato superamento della prova, che era intervenuto con la determina dirigenziale n. 1 del 9 gennaio 2018, nonché il licenziamento senza preavviso comunicato con nota del 1° marzo 2018 dalla stessa Camera di Commercio, sulla base di addebiti contestati con nota del 5 dicembre 2017, lamentando la nullità, illegittimità e l’inefficacia dei licenziamenti impugnati, in quanto discriminatori, ritorsivi e sorretti unicamente da motivo illecito determinante. Il lavoratore aveva chiesto la reintegra e il risarcimento del danno.

La CCIAA costituitasi in giudizio aveva eccepito la decadenza dall’impugnativa del licenziamento e l’infondatezza nel merito delle domande.

3. Il Tribunale, riuniti i giudizi, aveva respinto l’eccezione di decadenza dall’impugnativa di licenziamento, avendo individuato la lettera a.r. del 19 febbraio 2018 (non il documento datato 26 gennaio 2018) come atto di impugnazione stragiudiziale del recesso, rispetto al quale il ricorso giudiziale del 6 agosto 2018 era tempestivo.

Aveva esposto, comunque, che il termine decadenziale non era applicabile al recesso datoriale sulla base del patto di prova.

Il Tribunale nel merito rilevava che il lavoratore aveva fornito la prova dei fatti dedotti a sostegno della tesi della mancata assegnazione di specifiche mansioni da poter sottoporre a concreta verifica di adeguatezza delle capacità lavorative, e che erano emersi gravi elementi, precisi, concordanti della motivazione ritorsiva esclusiva del recesso nel periodo di prova.

Riguardo al licenziamento per giusta causa che era stato intimato in via subordinata, il Tribunale osservava che, ferma l’autonomia tra procedimento penale e procedimento disciplinare, la contestazione era stata specificata con riguardo al contenuto del decreto penale di condanna emesso dall’autorità giudiziale penale nei confronti del L. per il reato di falso (falso nell’attestazione del possesso dei requisiti per la partecipazione al concorso pubblico per un posto di dirigente presso la Camera di commercio), di cui all’art. 483, cod. pen., e alla sua rilevanza disciplinare.

Tuttavia, con sentenza del GUP del Tribunale di Lecce del 21 giugno 2018-19 settembre 2019, il L. era stato assolto, per cui doveva ritenersi l’insussistenza del fatto contestato, ma anche la natura ritorsiva del licenziamento per i fatti già evidenziati rispetto al primo recesso.

Il Tribunale dichiarava la nullità dei due licenziamenti, con condanna alla reintegra e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per il periodo compreso tra il giorno del primo licenziamento e quello dell’effettiva reintegra e comunque non superiore a 24 mensilità, oltre interessi legali e oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

4. La Corte d’Appello ha rigettato l’impugnazione proposta dalla CCIAA.

Ha ritenuto corretta la decisione del Tribunale di rigetto dell’eccezione di decadenza dall’impugnazione del licenziamento, dovendo il termine in questione decorrere dalla lettera del 19 febbraio 2018, atteso che il documento del 26 gennaio 2018 faceva riferimento al contenzioso amministrativo intercorso tra le parti.

Ha affermato che al L. erano state negozialmente attribuite le funzioni e attribuzioni del dirigente di Area, di talché tale incarico dirigenziale doveva essere conferito, mentre come risultava dalla prova testimoniale, dall’epoca dell’assunzione non gli era stata assegnata né l’Area di competenza, né alcun specifico incarico.

Dunque, a fronte della genericità dei compiti, della scarsezza degli strumenti e di relazioni interpersonali su compiti di ufficio, appariva slegata e irrazionale l’attività richiesta al lavoratore relativa all’elaborazione di relazione dettagliata sul processo di riforma del sistema camerale nell’ambito della riforma della P.A., relazione che comunque era stata consegnata.

Dall’istruttoria emergeva la resistenza dell’Ente in relazione ai molteplici provvedimenti giurisdizionali favorevoli al lavoratore, e anche comportamenti ostruzionistici successivi alla stipula del contratto di lavoro.

