Partecipazione dei lavoratori nel diritto dell'Unione europea

22 Settembre 2019

Partecipazione, informazione e consultazione dei lavoratori nel diritto dell’Unione europea (*)

 

di Gianni Arrigo 

 

Sommario. 1. Premessa. Nozioni di “partecipazione”, “democrazia industriale” e “democrazia economica”. Il “coinvolgimento” dei lavoratori nel (recente) diritto dell’Unione. 2. Origini ed evoluzione della partecipazione dei lavoratori. 3. I diritti di informazione e consultazione nel diritto dell’ Unione europea. Ambito di applicazione: imprese nazionali e imprese transnazionali europee. 4. I diritti di informazione e consultazione nelle imprese nazionali. 5. (Segue). I diritti di informazione e consultazione nelle imprese nazionali secondo la Dir. n. 2002/14. 6. I diritti di informazione e consultazione nelle “imprese di dimensioni comunitarie” e nelle società di diritto europeo. 7. La partecipazione dei lavoratori negli organi societari.  Partecipazione dei lavoratori e “interesse dell’impresa”. 8. La partecipazione economica. Origini ed evoluzione teorica. Orientamenti delle istituzioni comunitarie  9. Partecipazione “debole” e partecipazione “forte”. Fondamento. Critica. Continuità e discontinuità fra i diversi meccanismi del coinvolgimento.

 

  1. Premessa. Nozioni di “partecipazione”, “democrazia industriale” e “democrazia economica”. Il “coinvolgimento” dei lavoratori nel diritto dell’Unione.

1.1. Nei vari sistemi di Relazioni industriali, la locuzione partecipazione dei lavoratori non ha un significato univoco (1), alla stregua delle nozioni di democrazia industriale e democrazia economica, con le quali condivide talune radici culturali nonché determinati elementi ed obiettivi, tanto che i tre termini vengono spesso -e impropriamente- usati come eteronimi di un complesso non unitario e non omogeneo di diritti dei lavoratori. Differenze permangono anche tra i Paesi dell’Unione europea dato che, come si preciserà più avanti, l’armonizzazione delle legislazioni nazionali concerne prevalentemente i diritti di informazione e consultazione, mentre tocca incidentalmente la partecipazione dei lavoratori negli organi societari e non riguarda la partecipazione dei lavoratori all’ economia e al capitale dell’ impresa, alla quale sono riservate norme di indirizzo. La persistente differenza e varietà dei modelli partecipativi nel panorama internazionale è dovuta a molteplici fattori, come, in particolare: la dimensione e la forma giuridica delle imprese; la natura (pubblica o privata) del rapporto di lavoro; il rapporto tra legge e autonomia collettiva, i modelli organizzativi della rappresentanza e dell’azione collettiva, che sono a loro volta il prodotto di culture, tradizioni e prassi sindacali diverse nei vari sistemi giuridici. La detta complessità, se non favorisce delimitazioni concettuali valide per ogni contesto, non impedisce comunque di tentare una definizione generale della partecipazione, basandosi sulle norme internazionali del lavoro e sul diritto dell’ Unione europea, oltre che sulle normative nazionali più evolute in materia. In via di primo approccio si può affermare che la partecipazione dei lavoratori comprende gli istituti e le procedure mediante i quali i lavoratori, in particolare attraverso i loro rappresentanti, esercitano un’influenza sulle decisioni delle imprese da cui dipendono, condividendo talora anche parte delle conseguenze economiche e finanziarie di tali decisioni. A tal proposito merita osservare che se lo scopo di esercitare un’influenza sulle decisioni dell’impresa distingue la partecipazione dei lavoratori da modelli di relazioni aziendali riconducibili a taluni modelli di gestione delle risorse umane, o a forme di “fidelizzazione” dei dipendenti, anche se organizzati sulla base di flussi informativi dal management ai lavoratori, esso non è però carattere esclusivo della partecipazione. Secondo una definizione risalente ma non desueta, la partecipazione dei lavoratori riguarderebbe, infatti, “tutte le possibilità e le esperienze nonché gli organismi e le procedure, volti a modificare o migliorare il loro rapporto e le condizioni di lavoro e, in numerosi casi, anche le loro condizioni socioeconomiche nella società” (2) comprendendo pertanto la stessa contrattazione collettiva (in particolare quella aziendale) perché capace di condizionare anche in modo determinante molte decisioni dell’ impresa (3). A tal proposito la dottrina fa però rilevare che la contrattazione collettiva e la partecipazione, anche se dirette entrambe a condizionare le decisioni dell’impresa -non di rado mediante gli stessi attori ed avendo ad oggetto le stesse materie-, hanno una diversa ratio e natura giuridica. In particolare, la contrattazione collettiva si baserebbe sulla distinzione degli interessi rappresentati dalle parti negoziali nonché sulla libertà di ciascuna di ricorrere a forme di pressione o al conflitto collettivo per contrastare o condizionare le decisioni dell’ altra; elemento, questo, in genere estraneo al metodo partecipativo, nel quale l’ influenza di una parte sulle decisioni dell’ altra avverrebbe per lo più nell’ ambito di un “programma” di reciproca cooperazione da eseguire con “spirito costruttivo”, spesso rafforzato da obblighi di tregua. In ogni caso, la contrattazione collettiva non tollera in via di principio un’astensione totale ed aprioristica dal conflitto, nemmeno quando genera forme di più diretta cooperazione tra lavoratori e impresa e quando è lo stesso contratto collettivo (invece che la legge) ad imporre limiti all’ autotutela collettiva (4).

