Testo per l’audizione sul DDL Modifiche costituzionali per l’introduzione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri, AS n. 935 e n. 830.

Roberta Calvano (Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale, Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza).

Fonte: Senato, 6 Dicembre 2023 (www.senato.it>leg.19)

1. Ringraziando il Presidente e la Commissione per questo prestigioso invito, anche per non ripetere osservazioni già svolte nelle precedenti audizioni da autorevolissimi colleghi ho pensato di soffermare le mie brevi riflessioni principalmente sulla questione del metodo delle riforme costituzionali. Nelle precedenti sedute sono stati ricordati i molti tentativi falliti, portati avanti nel corso delle legislature precedenti, intorno all’idea della cosiddetta “grande riforma” che per lungo tempo ha caratterizzato il dibattito sulle riforme. La diffusa erronea considerazione della causa dell’instabilità governativa, problema ben noto della nostra esperienza costituzionale (ma che oggi sembra caratterizzare anche sistemi come quello UK e quello francese, mentre sembra restar ferma la tenuta di quelli spagnolo e tedesco) come problema ascrivibile al dettato costituzionale anziché alla frammentazione e ai caratteri del sistema politico italiano, ha portato a iniziative come quelle del 1983, del 1997, 2006, 2016 tutte fallite. Il passaggio alla revisione puntuale costituisce sicuramente un passo avanti da questo punto di vista. Va rilevato tuttavia come i due ddl all’esame della I Commissione, pur non modificando il bersaglio (e la connessa aberratio ictus), colpiscono si pochi articoli, ma hanno effetti di sistema sull’intera forma di governo che modificano radicalmente. È per questo che è necessaria una considerazione attenta delle ripercussioni sulle altre disposizioni della Costituzione, sull’adeguamento necessario di istituti e leggi di contorno, così come sugli equilibri complessivi del sistema, e nel nostro caso tra gli organi costituzionali di vertice.

2. Da questo punto di vista un primo problema risulta essere quello relativo al rispetto delle norme procedurali e dei principi costituzionali che sono alla loro base. Le audizioni che la Commissione ha avviato sono da salutare sicuramente con grande favore, posto che la discussione su scelte di tale portata ai sensi dell’art. 138 deve avvenire con gli aggravamenti che la nota procedura con doppia deliberazione, i tempi lunghi e le maggioranze ampie richieste, la cui ratio è rappresentata dalla garanzia della rigidità costituzionale, tale da produrre scelte meditate e largamente condivise. Si deve ritenere allora che l’iter debba privilegiare la più vasta partecipazione parlamentare alla discussione, nonché la diffusione nell’opinione pubblica, la massima trasparenza e condivisione sul processo in atto. Ciò, ad avviso di chi scrive, non sarebbe pienamente realizzato ad esempio, se il progetto fosse repentinamente sostituito nei suoi tratti salienti solo al momento della fase deliberativa. 2 Rimanendo sul piano del metodo, si deve dunque far riferimento agli artt. 138 e 139, quindi al rispetto della disciplina concernente oltre al procedimento, anche l’eventuale referendum che potrà essere promosso (su cui si tornerà nell’ultimo §), nonché ai limiti espressi e a quelli taciti previsti per la revisione costituzionale.

3. In relazione al limite espresso di cui all’art. 139, il riferimento in esso alla forma repubblicana, rende possibile considerare sicuramente consentiti interventi di revisione che abbiano ad oggetto la forma di governo. Qualche criticità potrebbe sorgere se la modifica fosse così radicale da far ritenere che si sia toccato invece il cuore della forma di stato, nel suo aspetto di connotazione del rapporto tra governanti e governati basato su alcuni principi fondanti del testo costituzionale, e del resto è noto come le due categorie di forma di Stato e di governo siano connesse ed interdipendenti.