Come rilevato dal Tribunale, gravi, precisi e concordanti erano gli elementi di valutazione sull’esclusività della finalità ritorsiva, che con chiarezza emergevano dall’istruttoria, non solo orale ma anche documentale.

Ricordava l’intervento della sentenza del GUP del Tribunale di Lecce di assoluzione.

Il giudice di appello, richiamato l’art. 2 del bando, escludeva che, ai fini disciplinari vi fossero state dichiarazioni non veritiere, atteso che l’espressione “servizio effettivo” non significava necessariamente “servizio di ruolo”.

Non emergevano concreti elementi per affermare la falsità della dichiarazione del 18 agosto 2016 in ordine alla insussistenza di cause di inconferibilità degli incarichi e di incompatibilità ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 39 del 2013.

Pertanto, doveva escludersi la giusta causa di licenziamento, animato invece da finalità ritorsiva.

La Corte d’Appello confermava le statuizioni sulla reintegra e il risarcimento del danno.

5. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la CCIAA prospettando cinque motivi di ricorso.

6. Resiste con controricorso il lavoratore, che ha depositato memoria in prossimità dell’udienza pubblica.

7. La CCIAA ha depositato memoria, con la quale, nel ribadire le proprie difese, ha eccepito l’inammissibilità del controricorso per violazione dell’art. 366, cod. proc. civ.

Ragioni della decisione

1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione di inammissibilità del controricorso formulata da parte ricorrente, atteso che, in ragione dell’articolazione dello stesso, non sono ravvisabili la dedotta carenza dei requisiti previsti da detta norma e la violazione del principio di autosufficienza.

2. Con il primo motivo di ricorso è prospettata la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966 (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.).

La sentenza è censurata per non aver ritenuto che fosse intervenuta la decadenza dall’impugnazione del licenziamento oggetto della determina n. 1 del 2018, comunicata al lavoratore il 9 gennaio 2018.

Ad avviso della ricorrente, erroneamente la Corte d’Appello aveva fatto decorrere il termine decadenziale dalla lettera del 19 febbraio 2018 e non dalla lettera del 26 gennaio 2018.

2.1. Il motivo non è fondato.

La sentenza impugnata (pagg. 7-8), nel rigettare l’eccezione di decadenza, con statuizione che ha priorità logico giuridica, ha affermato che il documento del 26 gennaio 2018 era comunque inidoneo a valere come impugnativa di licenziamento mancando la sottoscrizione del lavoratore, e non essendovi prova del fatto che all’incarico conferito ai propri legali per gli atti preesistenti giudizi, si fosse aggiunto il mandato per l’impugnazione del recesso datoriale.

Pertanto, la Corte d’Appello ha affermato che non si poteva attribuire inequivocabilmente a tale documento l’efficacia di una manifestazione di volontà impugnatoria del lavoratore.

Il giudice di appello ha fatto corretta applicazione dei principi enunciati da questa Corte in materia. La giurisprudenza di legittimità (si v., Cass., n. 16416 del 2019, n. 23603 del 2018 n. 9650 del 2021) ha infatti già affermato che l’impugnativa ex art. 6 della legge n. 604 del 1966 può provenire dal lavoratore personalmente, dall’associazione sindacale, alla quale il potere di rappresentanza è conferito per legge, oppure da un terzo munito di procura, che deve essere rilasciata in forma scritta, ai sensi del combinato disposto degli artt. 6 della legge n. 604 del 1966 e 1392, cod. civ.

Di talché risulta priva di rilevanza la doglianza volta a contestare l’affermata inidoneità della lettera del 26 gennaio 2018, anche quanto al contenuto, poiché riportava argomentazioni di una memoria difensiva elaborata dai legali del lavoratore ai fini del procedimento pendente dinanzi al Tar Lecce.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2096, cod. civ., e dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.).

La sentenza d’appello è censurata con riguardo alla statuizione che al lavoratore non erano stati assegnati compiti poteri e responsabilità, conferenti con le mansioni per cui era stato assunto, come specificate nel contratto, con la conseguenza che l’ente datoriale non avrebbe consentito l’espletamento della prova su mansioni e con modalità idonee ad accertare veramente la capacità lavorativa del dirigente.

