Licenziamento. Medico. Molestie personali. Gravità della condotta. Radicale violazione degli obblighi e dei doveri deontologici.

Corte di Cassazione. Sentenza 28 marzo 2022, n. 9931.

Corte di Cassazione, Sentenza 28 marzo 2022, n. 9931.

Nota di Luigi Verde

In materia di licenziamenti disciplinari, nell’ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato dal contratto collettivo come infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione (trattandosi di condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall’art. 12 della I. n. 604 del 1966), a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva.

Licenziamento. Medico. Molestie personali. Gravità della condotta. Radicale violazione degli obblighi e dei doveri deontologici.

 

1. La Corte di Cassazione, con sentenza 28 marzo 2022, n. 9931, ha confermato il licenziamento senza preavviso irrogato a un medico psichiatra per le molestie sessuali ai danni di una paziente. La condotta è stata ritenuta di gravità tale da giustificare il recesso in tronco, non essendo sussumibile nella mera infrazione punita dal CCNL con la sanzione conservativa.

La S.C. ha dunque confermato il licenziamento per giusta causa che un’azienda sanitaria aveva comminato ad un medico psichiatra per aver intrattenuto con una paziente un rapporto estraneo a quello che deve intercorrere tra un medico e la sua paziente, in quanto accompagnato dalla ricerca di una relazione di natura sessuale.

Al medico era stato contestato di aver posto in essere, anche tenuto conto dell’evidente squilibrio di posizioni che caratterizza la relazione professionale di tipo psichiatrico, una condotta di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, neppure a titolo provvisorio.

Il provvedimento di recesso era stato giudicato legittimo anche dalla Corte d’appello, la quale aveva ritenuto provata la condotta oggetto di contestazione ed aveva condiviso la valutazione di gravità già espressa in primo grado.

La Corte di appello aveva già rilevato, in esito all’esame del materiale istruttorio, che “per assiduità delle comunicazioni (in qualsiasi ora del giorno e della notte) e per contenuto degli scambi, la relazione” del sanitario con la paziente “non solo esulasse dalla relazione terapeutica per sconfinare in una impropria relazione personale, mostrando la necessità di interrompere subito una intimità così inopportuna, che invece il medico aveva proseguito ed a sua volta incentivato, fino a che l’intera vicenda si era interrotta bruscamente solo con la segnalazione della paziente alla UOC Psichiatria”; e concluso nel senso che tale condotta integrasse una giusta causa risolutiva del rapporto di lavoro, trattandosi di radicale violazione degli obblighi deontologici del medico nei confronti della propria paziente, a maggior ragione nell’ambito di una terapia psichiatrica. 

La Corte di appello aveva pertanto chiaramente affermato la sussistenza nella specie di una radicale violazione degli obblighi e dei doveri deontologici, che devono presiedere alla relazione tra il medico e il suo paziente, una violazione tanto più grave perché realizzata nel corso di una terapia psichiatrica, che vede, per sua stessa natura, uno dei soggetti coinvolti in una condizione di fragilità o di difficoltà personale; di conseguenza ritenendo che la fattispecie, così come ricostruita alla luce delle circostanze del caso concreto (tra le quali il dimostrato contenuto erotico delle comunicazioni tra il medico e la sua paziente), si collocasse ben al di là della norma, che prevede una sanzione di tipo conservativo per le molestie anche di carattere sessuale, e fosse invece da ricondursi nell’area dei comportamenti non compresi specificamente in altre e precedenti previsioni disciplinari ma nondimeno, per la loro gravità, tali da non consentire la prosecuzione del rapporto, neppure in via provvisoria.

 

2. Dal testo della sentenza

 “[…] Fatti di causa.

  1. Con sentenza n. 205/2020, pubblicata il 25 giugno 2020, la Corte di appello di Firenze ha confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede aveva ritenuto legittimo il licenziamento senza preavviso irrogato, in data 11/11/2013, dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria C. al medico psichiatra dott. G. L.M. per avere lo stesso intrattenuto con una paziente un rapporto estraneo a quello normale tra medico e paziente, in quanto accompagnato dalla ricerca di una relazione di natura sessuale, così ponendo in essere, anche tenuto conto dell’evidente squilibrio di posizioni che caratterizza la relazione professionale di tipo psichiatrico, una condotta di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.
  2. La Corte di appello ha ritenuto provata la condotta oggetto di contestazione, anche con riguardo al contenuto erotico delle comunicazioni intercorse, e condiviso la valutazione di gravità già espressa dal giudice di primo grado; in particolare, ha escluso che la condotta contestata potesse qualificarsi esclusivamente come molestie personali anche a carattere sessuale, con conseguente applicabilità della sanzione conservativa della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di sei mesi, secondo la previsione di cui all’art. 8, comma 8, lettera M) del C.C.N.L. Area della Dirigenza Medico – Veterinaria del Servizio Sanitario Nazionale, con ciò disattendendo la tesi dell’appellante per la quale la disposizione citata non dovrebbe essere limitata alla relazione fra medici colleghi di lavoro o fra medici e soggetti terzi che non siano pazienti.
  3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il L.M. con unico motivo, assistito da memoria, cui ha resistito l’Azienda con controricorso, assistito anch’esso da memoria.
  4. Il Procuratore Generale ha depositato le proprie conclusioni, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o comunque respinto.