Una più chiara distinzione tra contrattazione e partecipazione caratterizza gli ordinamenti del centro nord Europa, nei quali gli ambiti dell’ una e dell’ altra -quanto a soggetti legittimati e materie incise dall’ una e dall’ altra- sono delimitati dal legislatore (o dalle stesse Parti sociali, come in Svezia), trovando una più compiuta espressione nel formale dualismo che caratterizza il sistema tedesco di Relazioni industriali, consistente nella separazione tra: a) rappresentanza aziendale dei lavoratori e rappresentanza sindacale; b) contrattazione collettiva e codeterminazione aziendale; c) codeterminazione e partecipazione negli organi societari (5). La delimitazione degli ambiti della contrattazione e della partecipazione non significa però che tra l’una e l’ altra manchino elementi comuni e di continuità. Essi appaiono accentuati nei sistemi nei quali i meccanismi partecipativi trovano fonte privilegiata nel contratto collettivo e attuazione prevalente attraverso organismi aziendali di rappresentanza dei lavoratori organizzati nei moduli del “canale unico” di rappresentanza; ma si rinvengono -pur in forma attenuata- anche nei sistemi basati sul “doppio canale” di rappresentanza dei lavoratori, come quello tedesco, dove non mancano collegamenti di fatto tra le Organizzazioni sindacali dei lavoratori (Gewerkschaften), esclusive titolari del potere contrattuale, e i Consigli d’azienda (Betriebsraete), unici titolari dei diritti di informazione e consultazione, e dove le Organizzazioni sindacali esercitano un’ influenza diretta sulla nomina dei rappresentanti dei lavoratori membri dei Comitato direttivo o del Consiglio di Sorveglianza delle imprese “cogestite”.

Elementi di continuità e d’interazione tra contrattazione e partecipazione, pur nella separazione dei rispettivi ambiti, si rinvengono anche nel diritto dell’ Unione europea. Si pensi ad esempio: a) alla finalizzazione delle procedure di consultazione dei lavoratori, nei casi di licenziamento collettivo, al raggiungimento di un accordo (o alla ricerca di un accordo, laddove si tratti di trasferimento d’azienda) (6); b) all’ attribuzione alla negoziazione collettiva del compito di istituire in seno alle imprese “di dimensioni comunitarie” una rappresentanza transazionale dei lavoratori (il Comitato aziendale europeo) e di definirne i diritti di informazione e consultazione (Dir.n. 2009/38, che modifica la Dir. n. 94/45); c) all’ attribuzione alla contrattazione collettiva del compito di disciplinare forme e modalità del coinvolgimento dei lavoratori, in caso di costituzione di una SE o di una SCE, per garantire la successione, nelle costituende società, dei diritti acquisiti nelle precedenti imprese societarie, sotto il profilo dell’informazione e consultazione o della partecipazione negli organi societari (Dir.n. 2001/86 e Dir. n. 2003/72).