Tale decisione avrebbe omesso di considerare che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la pubblica amministrazione datrice di lavoro è sempre titolare del potere di valutazione discrezionale, sia sulle capacità tecniche che sulla personalità ed idoneità del lavoratore ad adempiere gli obblighi discendenti dal rapporto di lavoro, in ragione della funzione del patto di prova. La ricorrente osserva, inoltre, che nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni alla qualifica dirigenziale corrisponde solo l’attitudine professionale all’assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non è applicabile l’art. 2103 cod. civ.

4. Il motivo è inammissibile.

5. L’art. 1, comma 1, della legge n. 580 del 1993, e succ. mod., prevede che “Le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura […], sono enti pubblici dotati di autonomia funzionale […]”.

Il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 29 del 2016 (richiamata da Corte cost., n. 86 del 2017) ha affermato che la suddetta disposizione «non contempla affatto l’asserita attribuzione a dette Camere della natura di enti locali, ma sancisce che […] sono enti pubblici dotati di autonomia funzionale».

6. Come già affermato da questa Corte (Cass., n. 31091 del 2018), nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, l’obbligo datoriale dell’amministrazione di motivare il recesso, non esclude né attenua la discrezionalità dell’ente nella valutazione dell’esperimento, ed è finalizzato alla «verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall’altro, all’effettivo andamento della prova stessa», fermo restando che grava sul lavoratore l’onere di dimostrare il perseguimento di finalità discriminatorie o altrimenti illecite o la contraddizione tra recesso e funzione dell’esperimento medesimo (sono richiamate nella sentenza citata: Cass. n. 26679 del 2018, n. 23061 del 2017, n. 21586 del 2008, n. 19558 del 2006).

7. Occorre premettere che con la determina n. 635 del 2003 veniva bandito un concorso pubblico per esami a n. 2 posti di dirigente in prova nella dotazione organica della CCIAA di Lecce, a cui partecipava il lavoratore.

La Corte d’Appello ha esaminato il contratto di lavoro concluso tra le parti, in relazione al suddetto bando, è ha rilevato che il lavoratore (art. 1) era stato assunto con contratto di lavoro a tempo pieno indeterminato, con inquadramento nella qualifica dirigenziale.

All’art. 3 del contratto di lavoro veniva precisato che: “L’inquadramento giuridico-professionale del dr. C.L. L. avviene nella qualifica di dirigente e le mansioni assegnate sono quelle corrispondenti al livello di funzioni e di responsabilità di dirigente di Area”.

Veniva inoltre precisato che: “In particolare ai dirigenti preposti alla direzione degli uffici e dei servizi spetta la gestione finanziaria tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti ed i provvedimenti che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo. I dirigenti sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa della gestione e dei relativi risultati. I dirigenti camerali esercitano i compiti previsti dalla legge e specificati dallo statuto e dai regolamenti e rispondono nell’esercizio delle funzioni loro assegnate al Segretario generale” […] “Il dott. L. nella sua autonomia funzionale di impegna ad assicurare il funzionamento generale dell’area di assegnazione, informando l’attività gestionale ai criteri di efficienza efficacia e buon andamento”.

Quindi la Corte d’Appello, all’esito dell’interpretazione delle clausole del contratto individuale di lavoro concluso tra le parti, ha affermato che la lettera del contratto rendeva evidente l’infondatezza della tesi della CCIA secondo cui la mancata assegnazione al lavoratore dell’incarico di Dirigente di Area sarebbe stata legittima con le finalità dell’assunzione al lavoro e comunque compatibile con l’espletamento della prova, tanto da rendere sufficiente, ai fini della prova l’assegnazione di una “specifica attività di relazione”.

Al lavoratore erano state negozialmente affidate, in relazione alla dotazione organica, le funzioni e le attribuzioni del Dirigente di Area.