Da questo punto di vista il limite espresso del rispetto della forma repubblicana di cui all’art. 139 si connette con quello tacito, concernente la tutela dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili della Costituzione. Mi sono interrogata dunque se vi siano tra questi principi e diritti fondamentali che possano essere chiamati in causa dai disegni di legge all’esame della Commissione. In questo ambito, esaminando l’articolato del ddl n. 935 in particolare, mi pare che alcuni principi fondamentali possono venire in rilievo più direttamente, altri in via indiretta, ma non per questo da valutare con minor attenzione. Va poi ritenuto che al di fuori del limite dei principi fondamentali e diritti inviolabili, la revisione costituzionale deve consentire un armonico innesto rispetto alle altre norme costituzionali già vigenti, che possono subire invero un contraccolpo o anche uno svuotamento in ragione dell’intervento di revisione, che va quindi ponderato in relazione a tali effetti. Si tratta quindi di modulare la revisione nel segno della miglior garanzia del rispetto dei limiti in primo luogo, e della più razionale armonizzazione col quadro già esistente.

Con riferimento ai primi, si può partire innanzitutto dai principi della rappresentanza politica, dal principio democratico alla base della scelta di fondo della democrazia pluralista, che possono essere diversamente modulati nella legislazione ordinaria, ma che neanche una modifica del testo costituzionale potrebbe costringere nella porta stretta di un risultato elettorale obbligato, così come in un rapporto tra Camere e Governo che rendesse le prime subordinate al secondo tanto da trasformare il rapporto fiduciario in un mero ossequio formale: da questo punto di vista è da ritenere che il rapporto di fiducia o viene abolito, con l’indicazione di un modello alternativo, o se previsto ha un preciso significato (e sulla fedeltà ai modelli la giurisprudenza costituzionale sugli statuti regionali – sentt. nn. 372 e 379 del 2004, 12 del 2006 – rappresenta un punto di riferimento ineludibile). Nelle precedenti audizioni è stato poi fatto riferimento al rischio di una certa compressione del libero mandato parlamentare che deriverebbe dallo scioglimento quale conseguenza ad ogni 3 forte dissenso tra maggioranza e presidente eletto, così come da un eventuale aggiornamento o modifica del programma cui il ddl tenta di “incatenare” il governo e la sua maggioranza.

4. Vi è poi il problema del necessario rispetto del principio dell’eguaglianza del voto in uscita (che viene in rilievo in riferimento alla norma sul 55%), ribadito nella giurisprudenza costituzionale sulle leggi elettorali (sentt. n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017). Da questo punto di vista una revisione costituzionale che risultasse finalizzata a cristallizzare nel testo costituzionale un disposto che in una legge elettorale è stato già dichiarato incostituzionale si porrebbe in una posizione chiaramente antagonistica rispetto al senso della giustizia costituzionale, rendendo la norma di revisione illegittima per una duplice violazione, degli articoli 3 e 48, oltre che degli artt. 134, 136 e 137, comma 3, Cost., andando a contrastare gli effetti del giudicato costituzionale maturatosi sul punto[1].

Tra le conseguenze che potrebbe produrre la disposizione sul 55% vanno poi ricordate quelle concernenti il significato delle maggioranze nell’elezione degli organi di garanzia della Costituzione, che rischierebbero di essere indebolite: ci si riferisce alle norme concernenti l’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83, comma 3, Cost.), dei giudici costituzionali (art. 3, l.cost. n. 2 del 1967), dei componenti laici del CSM (artt. 104 Cost. e 22, l. n. 195/1958), così come alla deliberazione della revisione costituzionale ex art. 138, minando in questo caso il principio della rigidità costituzionale. Rendere ancor più ed anzi automaticamente accessibili tali scelte alle maggioranze politiche contingenti significherebbe poi, come pure è stato ricordato da Enzo Cheli in un bell’articolo su la Stampa di qualche settimana fa[2], rischiare di colpire il principio di cui all’art. 1, base della democrazia costituzionale per cui la Costituzione funge da limite al principio di maggioranza.