1.3. Un diverso approccio alle nozioni di partecipazione è fornito dalla legislazione europea dei primi anni del secolo XXI, concernente il “coinvolgimento dei lavoratori”, la cui definizione -contenuta nelle Dir. nn. 2001/86, 2002/14, 2003/72- è tale da  comprendere “ogni meccanismo, ivi comprese l’ informazione, la consultazione e la partecipazione, mediante il quale i rappresentanti dei lavoratori possono esercitare un’ influenza sulle decisioni che devono essere adottate nell’ ambito della società”. La detta nozione consente di circoscrivere l’ambito del presente contributo a pochi, essenziali meccanismi, noti a quasi tutti gli ordinamenti giuridici, come l’informazione, la consultazione e la partecipazione dei lavoratori negli organi sociali (d’ ora in avanti “partecipazione organica”) nonché la partecipazione economica e finanziaria, mentre altri strumenti, come ad esempio gli enti bilaterali, sono praticati in pochi contesti (7). Non si darà conto, invece, in queste note, dell’obbligo del datore d’informare il prestatore di lavoro delle condizioni applicabili al contratto di lavoro (Dir. n. 91/533, recepita in Italia col D.lgs. n. 152/97). Come già anticipato, mentre i diritti di informazione e consultazione dei lavoratori trovano una puntuale disciplina in varie direttive comunitarie e un fondamento “costituzionale” nell’ art. 27 della Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea (d’ ora in poi Carta di Nizza), che formano un corpus normativo comune agli Stati membri, la partecipazione organica riceve dal diritto dell’ Unione europea (d’ ora in poi, UE) solo una definizione generale, essendo la sua disciplina posta dal diritto interno, sia per i profili societari che per quelli lavoristici (8). Quanto alla partecipazione economica e finanziaria, essa, come detto, riceve dagli organi dell’ UE provvedimenti di mero indirizzo.

1.4. Con l’ occhio ai testi internazionali ed europei, nonché alle legislazioni e prassi nazionali più avanzate, si può affermare che i vari meccanismi di coinvolgimento dei lavoratori non sono elementi a sé stanti ma parti di un sistema relazionale complesso che partendo dai diritti di informazione e consultazione sulle decisioni dell’ impresa che incidono sulle condizioni di lavoro (in particolare quelle inerenti la tutela della salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro) arriva al diritto dei lavoratori di partecipare agli organi societari di amministrazione e/o di controllo, per esercitare un’ influenza sulle decisioni dell’ impresa. Le suddette modalità sono compatibili tra loro, nonché con sistemi di partecipazione economica e finanziaria. E’ inoltre possibile ipotizzare una co-presenza, negli organi gestori delle società per azioni, di rappresentanti dei lavoratori che vi partecipano su mandato dei lavoratori-azionisti, e di rappresentanti dei lavoratori che vi partecipano in quanto eletti dai lavoratori e/o dai loro rappresentanti, nell’ esercizio del diritto di partecipazione tout court.

  

  1. Origini ed evoluzione della partecipazione dei lavoratori.

2.1. Le nozioni di “partecipazione dei lavoratori”, “democrazia economica” e ”democrazia industriale” sono oggi diverse da quelle formulate a cavallo del Novecento(9). Connotate originariamente in termini di valore, come obiettivi o (elementi di) programmi riformistici, di matrice socialista o laburista (10), esse hanno progressivamente mutato caratteri ed obiettivi integrandosi nei sistemi di Relazioni industriali, sul piano funzionale (“le relazioni industriali partecipative”) e/o strutturale (il “sottosistema partecipativo” delle Relazioni Industriali ) (11).