Ragioni della decisione

  1. Con il motivo proposto il ricorrente, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 8 C.C.N.L. Area della Dirigenza Medico-Veterinaria del S.S.N., nonché degli artt. 2094 e 2104 cod. civ., censura la sentenza impugnata per avere qualificato la fattispecie come “molestie personali anche a carattere sessuale”, ritenendo peraltro che alla stessa dovesse applicarsi non la norma che specificamente prevede tale condotta e la punisce con la sanzione conservativa della sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino ad un massimo di sei mesi (art. 8, comma 8, lett. M del C.C.N.L.), ma la norma, generale e residuale, che rende possibile l’applicazione del licenziamento in tutti i casi di atti e comportamenti “non ricompresi specificamente nelle lettere precedenti, seppur estranei alla prestazione lavorativa” posti in essere “anche nei confronti di terzi e di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto” (art. 8, comma 11, punto 2, lett. F): conclusione – ad avviso del ricorrente – illegittimamente raggiunta dalla Corte di merito, la quale, allo scopo di rafforzare e aggravare ex post la fattispecie reale oggetto di causa, aveva rilevato che la condotta accertata aveva comportato la violazione dell’obbligo di diligenza e del dovere di correttezza nelle relazioni personali anche con gli utenti, in tal modo aggiungendo alla contestazione originaria, in contrasto con il principio di immodificabilità, elementi ad essa estranei e senza valutare che la violazione dell’art. 2104 cod. civ. è già integralmente contenuta in ogni norma e sanzione disciplinare.
  2. Il motivo non può essere accolto.
  3. La Corte di appello ha ritenuto di condividere la valutazione del giudice di primo grado “a proposito del fatto che la condotta tenuta dal dr. L.M. non potesse qualificarsi esclusivamente come molestie personali anche a carattere sessuale”, così da meritare al più la sanzione conservativa, poiché tale condotta del ricorrente aveva leso “la sfera personale e sessuale della paziente” ed era stata nel contempo realizzata in violazione degli “obblighi fondamentali della relazione fra medico psichiatra e paziente” (cfr. p. 12, penultimo e ultimo capoverso).
  4. In precedenza la Corte aveva già rilevato, in esito all’esame del materiale istruttorio, che “per assiduità delle comunicazioni (in qualsiasi ora del giorno e della notte) e per contenuto degli scambi, la relazione” del L.M. con la paziente “non solo esulasse dalla relazione terapeutica per sconfinare in una impropria relazione personale, mostrando la necessità di interrompere subito una intimità così inopportuna, che invece il dr. L.M. aveva proseguito ed a sua volta incentivato, fino a che l’intera vicenda si era interrotta bruscamente solo con la segnalazione della paziente V. alla UOC Psichiatria”; e concluso nel senso che tale condotta integrasse una “giusta causa risolutiva del rapporto di lavoro, trattandosi di radicale violazione  degli obblighi deontologici del medico nei confronti della propria paziente, a maggior ragione nell’ambito di una terapia psichiatrica” (cfr. p. 10).
  5. La Corte di appello ha, pertanto, chiaramente affermato la sussistenza nella specie di una radicale violazione degli obblighi e dei doveri deontologici, che devono presiedere alla relazione tra il medico e il suo paziente, una violazione tanto più grave perché realizzata nel corso di una terapia psichiatrica, che vede, per sua stessa natura, uno dei soggetti coinvolti in una condizione di fragilità o di difficoltà personale; di conseguenza ritenendo che la fattispecie, così come ricostruita alla luce delle circostanze del caso concreto (tra le quali il dimostrato contenuto erotico delle comunicazioni tra il medico e la sua paziente: cfr. pp. 10-12), si collocasse ben al di là della norma, che prevede una sanzione di tipo conservativo per le molestie anche di carattere sessuale, e fosse invece da ricondursi nell’area dei comportamenti non compresi specificamente in altre e precedenti previsioni disciplinari ma nondimeno, per la loro gravità, tali da non consentire la prosecuzione del rapporto, neppure in via provvisoria.
  6. Ne consegue che il ricorso non si confronta con le specifiche ragioni decisorie poste a sostegno della sentenza impugnata, ragioni espresse in più luoghi della motivazione e del tutto evidenti nella sostanza del ragionamento che ha condotto la Corte a concludere per il rigetto del gravame e la conferma della sentenza di primo grado.
  7. Si deve inoltre rilevare come il ricorrente, nell’inosservanza del requisito di cui all’art. 366, c. 1°, n. 6 cod. proc. civ., si limiti a riportare una proposizione tratta dal contenuto dell’addebito disciplinare e non tale contenuto nella sua interezza, pur denunciando la violazione del principio di immutabilità della contestazione e ponendo conseguentemente la necessità di una sua complessiva valutazione.
  8. D’altra parte, è consolidato e risalente il principio, secondo il quale “In materia di licenziamenti disciplinari, nell’ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato dal contratto collettivo come infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione (trattandosi di condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall’art. 12 della I. n. 604 del 1966), a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva“: principio di recente riaffermato da Cass. n. 14811/2020 (conformi, fra le molte: n. 8621/2020; n. 9223/2015; n. 13353/2011; n. 1173/1996) in una fattispecie, sovrapponibile alla presente, in cui la S.C. ha confermato il licenziamento irrogato ad un dirigente per molestie sessuali, perché non sussumibili, stante la gravità del comportamento posto in essere con abuso di qualità, nelle previsioni contrattuali che disponevano la misura conservativa per i meri atti di molestia, anche sessuale.
  9. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
  10. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
  11. Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, I. n. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 d.p.r. n. 115/2002) – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto (Sez. U n. 4315/2020).

P.Q.M.

respinge il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.p.r. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto […]”.