(Studio legale G. Arrigo, G. Patrizi, G. Dobici)
Nota di Gustav IDA.
Con l’ordinanza n. 31561/2023, la Corte di Cassazione è di nuovo intervenuta sull’obbligo di repêchage, affrontando il caso di una cassiera di un bar licenziata in seguito alla chiusura dell’attività per alcuni mesi a causa di incendio e riaperto dopo una riorganizzazione. Secondo la S.C.. il rispetto dell’obbligo di repêchage comporta una valutazione delle capacità specifiche della lavoratrice licenziata. Per ritenere quindi legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (in prosieguo: GMO) non è sufficiente la soppressione del posto di lavoro, se nel frattempo sono stati assunti nuovi dipendenti pur con profili diversi.
1. Nel caso di licenziamento per GMO, il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non può rappresentare una circostanza muta di significato, ma, anzi, costituisce un elemento che il giudice dovrà valutare per accertare in concreto se chi è stato licenziato fosse o meno in grado -sulla base di circostanze oggettivamente verificabili addotte dal datore ed avuto riguardo alla specifica formazione ed alla intera esperienza professionale del dipendente- di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo, sebbene inquadrato nello stesso livello o in livello inferiore.
In giudizio, il datore è tenuto a dimostrare, sulla base di elementi oggettivi, le ragioni per le quali il dipendente licenziato non poteva essere ricollocato nelle mansioni di pari livello assegnate a lavoratori assunti successivamente. La Corte non afferma che tutte le mansioni sono esigibili ma ritiene che il sistema contrattuale delle classificazioni abbia un peso determinante ai fini della verifica.
Il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non può rappresentare una circostanza muta di significato, ma, anzi, costituisce un elemento che il giudice dovrà valutare per accertare in concreto se chi è stato licenziato fosse o meno in grado – sulla base di circostanze oggettivamente verificabili addotte dal datore ed avuto riguardo alla specifica formazione ed alla intera esperienza professionale del dipendente – di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo, sebbene inquadrato nello stesso livello o in livello inferiore.
I giudici di legittimità osservano in particolare che in tema di licenziamento per GMO, nel quadro successivo alle modifiche introdotte dal cd. Jobs act allo ius variandi, “il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non può rappresentare una circostanza muta di significato, ma, anzi, costituisce un elemento che il giudice dovrà valutare per accertare in concreto se chi è stato licenziato fosse o meno in grado – sulla base di circostanze oggettivamente verificabili addotte dal datore ed avuto riguardo alla specifica formazione ed alla intera esperienza professionale del dipendente – di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo, sebbene inquadrato nello stesso livello o in livello inferiore”.
2. Evoluzione dell’obbligo di repêchage. La Corte di Cassazione, a partire dal D.lgs. n. 81/2015, ha ampliato l’ambito di applicazione dell’obbligo di repêchage, proprio alla luce dell’abrogazione del principio di equivalenza ex art. 2103 c.c. in seguito al cit. D.Lgs. n. 81/2015, affermando che tale obbligo si estende anche a mansioni inferiori (si v. tra le molte, Cass. nn. 160/2017; 13379/2017; 22798/2016; 26467/2016).
Poiché le innovazioni introdotte dal legislatore al cd. ius variandi hanno superato il limite posto al datore di lavoro del rispetto della capacità professionale acquisita dal prestatore, è opportuno individuare le ricadute della rimozione del principio dell’equivalenza ex art. 2103 c.c. sulla conservazione del posto di lavoro.
Il datore dispone invero, oggi, di un potere più ampio con riferimento ad una collocazione flessibile del prestatore nell’ambito della propria organizzazione del lavoro in senso sia orizzontale che verticale (nel senso della possibilità di adibire il prestatore a mansioni inferiori). Il datore, in caso di licenziamento per motivo oggettivo, con riferimento all’obbligo di repêchage non è più vincolato al rispetto delle disposizioni in materia di divieto di variazione delle mansioni, così come previste dalla precedente formulazione dell’art. 2103 c.c. La nuova impostazione normativa consente, invece, al datore di adibire il lavoratore a mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore in ragione di una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla sua posizione (art. 2103 c.c., co. 2). La norma in parola poi, al successivo comma sesto, consente anche la stipula di patti di dequalificazione con il prestatore volti a tutelare il posto di lavoro. Al riguardo, sono state infatti disciplinate ipotesi legali di tipo tassativo nelle quali è ammesso il cosiddetto “patto in deroga” alle mansioni del livello posseduto, tra le quali viene espressamente prevista quella della “conservazione del posto di lavoro”.
In ragione delle citate modifiche legislative dell’art. 2103 c.c., il datore, prima di procedere al licenziamento per GMO, ha l’obbligo di ricercare posizioni alternative, non solo con riferimento a mansioni riconducibili alla categoria di appartenenza o, comunque, al livello posseduto dal prestatore al momento del recesso, ma anche a quelle di tipo inferiore (sul demansionamento, quale unica alternativa al recesso datoriale che non necessita di apposito patto o richiesta, si v. Cass. n. 23698/2015).