E’ solo nel primo dopoguerra che l’idea della partecipazione e i programmi di democrazia economica e industriale trovano più organica formulazione teorica e normativa in alcuni Paesi europei. Questa evoluzione è legata alla costituzione di rappresentanze aziendali dei lavoratori e di comitati misti in rappresentanza dei datori e dei prestatori di lavoro, come le “commissioni miste” istituite nel 1918 nelle imprese municipali britanniche, su impulso della la Commissione Whitley (12), o come i Consigli d’ azienda, istituiti per legge in Austria (1919), in Germania e in Cecoslovacchia (1920), e ancor prima in Russia (con un decreto del 23 aprile 1917, che riconosceva alcune forme di comitati di fabbrica).

Quanto alla “democrazia economica”, essa acquista rilevanza sullo sfondo di una valutazione critica della nozione di democrazia, affermata nelle Carte costituzionali dell’ epoca moderna, legata allo schema della rappresentanza politica. Contro la debolezza o l’ insufficienza di un modello di democrazia puramente formale (come meramente formale è la proclamazione dell’ uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, che costituisce il corollario della pari partecipazione all’ esercizio della sovranità popolare), viene fatta valere l’ esigenza di una “democrazia sostanziale”) (13), sottolineandosi che la democrazia non è divisibile dalla struttura economica nella quale vive. Un progetto puntuale di democrazia economia fu quello elaborato da Fritz Naphtali negli anni Venti -in collaborazione con studiosi come Hugo Sinzheimer e Rudolf Hilferding- su incarico del sindacato ADGB, allo scopo di elaborare una teoria organizzativa dell’economia, poi declinata in “democrazia economica” (Wirtschaftsdemokratie). Tale progetto voleva rendere effettivo il principio della democratizzazione dell’economia e dell’impresa, rimasto pura enunciazione formale nell’ art. 165 della Costituzione, attraverso “l’autogoverno del popolo”, al fine di “trasformare gli organi del governo capitalista dell’economia in organi del governo dell’insieme della società”. Il merito del progetto di Wirtschaftsdemokratie, ben oltre i limiti derivanti dalla commistione e contraddizione tra lotta di classe e cooperazione tra capitale e lavoro, tra il valore del termine democrazia e la suggestione delle esperienze delle “repubbliche socialiste” del primo dopoguerra, fu quello di contribuire alla definizione di un “contropotere organizzato” dei lavoratori per contrastare la posizione dominante degli imprenditori nelle singole aziende e nell’ economia nel suo complesso, e partecipare all’ esercizio del potere ai vari livelli (14).

Le idee e i programmi partecipativi furono spenti in Europa dai regimi totalitari, ridestandosi nel secondo dopoguerra con la ricostituzione di organizzazioni e rappresentanze democratiche dei lavoratori ed il riconoscimento, in alcune Carte costituzionali, della partecipazione come diritto fondamentale, ulteriore a quelli di organizzazione e contrattazione collettiva. Il riconoscimento costituzionale dei diritti in argomento non è stato sempre garanzia della loro attuazione (com’ è avvenuto in Italia con l’ art. 46 della Costituzione) (15). Analogamente, l’ assenza di una previsione costituzionale non pregiudica l’ istituzione di sistemi partecipativi. L’esempio più noto è dato dalla Germania, dove il legislatore è intervenuto in materia, nel silenzio del GrundGesetz (Legge Fondamentale, 1949) sulla partecipazione dei lavoratori (Mitbestimmung) come su altri diritti sociali fondamentali, sui quali la Legge fondamentale tace, indicando però come “fine dello Stato” lo Stato sociale di diritto, di cui la Mitbestimmung è una delle “concretizzazioni”, come tale rimessa al legislatore, all’ esecutivo e ai giudici, in particolare al Tribunale costituzionale federale (16).

