Ottant’anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine

(Fonte Treccani.Magazine.Atlante.Cultura)

Sono passati ottant’anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine  del 24 marzo 1944 e nondimeno è forte la sensazione di evocare una ferita ancora aperta: la memoria di quella strage, molto viva di per sé in Italia -e a Roma in particolare- , intercetta, in questo difficile tempo presente, una sensibilità diffusa, legata ai drammatici avvenimenti in corso.

Un passato denso di lutti e di moniti, può apparirci paradossalmente meno distante rispetto ai decenni scorsi, ora che venti di guerra soffiano prepotentemente in Europa e nel Vicino Oriente.

Un presente che ci appare minaccioso anche se abbiamo la consapevolezza che questi ottant’anni, che ci piace ricordare come un periodo di pace, sono stati in realtà macchiati a lungo e in profondità da conflitti armati.

Assistiamo, al di là del merito dei singoli conflitti, a una tendenza generale al riarmo e alla difficoltà delle organizzazioni sovranazionali a imporre tregue e trattative, a salvaguardare per lo meno i civili. Parole che avevamo sperato fossero diventate desuete, come crimine di guerra, deportazione, genocidio, rappresaglia, sono ridiventate di controversa attualità e incrociano la nostra memoria nazionale che ci manda dunque un monito, in questo 2024, più forte e più amaro.

In quel 24 marzo 1944, scolpito nella nostra memoria, per rappresaglia contro l’attacco partigiano di via Rasella, avvenuto nel primo pomeriggio di giovedì 23 marzo, il comando tedesco fece fucilare dieci italiani per ogni tedesco ucciso.

Erano morti nell’attentato 33 soldati del regimento Bozen, che faceva parte della polizia tedesca (Ordnungspolizei); le persone fucilate furono 335 poiché quando le vittime vennero radunate sul luogo dell’eccidio, le SS tedesche si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 5 in più rispetto alle 330 previste dall’ordine di rappresaglia.

Ritennero che rilasciare quei prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri. 

La maggior parte vennero presi nelle carceri dove erano detenuti poiché militavano nei partiti e nei movimenti antifascisti mentre 75 erano stati perseguitati esclusivamente perché ebrei.

Alcuni diventarono casualmente vittime dell’eccidio, poiché detenuti comuni e cittadini rastrellati per la strada al solo scopo di fare numero.

Morirono in quel massacro uomini di tutte le età, dai 15 ai 74 anni, appartenenti a diverse categorie sociali: militari, operai, studenti, artigiani. Nessuno di loro aveva a che fare con l’azione di via Rasella e molti neppure appartenevano alla Resistenza. A dispetto di ricostruzioni distorte eppure molto diffuse, non ci fu nessun appello agli attentatori a presentarsi e la strage avvenne 23 ore dopo l’attentato del giorno precedente; ne fu data notizia soltanto dopo l’esecuzione di massa.

Qual è dunque il senso vivo di questa memoria? Ritroviamo collettivamente in quei martiri la matrice della nostra identità antifascista e della nostra Costituzione, che è stata conquistata a duro prezzo.

E anche l’impegno, in quella stessa linea, al ripudio della guerra poiché è sempre portatrice di atroci violazioni dei diritti umani e di immani perdite, anche fra i civili.