Il fatto che l’affidamento dell’incarico dirigenziale sarebbe dovuto avvenire a cura del Segretario generale, sentita la Giunta, non costituiva una opzione discrezionale poiché a tali organi era rimessa, in attuazione delle competenze interne, solo l’individuazione concreta dell’incarico dirigenziale, il quale, comunque, doveva essere conferito.

La Corte d’Appello ha quindi esaminato le risultanze probatorie.

Il giudice di appello ha affermato che dalle prove testimoniali (teste De Giorgi Francesco), trascritte nella sentenza di primo grado, risultava chiaramente che all’epoca dell’assunzione, ossia a luglio 2017, al L. non era stata assegnata né l’area di competenza, né alcuno specifico incarico, essendogli stato richiesto solo di effettuare “gli approfondimenti preliminari necessari per l’espletamento di lavoro in camera di commercio”, senza che peraltro, gli fosse data alcuna indicazione sul tipo, natura e ambito dell’approfondimento, perché così si voleva “testare il suo grado da autonomia”; in quell’arco temporale non vi erano stati tra il Segretario generale e il L. incontri in relazione all’attività di approfondimento che gli era stata assegnata, né era stato chiesto agli altri dipendenti di relazionarsi con il lavoratore”.

8. La Corte d’Appello, quindi, da un lato ha interpretato le clausole del contratto di lavoro intercorso tra le parti ritenendo che con le stesse si fosse prevista l’attribuzione al lavoratore delle funzioni di dirigente. Dall’altro, con accertamento di fatto, alla luce delle risultanze probatorie, ha rilevato il mancato conferimento delle mansioni e responsabilità contrattualmente previsti, e la sussistenza della finalità ritorsiva.

Giova ricordare che in tema di interpretazione del contratto, la ricerca e l’individuazione della comune volontà dei contraenti è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., (v. Cass. 29111 del 2017), con l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (si v. Cass. n. 28319 del 2017, cfr. anche Cass. n. 27136 del 2017).

Orbene nella fattispecie in esame la ricorrente, non ha censurato adeguatamente l’interpretazione delle clausole negoziali effettuata dal giudice di appello, e in ordine all’accertamento di fatto, ha chiesto nella sostanza un riesame delle risultanze istruttorie che non è ammissibile in sede di legittimità.

La valutazione delle prove raccolte anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 1234 del 2019, n. 20553 del 2021).

Il compito di questa Corte non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito, dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (si v., Cass. n. 11176 del 2017), come, in effetti, è accaduto nel caso in esame.

La Corte d’Appello, nella fattispecie in esame, invero, dopo aver valutato le prove raccolte in giudizio, ha, in modo logico e coerente, indicato le ragioni per le quali ha ritenuto, in fatto, che fosse provata la mancata assegnazione delle mansioni convenute nel contratto di lavoro e la finalità ritorsiva del recesso.

9. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363, cod. civ. in relazione al bando di concorso pubblico per esami approvato con determina dirigenziale n. 635 del 5 agosto 2003 (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.).

La sentenza della Corte di appello non avrebbe intrepretato e applicato correttamente il requisito richiesto nel Bando di concorso consistente nell’aver svolto per un quinquennio servizio alle dipendenze della pubblica amministrazione.

9.1. Il motivo non è fondato.

Le questioni prospettate si pongono come possibile soluzione ermeneutica alternativa al risultato raggiunto dalla Corte d’Appello, laddove dalla motivazione della sentenza impugnata emerge chiaramente come, quegli stessi elementi indicati dalla ricorrente, possono trovare ed hanno anzi trovato -alla stregua dei criteri interpretativi applicati- una diversa giustificazione anch’essa del tutto adeguata a sorreggere la differente conclusione raggiunta sul contenuto della volontà negoziale.

Occorre inoltre precisare che la Corte d’Appello ha premesso che nella contestazione disciplinare del 5 dicembre 2017 e nella lettera di licenziamento del 9 gennaio 2018 gli addebiti riguardavano sole le attestazioni (ritenute false) del 18 agosto 2016 e del 30 settembre 2016; precisava che nel giudizio in esame non ci si doveva occupare della verifica della sussistenza dei requisiti per l’ammissione alla procedura selettiva o per l’assunzione, ma della verifica del fatto che il L. nelle predette attestazioni avesse reso dichiarazioni non veritiere.