Le prime leggi tedesche sulla partecipazione risalgono all’ inizio degli anni Cinquanta e toccano due essenziali meccanismi: a) la partecipazione dei lavoratori negli organi societari; b) i diritti di informazione e consultazione dei lavoratori, come elemento essenziale e presupposto della codeterminazione aziendale. Quanto alla prima, il Montanmitbestimmungsgesetz (1951) prevede la composizione paritaria, di rappresentanti dei lavoratori e rappresentanti degli azionisti, del Consiglio di Sorveglianza (Aufsichtsrat) delle imprese carbosiderurgiche con almeno mille dipendenti, attribuendosi la Presidenza ad un soggetto “terzo” (neutraler Mann), e l’ attribuzione, ad un rappresentante dei lavoratori nominato nel Comitato di Direzione (Vorstand), delle funzioni di Arbeitsdirektor. I rappresentanti dei lavoratori sono eletti dall’assemblea degli azionisti su designazione delle organizzazioni sindacali. L’ anno seguente, il Betriebsverfassungsgesetz (Legge sullo statuto aziendale), introduce un sistema di partecipazione minoritaria, prevedendo che i Consigli di Sorveglianza delle società di capitali di ogni settore, con almeno cinquecento dipendenti, debbano essere composti per un terzo dei seggi da rappresentanti dei lavoratori. Il sistema della partecipazione dei lavoratori è stato esteso con opportuni adattamenti ad altri settori: al pubblico impiego (Personalvertetungsgesetz, 1974) e, nella variante della codecisione cd. “quasi-paritaria” (tra l’ altro, per l’ incisivo potere attribuito al Presidente dei CdS, di regola espressione degli azionisti) a tutti i settori economici (Mitbestimmungsgesetz, 1976). Quest’ ultima legge, impugnata dalle Associazioni delle imprese dinanzi il Tribunale costituzionale tedesco per un presunto contrasto con i principi di proprietà e di libertà di associazione, è stata riconosciuta conforme alla Legge fondamentale con una pronuncia che ha suscitato una vasta eco anche sul piano internazionale. Quanto ai diritti di informazione e consultazione, il cit. Betriebsverfassungsgesetz (migliorato a partire dal 1972) riconosce alle sole rappresentanze aziendali dei lavoratori (Betriebsaraete: consigli d’ azienda) diritti di informazione e consultazione, nonché di codeterminazione su talune materie, che possono sfociare in accordi aziendali (Betriebsvereinbarungne).

2.2. All’ampio e ambizioso progetto di “democrazia economica” viene talora contrapposta la nozione di Industrial Democracy (17). Essa, in particolare nell’ esperienza anglosassone, muove da un insieme non organico di fondamenti teorici e comprende una varietà di istituti: da quelli tipici della difesa del lavoro, propri degli inizi del movimento operaio (come le forme di rappresentanza nelle fabbriche, le casse di resistenza, le mutue, ecc., che -in quanto forme di ‘organizzazione sociale’- afferiscono la democrazia associativa) a quelli diretti a condizionare lo stesso ‘processo industriale’ attraverso il conflitto collettivo e la valorizzazione del metodo contrattuale, che tende ad assorbire e risolvere in sè gli aspetti partecipativi, fino a (l’elaborazione di) forme di partecipazione dei lavoratori negli organi delle società commerciali, al fine di “democratizzare” i rapporti di lavoro all’ interno dell’ impresa e di “cambiare la società” e che vanno oltre il metodo contrattuale. Il termine Industrial Democracy è dunque assai ampio: secondo alcuni è corretto parlare di Industrial Democracy solo quando si fa riferimento alla formazione e costruzione di poteri che controbilanciano quello del management. Nell’ esperienza propriamente britannica questo termine abbraccia concetti diversi, sviluppati nell’ arco di vari decenni: dalle teorie di Sidney e Beatrice Webb, al Rapporto elaborato dal Trade Union Congress nel 1974, al “Bullock Report” (rimasto incompiuto in seguito all’ avvento del governo conservatore guidato da Mrs. Thatcher), che proponeva in particolare la partecipazione dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle società con più di 2000 dipendenti, secondo la formula “2X + Y”, indicativa dei dipendenti dell’ impresa (designati dai sindacati) e dei rappresentanti degli azionisti in numero pari (2X), che potevano cooptare soggetti esterni all’ impresa (Y) (18).