3. Pubblichiamo di seguito ampi stralci dell’Ordinanza n. 31561, depositata il 13 novembre 2023.
“La Corte suprema di Cassazione, Sezione lavoro […]
ha pronunciato la seguente ORDINANZA […]
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado resa all’esito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha respinto l’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato il 5 aprile 2017 a M.K. dalla C. di G. C. & C. snc;
2. La Corte ha innanzitutto evidenziato che:
“contrariamente a quanto dedotto dalla K., a seguito della riapertura del locale (chiuso per un lungo periodo a causa di un incendio), il posto di lavoro di cassiera fissa è stato soppresso. Di tanto riferiscono tutti i testimoni escussi”;
ha, poi, ritenuto come fosse provato che la K. avesse sempre e soltanto svolto mansioni di cassiera e giammai di addetta al bancone o ai tavoli, le uniche mansioni rimaste dopo la riorganizzazione aziendale successiva all’incendio; la Corte ha aggiunto: “A nulla rileva il fatto – del tutto fortuito e variabile – per cui molteplici qualifiche vengano dal contratto collettivo poste nello stesso livello di inquadramento. Tale operazione, infatti, rileva ad altri fini, ossia per individuare il regime normativo e retributivo del rapporto di lavoro dei dipendenti così inquadrati, ma è del tutto <neutra>, ossia non significativa, ai fini della fungibilità delle relative mansioni. Quest’ultima va intesa come possibilità tecnico-giuridica di espletare altre mansioni, per le quali sia sufficiente il bagaglio professionale già posseduto, dunque riutilizzabile senza necessità di ulteriore formazione, né, tantomeno, di riqualificazione professionale. Così intesa, la <fungibilità> delle mansioni resta pur sempre ancorata alle identità o comunque alla stretta omogeneità delle competenze ed esperienze necessarie per il loro esatto adempimento”;
infine, la Corte, ribadito che “le mansioni di addetto al bancone o ai tavoli (secondo massime di comune esperienza) implicano una specifica professionalità che il cassiere non ha”, ha trovato conforto nel convincimento espresso nel fatto che “le successive assunzioni (e/o le successive somministrazioni di manodopera) […] hanno interessato lavoratori adibiti a mansioni non di cassiere, bensì di cameriere, aiuto cuoco, lavapiatti ed altro”;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con quattro motivi; ha resistito con controricorso la società;
parte controricorrente ha comunicato memoria; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Considerato che
1. i motivi del ricorso possono essere come di seguito sintetizzati:
1.1. il primo motivo denuncia: “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3, 4, 35, 36, 41 e 117 Cost. e dell’art. 3 legge 604/66, in combinato disposto con l’art. 2103 c.c. come novellato dall’art. 57 del d. l.vo 15 giugno 2015, n. 81 nonché dell’art. 2697 c.c. rispetto al giudizio di insussistenza delle condizioni di repêchage”;
si eccepisce che “la sentenza della Corte distrettuale, pur dando atto della presenza di una evidenza documentale dell’assunzione di <camerieri>, <aiuto cuochi>, <lavapiatti> ed <altro> contestualmente al licenziamento della ricorrente esclude la violazione dell’obbligo di repêchage perché le assunzioni non riguardano propriamente profili di <cassiere>; si critica la sentenza impugnata perché, pur avendo riscontrato la presenza di assunzioni del tutto compatibili con il contenuto dell’onere di repêchage, “ha erroneamente escluso che tali assunzioni assumessero rilevanza nel giudizio di illegittimità del licenziamento perché non riconducibili al profilo specifico di cassiera”;
1.2. il secondo motivo denuncia: “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. nella parte in cui la sentenza ha ritenuto in assenza di prova che la professionalità della cassiera fosse diversa rispetto a quella di un addetto al bar o alla sala con mansioni di incasso”;
1.3. col terzo mezzo si lamenta la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 18, 7° co. legge 20 maggio 1970 n 300 per avere escluso il diritto alla reintegra nel posto di lavoro per manifesta infondatezza del licenziamento”;
1.4. con l’ultimo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., criticando la condanna alle spese del doppio grado di giudizio;
2. il Collegio reputa fondati i primi due motivi di ricorso nei limiti espressi dalla motivazione che segue;
2.1. secondo una oramai consolidata giurisprudenza di questa Corte, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (ab imo: Cass. n. 5592 del 2016); trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro ha sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti, di tipo indiziario o presuntivo, idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale (cfr. Cass n. 10435 del 2018); usualmente si prova che nella fase concomitante e successiva al recesso, per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal prestatore (v. Cass. n. 6497 del 2021, con la giurisprudenza ivi citata al punto 6);
2.2. sin da Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998, poi, è stato sancito il principio per il quale la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ex art. 3 l. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori; l’arresto riposa sull’assunto razionale dell’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto; il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, è stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale, ravvisandosi le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (Cass. n. 21579 del 2008; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019; Cass. n. 31520 del 2019);
è stato, così, stabilito che il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili situazioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore (cfr. Cass. n. 10018 del 2016; v. pure Cass. n. 23698 del 2015; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019);