5. Ancora sull’art. 48 una piccola notazione merita il terzo comma sul voto degli italiani all’estero, che eleggono le Camere, ma non si dice nulla rispetto al Presidente del Consiglio. Se lo eleggessero (come mi parrebbe inevitabile – ma i due ddl non prevedono nulla in proposito), il loro voto, destinato a confluire nell’elezione di una carica monocratica non potrebbe che avvenire con pieno rispetto dell’eguaglianza del voto, su base nazionale. In tal modo, il voto che è pesato per eleggere pochi parlamentari non potrebbe esserlo per via del principio del voto eguale nell’elezione diretta, e potrebbe diventare decisivo (circa 5 milioni di Un’ultima riflessione in relazione al metodo della riforma è rappresentata dalla verifica circa l’adeguatezza degli strumenti di garanzia all’esito dell’eventuale entrata in vigore della revisione. Si è già detto dell’indebolimento di alcune norme concernenti istituti di garanzia. Si può aggiungere la considerazione dell’annoso problema dell’assenza di un giudice del contenzioso elettorale nel nostro ordinamento (su cui mi sembra sia scaduto il termine di una delega legislativa mai eseguita- l. n. 69 del 2009 peraltro sul solo contenzioso pre-elettorale), una competenza che in altre esperienze costituzionali è affidata alle Corti costituzionali. È stata da tempo segnalata la criticità dell’affidare alla Giunta per le elezioni tale compito, ritenendosi inadeguato che un organo in cui prevale la maggioranza politica possa essere giudice imparziale, la cui necessaria presenza per queste ipotesi è peraltro suggerita dalla Commissione di Venezia[3]. Questo problema diverrebbe vieppiù macroscopico se le contestazioni dovessero riguardare la candidatura e/o l’elezione ad una carica così rilevante come quella di Presidente del Consiglio, eletto e non nominato, la cui entrata in carica dipenderebbe dalla proclamazione dei risultati elettorali. Risultati suscettibili di essere contestati, di coinvolgere brogli etc. Questa vera e propria lacuna, sommata al problema della cd. legislazione elettorale di contorno inadeguata, per quanto concerne anche la parità di chances nella propaganda elettorale, il finanziamento delle campagne elettorali ed il sistema elettorale, accrescerebbe la potenziale pericolosità della verticalizzazione che i due ddl verrebbero a produrre. Priva dei necessari contrappesi rappresentati dalle garanzie costituzionali, come si è ricordato, l’operazione diverrebbe assimilabile a un vero e proprio salto nel buio di un acrobata che, prima di lanciarsi, si adoperi a slegare la rete che protegge le sue evoluzioni nel vuoto.