La contrapposizione di democrazia economica e democrazia industriale ha trovato consensi in sede teorica fino ad epoca recente, per una sorta di equivoco o di abbrìvo terminologico; essa consente peraltro di apprezzare la complessità della “teoria” e della “prassi” della democrazia nei luoghi di lavoro, nell’ economia e nella società nel suo complesso (democrazia industriale, democrazia economica e democrazia politica): queste forme sembrano legate tra loro da un nesso di continuità e di causalità: “laddove la democrazia industriale decide sui fini e l’ allocazione della produzione in un’ intera industria, quelle decisioni influenzeranno necessariamente (e saranno influenzate da) la politica economica nazionale nel suo complesso, che non può non occuparsi sia della produzione sia della distribuzione; qui la democrazia industriale deve accordarsi con la democrazia economica e anche con la democrazia politica” (19). Un legame più stretto opera nell’ altra direzione: la democrazia economica riguarda la giusta distribuzione non solo del prodotto nazionale lordo ma anche di altri beni sociali, compresa la possibilità di accedere ad impieghi ben remunerati e gratificanti. Uno degli scopi della democrazia economica coinciderebbe pertanto con alcuni obiettivi della democrazia industriale. La continuità tra democrazia economica e democrazia industriale consisterebbe inoltre nel fatto che qualsiasi partecipazione all’ economia dell’ impresa richiede un certo grado di partecipazione alle decisioni riguardanti la sua gestione: su questo aspetto insistono numerose proposte, non soli di legge, discusse in vari Paesi sulla partecipazione economica e/o finanziaria (non di rado con confusione di ruoli, funzioni ed ambiti partecipativi e contrattuali).

2.3. La partecipazione dei lavoratori ha trovato in vari Paesi discipline ed applicazioni diverse. Nei Paesi in via di sviluppo la partecipazione è stata spesso intesa dalle leadership politiche, come strumento concorrente con la contrattazione collettiva e come forma di cooperazione nell’ area del labour-management. L’ interesse dei governi a sviluppare l’ economia nazionale ha fatto sì che la partecipazione fosse intesa come strumento che contribuisse a superare il tradizionale antagonismo nei rapporti tra datore e prestatore di lavoro, da sostituire con forme di cooperazione o di partnership. In altri Paesi, come ad es. gli Stati Uniti, la partecipazione ha trovato uno sviluppo teorico ed applicativo con l’ introduzione di modelli relazionali, caratterizzati come “human relations”, dirette a motivare e coinvolgere i dipendenti con strumenti organizzati per lo più su base diretta e individuale o di gruppo (direct participation), e meno frequentemente collettiva, attraverso i rappresentanti dei lavoratori (indirect participation). Un diverso approccio alla partecipazione è stato quello dell’ autogestione dei lavoratori nelle imprese yugoslave, sotto la lunga presidenza di Tito.

  1.  I diritti di informazione e consultazione nel diritto dell’ Unione europea. Ambito di applicazione: imprese nazionali e imprese transnazionali europee.

3.1. I diritti di coinvolgimento dei lavoratori costituiscono un corpus complesso ed eterogeneo, i cui primi elementi sono prodotti durante una fase di crisi economica internazionale e di trasformazioni produttive ed organizzative che generano riduzioni della forza lavoro, la cui “gestione sociale”, in termini di tutela collettiva e pubblica, varia sensibilmente nei Paesi della Comunità, generando  “distorsioni” al funzionamento del mercato, da ridurre o eliminare mediante norme di armonizzazione. A tal fine sono volte le direttive n. 75/129 e n. 77/187, concernenti la tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo e di trasferimento d’ azienda, la cui adozione è resa possibile, in mancanza di apposite basi giuridiche sociali nel Trattato, dalla Risoluzione del Consiglio sul Programma di azione sociale (1974) (20), che autorizza il ricorso all’ 100 del Trattato CEE (ora art. 115 del Trattato sul funzionamento dell’UE: TFUE) e sollecita le istituzioni comuni e gli Stati membri a promuovere una maggiore “partecipazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti alla vita delle imprese nella Comunità”, necessaria ad acquisire consenso sociale nella gestione delle crisi e trasformazioni aziendali. Un sostegno ulteriore ai diritti in parola proviene dieci anni dopo -in una fase non meno critica dell’ integrazione comunitaria-, dal Dialogo sociale europeo di Val Duchesse (coordinato dalla Commissione europea), nel cui ambito le Organizzazioni sindacali europee Ces, Unice e Ceep, convengono in una Dichiarazione comune sulla necessità che i lavoratori siano “informati e consultati al momento dell’ introduzione di nuove tecnologie in conformità con la legislazione vigente, gli accordi e le prassi degli Stati membri” (12 novembre 1985). Questo comune sentire favorisce l’introduzione nel Trattato, con la “novella” dell’ Atto unico europeo (1987), di nuove basi giuridica, come l’ art. 118A, che consentono l’ adozione della Dir. n. 89/391 (volta a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro), la quale configura i diritti di informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori come presupposti del “miglioramento della sicurezza e della salute”.