2.3. inoltre, è stato affermato che, pur non potendosi pregiudizialmente negare che l’obbligo di repêchage possa incontrare un limite nel fatto che il licenziando non abbia la capacità professionale richiesta per occupare il diverso posto di lavoro, tuttavia è evidente che ciò debba risultare da circostanze oggettivamente riscontrabili palesate dal datore di lavoro; diversamente ragionando si lascerebbe l’adempimento dell’obbligo alla volontà meramente potestativa dell’imprenditore, che potrebbe riservare la scelta a valutazioni che, in quanto occulte, non potrebbero essere sindacabili neanche nella loro effettività e veridicità; in altre parole se l’eterogeneità del corredo di capacità e di esperienze professionali rispetto alla diversa posizione lavorativa libera in azienda può far venire meno il fondamento stesso dell’obbligo di repêchage, che evidentemente postula che le energie lavorative del dipendente siano utilmente impiegabili nelle alternative mansioni che al medesimo debbano essere assegnate, tuttavia ciò non significa che si possa affidare al datore di lavoro la potestà di far operare la riallocazione su posto vacante secondo una sua valutazione meramente discrezionale, riservata e insindacabile, la quale si tradurrebbe nello svuotamento dell’obbligo di ripescaggio da ogni contenuto prescrittivo (in termini: Cass. n. 13809 del 2017; conf. Cass. n. 23340 del 2018);
2.4. tutto ciò premesso, avuto riguardo al caso di specie, una volta accertato che il datore di lavoro ha proceduto ad una serie di assunzioni contestualmente o in periodo prossimo (cfr., da ultimo, Cass. n. 12132 del 2023) al licenziamento, la verifica in ordine alla incapacità professionale del licenziato di svolgere le mansioni, anche inferiori, alle quali sono stati destinati i neoassunti deve essere effettuata non in astratto ma in concreto, sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili allegate dal datore ed avuto riguardo alla specifica condizione ed alla intera storia professionale di un ben individuato lavoratore;
in particolare, la verifica non può essere condotta sulla base del rilievo che le successive assunzioni “hanno interessato lavoratori adibiti a mansioni non di cassiere”, bensì sulla dimostrazione in concreto che la K. non fosse in grado di occupare alcuno dei ruoli per i quali sono state assunte dalla C. dieci figure professionali tra “cameriere, aiuto cuoco, lavapiatti ed altro”, come accertato dalla stessa Corte territoriale, non essendo certo sufficiente basarsi su non meglio precisate massime di esperienza che, evidentemente, nulla possono dire se la K. – e non una cassiera in generale – fosse o meno in grado di svolgere quei compiti per i quali sono stati assunti altri;
2.5. neanche può essere condivisa la svalutazione – compiuta dalla Corte territoriale in difformità con quanto ritenuto dalla sentenza di primo grado – della circostanza che il profilo di “cassiere” rientrasse nel V livello del CCNL pubblici esercizi e che alcuni nuovi assunti fossero stati inquadrati nel medesimo livello o anche in livello inferiore, circostanza considerata dalla sentenza impugnata “del tutto <neutra>, ossia non significativa, ai fini della fungibilità delle relative mansioni”;
invero, secondo l’attuale formulazione dell’art. 2103 c.c., scomparso dal testo statutario il parametro di giudizio dell’equivalenza, “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto […] ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte” (comma 1), di modo che l’area delle mansioni esigibili dall’imprenditore nei confronti del lavoratore è delimitata per relationem dal livello di inquadramento individuato sulla base della disciplina collettiva applicabile, oltre che dalla categoria legale;
analogamente con quanto già accaduto per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni (tra molte v. Cass. n. 29624 del 2019), il livello di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva diventa lo strumento di determinazione della mobilità orizzontale, consentendo al datore di mutare le mansioni del dipendente purché “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento”;
inoltre, l’art. 2103 c.c. novellato, al comma 2, stabilisce che “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”; si consente l’assegnazione a mansioni inferiori, anche a prescindere dal consenso del lavoratore, nel caso di modifiche organizzative tra le quali non può certo escludersi la soppressione del posto che incide sulla posizione di un determinato lavoratore tanto da candidarlo al licenziamento;
in tale rinnovato contesto legale, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non può rappresentare una circostanza muta di significato, ma, anzi, costituisce un elemento che il giudice dovrà valutare per accertare in concreto se chi è stato licenziato fosse o meno in grado – sulla base di circostanze oggettivamente verificabili addotte dal datore ed avuto riguardo alla specifica formazione ed alla intera esperienza professionale del dipendente – di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo, sebbene inquadrato nello stesso livello o in livello inferiore;
4. alla stregua di tutte le osservazioni esposte, accolti i primi due motivi di ricorso nei sensi espressi, gli altri restano assorbiti perché successivi in ordine logico-giuridico; la sentenza impugnata va cassata in relazione alle censure ritenute fondate, con rinvio alla Corte indicata in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito provvedendo ad un nuovo esame, regolando anche le spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Accoglie i primi due motivi di ricorso e dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese […]”.
Commenti recenti