Il giudice di appello riporta la previsione dell’art. 2 del bando di concorso, lett. e) “esperienza di servizio effettivo presso pubbliche amministrazioni di almeno 5 anni in una posizione funzionale per l’accesso alla quale è richiesto il possesso del diploma di laurea oppure esperienza professionale di almeno 5 anni e strutture private con la qualifica di dirigente (…)”. Rileva, quindi, come non era stato precisato che dovesse trattarsi di servizio di ruolo, né tale specificazione poteva farsi discendere dalle norme genericamente richiamate nella parte introduttiva del bando (tra cui il regolamento del personale 17 dicembre 2002).

Del resto, lo stesso art. 2 prevedeva in modo equivalente lo svolgimento di attività con qualifica di dirigente presso strutture private per il cui accesso non è necessario l’espletamento di pubblico concorso.

In ragione di tale considerazione, la Corte d’Appello ha affermato che l’espressione verbale servizio effettivo non significava necessariamente univocamente servizio di ruolo. Posto che il concetto di effettività attiene all’esecuzione concreta della prestazione e deve escludersi, laddove il rapporto di lavoro abbia subito sospensioni per altre causali. Ricordava che l’effettività della prestazione nel pubblico impiego privatizzato prescinde dall’immissione in ruolo, come nel caso dei contratti a termine.

Dunque, la Corte d’Appello ha posto in essere un processo interpretativo, che non si è arrestato al tenore letterale delle parole, ma ha considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extra testuali, indicati dal legislatore.

Alla luce di tali considerazioni, in esito ad un articolato proprio ed autonomo ragionamento decisorio (pagg. 13 e 14 della sentenza di appello) il giudice di secondo grado ha ritenuto non sussistente la giusta causa di licenziamento e sussistere la finalità ritorsiva.

Le censure, come formulate, si risolvono nella mera prospettazione di un possibile significato alternativo, delle disposizioni negoziali, diverso da quello accolto dalla Corte territoriale, che è inidoneo ad inficiare la corretta applicazione dei criteri ermeneutici utilizzati dal Giudice di merito, atteso che l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che privilegiata l’altra (Cass. n. 28319 del 2017, n. 27136 del 2017).

10. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1345, 2697 e 2729, cod. civ., nonché dell’art. 97, Cost. (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.). Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.).

La ricorrente deduce la erroneità della sentenza d’appello laddove ha ravvisato la presenza di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti tali da far ritenere che il licenziamento fosse stato dettato unicamente da finalità ritorsive originate dall’annoso contenzioso tra le parti, mentre invece sussistevano le condizioni per il licenziamento per giusta causa.

Ciò, in quanto la Corte di Appello di Lecce ha ritenuto che la mancata assegnazione dei compiti necessari ai fini della prova, la resistenza dell’Ente a molteplici provvedimenti giurisdizionali ed i comportamenti ostruzionistici successivi alla stipulazione del contratto costituissero tutti elementi di valutazione gravi, precisi e concordanti sull’esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento, ritenuto conseguentemente nullo.

La pronunzia, pertanto, ad avviso della ricorrente sarebbe viziata dalla violazione e falsa applicazione degli artt. 1345, 2697 e 2729, cod. civ.

Quanto al licenziamento per giusta causa assume la ricorrente che il lavoratore all’epoca della presentazione della domanda non era dipendete di ruolo dell’amministrazione con almeno 5 anni di anzianità e versava in situazione di incompatibilità espletando altre attività come specificato nel ricorso.

La Corte d’Appello si era, infatti, limitata ad affermare che la veridicità di quanto dichiarato il 18 agosto 2016 doveva essere valutata rispetto alla stessa data, che non risultava che il lavoratore avesse rapporti di lavoro dipendente e che si era impegnato a rimuovere prima dell’immissione in servizio le situazioni di incompatibilità.