Nello stesso anno 1989, la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori -(d’ ora in poi, Carta comunitaria, firmata solo nel 1998 dal Regno Unito, con il primo governo di Tony Blair)- dichiarazione solenne, equivalente ad un atto di indirizzo politico agli Stati membri e alle istituzioni comunitarie, riconosce come fondamentali i diritti in parola anche in seno alle imprese (ed ai gruppi) transnazionali (21). I princìpi della Carta comunitaria, assorbiti nel Programma d’ azione della Commissione (1989) e uniti all’ ulteriore ampliamento delle competenze sociali della Comunità, nel Trattato di Maastricht (1992) -inizialmente vincolante solo undici Stati (godendo il Regno Unito di una clausola di esenzione parziale nella Politica sociale, revocata col Trattato di Amsterdam, del 1997)- consentono di estendere l’ ambito delle tutele in caso di licenziamenti collettivi (con la Dir. 92/56, che modifica la Dir.n. 75/129) e di emanare la Dir. n. 94/45, istitutiva dei Comitati aziendali europei (modificata dalla Dir. n. 2009/38). L’esplicito riferimento di questi provvedimenti a taluni principi fondamentali “propri della Comunità” (come quelli della Carta comunitaria), più pregnante del riferimento ai “principi comuni agli Stati membri”, traduce in termini formali la progressiva autonomia del diritto del lavoro dal diritto della concorrenza e del mercato, anche se il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori deve conciliarsi con la “necessità di mantenere la competitività dell’ economia della Comunità” (art. 136,TCE; ora art. 151, TFUE). Il consolidamento delle innovazioni istituzionali e la loro condivisione da parte di tutti gli Stati membri, sin dal trattato di Amsterdam, porta a riconoscere i diritti in argomento come diritti fondamentali nella Carta di Nizza (2000), e ad emanare provvedimenti, innovativi anche per molti ordinamenti nazionali, in materia di diritti di informazione e consultazione, vincolanti le imprese transnazionali (Dir, n. 2001/86; Dir. n. 2003/72; Dir. n. 2005/56) e quelle nazionali (Dir. n. 2002/14). In seguito al conferimento alla Carta di Nizza di un valore giuridico pari a quello dei Trattati, disposto dal Trattato di Lisbona (2007), il “diritto dei lavoratori all’ informazione e alla consultazione nell’ ambito dell’ impresa” (collocato nell’ art. 27 della Carta di Nizza, singolarmente prima del “diritto di negoziazione e di azioni collettive”, enunciato all’ art. 28) è riconosciuto come diritto fondamentale dell’ UE. Esso prevede che “ai lavoratori o ai loro rappresentanti devono essere garantite, ai livelli appropriati, l’informazione e la consultazione in tempo utile nei casi e alle condizioni previsti dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali”, e pertanto ai vari livelli organizzativi dell’impresa e della rappresentanza collettiva, secondo il diritto dell’ UE e le norme nazionali. Inoltre, poiché la Carta di Nizza richiama nel Preambolo “i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa”, acquista rilevanza anche la previsione contenuta nell’ art. 21 (“Diritto all’ informazione e alla consultazione”), della Carta sociale europea “riveduta” (1996) (ratificata dall’ Italia con Legge n.30/1999), secondo cui, “per assicurare l’ effettivo esercizio del diritto dei lavoratori all’ informazione e alla consultazione in seno all’ impresa”, gli Stati devono adottare o promuovere “misure che consentano ai lavoratori o ai loro rappresentanti, in conformità con la legislazione e la prassi nazionale: a) di essere regolarmente o tempestivamente informati, in maniera comprensibile, della situazione economica e finanziaria dell’ impresa che li ha assunti, fermo restando che potrà essere negata la divulgazione di talune informazioni suscettibili di recare pregiudizio all’ impresa o che potrà essere richiesto che tali informazioni siano considerate riservate, e; b) di essere consultati in tempo utile sulle decisioni previste che potrebbero pregiudicare sostanzialmente gli interessi dei lavoratori, in particolare quelle che potrebbero avere conseguenze importanti sulla situazione del lavoro nell’ impresa”.