6. Sempre in connessione alla previsione di un sistema elettorale che debba garantire il risultato del 55% ma altresì in relazione alla elezione diretta del Presidente del Consiglio non più nominato, va segnalata la possibile ripercussione del ddl in modo indiretto su altre norme costituzionali. Nel testo costituzionale è presente infatti, in una pluralità di norme, la scelta di fondo dei Costituenti di contrasto ad ogni tentazione autoritaria, che si è concretizzata tra le altre disposizioni nella prevalenza della componente collegiale nella disciplina dell’organo costituzionale Governo, rispetto a quella monocratica (che nel ddl n. 935 l’art. 95 vedrebbe svuotato il suo significato, mentre il n. 830 modifica radicalmente). Pur considerando modulabili le scelte sulla forma di governo, che come si diceva rientrano nell’alveo delle possibili scelte di revisione costituzionale, si producono due diversi problemi: il disegno di legge n. 935, prevedendo elezione diretta del Presidente del Consiglio, crea un cortocircuito tra due legittimazioni diverse – elettivo/plebiscitaria e fiduciaria che non riesce a far dialogare tra loro -, nonché un indebolimento dei poteri del Presidente della Repubblica tale da comprometterne il ruolo di possibile arbitro delle crisi; il ddl n. 830 verticalizzando il disegno della forma di governo, sembra subordinare totalmente le Camere all’Esecutivo, comprimendo il principio del libero mandato e la rappresentanza politica a ruoli del tutto marginali, allontanando di molto l’impianto della forma di governo dai principi della democrazia costituzionale. Il Presidente eletto godrebbe di una legittimazione molto forte, che, in caso di contrasto con la sua maggioranza sin dal suo insediamento, magari sulle scelte dei ministri, in caso di mancata fiducia iniziale potenzialmente potrebbe sfociare in una crisi senza precedenti: immagino un Premier in pectore che si rifiuti di tornare a sottoporsi al voto di fiducia iniziale e che pretenda sulla base della legittimazione elettorale plebiscitaria che gli deriva dall’elezione diretta, governare con un suo gabinetto, con un Capo dello Stato che avrebbe paradossalmente il solo strumento dello scioglimento anticipato per uscire da questa impasse. Più in generale, l’irrigidimento significativo immaginato da entrambi i progetti rischia di produrre una nuova fragilità nelle dinamiche della forma di governo, nella quale governo e parlamentari sarebbero incatenati al programma ed alla formula politica, non prospettandosi strumenti di garanzia e possibili soluzioni per gli imprevisti e le emergenze che possono investire, come l’esperienza ci ha insegnato, le nostre istituzioni. E da questo punto di vista si deve ricordare che, se pure una notevole instabilità ha caratterizzato la durata dei governi, la costruzione a maglie larghe e l’elasticità del modello creato dai Costituenti, ha consentito di superare diverse traversie molto difficili, come ad esempio gli anni di piombo, tangentopoli, alcune serie calamità naturali e crisi economiche, o anche fenomeni nuovi come la pandemia, ed ha permesso di reggere a 75 anni, al sistema che si vuole modificare. Le cause dell’instabilità governativa sono note e si collocano invece nella fragilità e litigiosità che contraddistingue il sistema dei partiti, che potrebbe essere avversata tramite la disciplina dei partiti, le leggi elettorali e altri meccanismi, anche introducibili a livello costituzionale.

7. Proseguendo l’esame del rispetto delle norme di cui agli artt. 138 e 139, una riflessione finale merita l’eventualità del referendum costituzionale, l’istituto che tramite l’iniziativa delle minoranze parlamentari, popolari o territoriali, ad ulteriore garanzia della rigidità costituzionale, porta gli elettori al voto sul testo deliberato. Un voto che per rispettare i caratteri di cui all’art. 48 Cost. deve vertere su un testo che sin dalla sua gestazione deve tener conto 6 nel suo titolo e nel suo contenuto di questo possibile approdo della consultazione popolare. Sul tema della libertà del voto referendario vi è un’ampia giurisprudenza della Corte costituzionale che ha riguardato il diverso istituto del referendum abrogativo, ma rispetto alla quale pare inevitabile ritenere che la libertà del diritto fondamentale di voto sia a maggior ragione incomprimibile nel momento di una scelta cruciale come quella riguardante la revisione costituzionale. Il voto quindi non solo deve riguardare questioni omogenee, per evitare di costringere l’elettore ad un solo sì o no su questioni su cui può avere opinioni diverse (forse la scelta dei senatori a vita potrebbe non esserlo con quella inerente l’elezione diretta del Presidente del Consiglio), ma deve consentire una piena consapevolezza dell’elettore circa gli effetti prodotti dal referendum (tanto che i quesiti referendari non sono ammessi qualora non univoci: ossia la “direzione del voto” non sia chiara dalla formulazione del quesito e dalla normativa di risulta).

Da questo punto di vista viene in rilievo altresì l’art. 16 della l. n. 352 del 1970, che nel prevedere il titolo dei quesiti referendari relativi alle leggi di revisione costituzionale, richiede l’espressa indicazione dell’articolo (o degli articoli) oggetto della revisione, oltre ad un riferimento sintetico al contenuto, mentre per le leggi costituzionali rinvia all’indicazione dell’oggetto.[4]4 Un punto di riferimento importante in questa materia è poi il Codice delle buone pratiche in materia elettorale della Commissione di Venezia, che sottolinea che la: “chiarezza della domanda rappresenta un aspetto cruciale della libertà degli elettori di farsi un’opinione. La domanda non deve essere fuorviante; non deve suggerire una risposta, soprattutto menzionando le conseguenze presunte dell’approvazione o del rigetto della proposta”[5]5 . Se si considera che il quesito referendario è spesso ricavato dal titolo della legge si comprende bene come questa notazione diventa rilevante, in presenza di un titolo che suggerisce un effetto di rafforzamento della stabilità che nel corso di queste audizioni è stato considerato controverso se non proprio incerto.