11. Con il quinto motivo di ricorso è prospettata la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 9, p. 2 lett. a) CCNL 22 ottobre 2022 del personale dirigente; degli artt. 28 e 55-ter e quater del d. lgs. n. 165 del 2001; dell’art. 75 dpr 28 dicembre 2000 n. 445; dell’art. 97 Cost.; dell’art 12 delle preleggi in combinato disposto con gli artt. 1345, 2119 in relazione agli artt. 2 e 3 del bando di concorso indetto con determina dirigenziale 5 agosto 2003 n. 635, nonché agli artt. 16, 17, 18, 20 e 23 del regolamento camerale approvato con delibera di giunta camerale 17 dicembre 2002 n. 377. violazione e falsa applicazione dell’art. 53 d.lgs. n. 165 del 2001 e d.p.r. 3 del 1957. (art. 360 co. 1 n. 3, cod. proc. civ.) La ricorrente censura, sotto diverso profilo, la statuizione con cui la Corte d’Appello ha escluso che le dichiarazioni del lavoratore contrastassero con la previsione del bando.

Ciò in ragione della non corretta interpretazione dell’art. 2, lettera e), del bando di concorso – a prescindere dall’accertamento del falso da parte del giudice penale, tenuto conto altresì dell’autonomia valutativa tra giurisdizioni – a norma del quale, ai fini dell’ammissione, era richiesta una esperienza di servizio effettivo presso Pubbliche Amministrazioni di almeno cinque anni in una posizione funzionale per l’accesso alla quale è richiesto il possesso del diploma di laurea, oppure di esperienza professionale di almeno cinque anni in strutture private con qualifica di dirigente.

Il bando inoltre richiedeva l’assenza di altri rapporti di impiego pubblico o privato e l’insussistenza di incompatibilità previste dall’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 e del dPR n. 3 del 1957. L’erroneità della sentenza impugnata era evidenziata dall’iter del giudizio di ottemperanza.

12. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono in parte inammissibili e in parte non fondati.

Questa Corte ha già affermato che in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 cod. civ. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale (Cass., n. 9468 del 2019).

Il giudice di appello ha effettuato un’autonoma valutazione, rispetto al giudizio penale, dei fatti contestati.

Con ragionamento decisorio coerente con la funzione della contestazione di consentire la difesa del lavoratore, ha verificato la sussistenza della giusta causa con riguardo al momento delle attestazioni indicate come false (si v. paragrafo che precede quanto ai requisiti per l’ammissione al concorso, di cui all’art. 2, lett. e del bando), accertando che non vi erano concreti elementi per affermare la falsità delle dichiarazioni in ordine alla inesistenza di cause di inconferibilità di incarichi e di incompatibilità ex art. 20 del d.lgs. n. 39 del 2013.

A tale ratio decidendi si aggiunge la statuizione di diritto, non specificamente censurata, che l’eventuale mancata attuazione dell’impegno a rimuovere le cause di incompatibilità al momento dell’assunzione non avrebbe dato luogo a dichiarazione mendace posta a base del licenziamento ma ad un inesatto adempimento, come la mancata comunicazione o richiesta di autorizzazione.

Dunque, con corretto sviluppo dell’iter motivazione logico giuridico in coerenza con i principi sopra richiamati (citata Cass., 9468 del 2019), il giudice di appello, in ragione dell’interpretazione della clausola 2 lett. e), del bando, che si sottrae a censure (si v. paragrafo che precede) e con accertamento di fatto, non rivedibile in questa sede di legittimità, anche in ragione del limitato ambito dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014), in ragione dei principi sopra richiamati, dapprima ha escluso la sussistenza delle condizioni per la legittimità del recesso per mancato superamento della prova e poi ha ravvisato la sussistenza degli elementi ritorsivi e analogo ragionamento decisorio anche in ragione dell’accertamento di fatto e della valutazione delle prove ha fatto con riguardo al licenziamento per giusta causa.

13. Il ricorso deve essere rigettato.

14. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. […]”