La sottoposizione al voto popolare di una legge di revisione sotto l’egida di ciò che è ritenuto il suo obiettivo (oltre al suo contenuto, concernente la scelta dell’elezione diretta del premier), contribuirebbe ad una complessiva connotazione plebiscitaria di un voto che sarebbe certamente in contrasto con la ratio di garanzia della rigidità della Costituzione del referendum costituzionale. L’art. 138, infatti, nell’attribuire alle minoranze l’iniziativa dello strumento referendario sulla revisione costituzionale, ha voluto costruire appunto uno strumento di garanzia della rigidità (se non vi è richiesta di referendum infatti la legge di revisione viene promulgata ed entra in vigore). Sappiamo come poi la prassi si sia discostata da questa ratio, con un uso del referendum come strumento di legittimazione degli interventi di revisione da parte delle maggioranze che ne erano via via autrici, nella lunga stagione dell’impiego dell’art. 138 nella dialettica maggioranza-opposizione a seguito della maggiore accessibilità delle maggioranze previste dall’art. 138 in presenza di sistemi elettorali maggioritari. La ratio che fonda la collocazione dello strumento referendario nel procedimento di revisione costituzionale appare insomma essere stata aggirata, e poi dimenticata, ed andrebbe invece recuperata, anche nell’indicazione di un titolo delle leggi di revisione e quindi della formulazione di quesiti referendari che siano pienamente rispettose della libertà del voto, nel senso di piena consapevolezza dei suoi esiti da parte degli elettori.


[1] Per ragioni di spazio rinvio per maggiori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali al mio Perché non sia un’occasione mancata, in Colpe di Stato, Atto II, Crimini nazisti e immunità degli Stati di nuovo davanti alla Consulta, a cura di G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI, in Forum di Quaderni costituzionali, Rassegna, 2 del 2023, p. 74 (https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wpcontent/uploads/2023/06/volume-intero-Amicus-Curiae-2023-3.pdf); ID. Lo stare decisis nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giurisprudenza. Costituzionale, 2/1996.

[2] Il premierato è una riforma eversiva, troppi poteri nelle mani di una persona, in La Stampa, 7 settembre 2023. 4 potenziali elettori) rendendo macroscopiche peraltro alcune criticità del voto all’ estero, di cui è stato finora possibile contenere i contraccolpi per via del numero ridotto degli eletti della circoscrizione estero. Queste criticità potrebbero diventare esplosive nel caso della elezione diretta del premier.

[3] Codice buona condotta in materia elettorale (18-19 ottobre 2002), cit., “L’istanza di ricorso in materia elettorale deve essere presentata sia presso una commissione elettorale sia presso un tribunale. Un ricorso davanti al Parlamento può essere previsto in prima istanza per ciò che concerne le elezioni del Parlamento. In tutti i casi, un ricorso davanti ad un tribunale deve essere possibile in ultima istanza”, p. 11.

[4] Art. 16. Il quesito da sottoporre a referendum consiste nella formula seguente: “Approvate il testo della legge di revisione dell’articolo… (o degli articoli…) della Costituzione, concernente… (o concernenti…), approvato dal Parlamento e pubblicato – nella Gazzetta Ufficiale numero… del… ?”; ovvero: “Approvate il testo della legge costituzionale.. concernente… approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero… del… ?”.

[5] Codice di buona condotta sui referendum, 17 marzo 2007 p. 18. V. poi ove si dice che “L’associazione di una proposta espressa con formulazione specifica e di una proposta formulata in maniera generale o una questione di principio creerebbero confusione, impedendo agli elettori di essere informati del rilievo dei loro voti, pregiudicando di conseguenza il loro libero suffragio.” p. 21)