3.2. Come anticipato, la legislazione dell’ UE sui diritti in argomento non è omogenea nella ratio, nei contenuti e nell’ efficacia delle sue diverse disposizioni. Essa, inoltre, non si limita ad armonizzare istituti previgenti negli ordinamenti nazionali, ma crea uno ius novum europeo volto a garantire l’ esercizio dei menzionati diritti anche rispetto all’ impresa attiva in ambito transnazionale. Sicché, oltre alle previsioni, note al diritto interno, che procedimentalizzano i poteri del datore di lavoro -attraver­so procedure informativo-consultive per lo più finalizzate ad accordi- vengono emanate norme che obbligano le imprese a riconoscere organismi di rappresentanza transnazionale dei lavoratori ulteriori a quelli nazionali, e di collaborare alla loro costituzione (cfr. la Dir. 94/45, modificata dalla Dir. n. 2009738, e le Dir. n. 2001/86 e 2003/72, nonché la Dir. n. 2005/56). Tratto comune alle norme suddette è l’ obiettivo di consolidare relazioni collettive tra impresa e rappresentanti dei lavoratori ai vari livelli organizzativi dell’ impresa, improntate a correttezza e buona fede, per “anticipare il cambiamento” e favorire l’ innovazione, nell’ interesse delle competitività dell’impresa e del miglioramento delle condizioni di lavoro, secondo i principi della Strategia di Lisbona.

Quanto all’efficacia delle norme, essa varia nell’ambito dell’UE, a seconda delle situazioni soggettive tutelate e degli strumenti utilizzati per la loro applicazione in ambito europeo e nazionale. Ciò avviene sia per la debolezza dei rimedi apprestati dal diritto interno per assicurare il rispetto delle norme in parola (22) sia in ragione degli strumenti utilizzati dagli Stati per la loro attuazione, incontrando limiti nella mancanza di requisiti di efficacia generale e non discriminazione della contrattazione collettiva, quando essa è chiamata ad attuare il diritto derivato (23), applicandosi in difetto delle “prescrizioni minime” di natura precettiva,

3.3. In via schematica è possibile classificare le norme comunitarie sui diritti di informazione e consultazione a seconda de: a) l’ambito di applicazione (se cioè riguardano datori di lavoro e imprese operanti nel mero ambito nazionale o anche nella “dimensione” transnazionale dell’ UE; se il loro esercizio consegua o no a decisioni dell’ impresa e/o ad eventi eccezionali; se ne siano titolari i lavoratori o i loro rappresentanti); b) la finalità perseguita, in particolare se le relative procedure siano tra loro connesse e se siano preliminari ad accordi tra l’ impresa e i rappresentanti dei lavoratori; c) le modalità di applicazione nel diritto interno, se cioè a tale compito il legislatore nazionale provveda o no con l’ ausilio delle parti sociali.

  1. I diritti di informazione e consultazione nelle imprese nazionali.

4. Per comodità espositiva tratteremo prima delle norme aventi un ambito di applicazione solo nazionale, iniziando dalle direttive sui licenziamenti collettivi (Dir. n. 75/129, modif. con Dir. n. 92/56 e con Dir. n. 98/59) e i trasferimenti di azienda (Dir. n. 77/187, modif. con Dir. n. 98/50 e Dir. n. 2001/23). Nelle menzionate direttive gli obblighi di informazione e consultazione scattano al prospettarsi di decisioni dell’ impresa determinanti l’estinzione o il mutamento definitivo del rapporto di lavoro.

Le cit. direttive non forniscono definizioni comunitarie d’ informazione e consultazione ma intervengono sulle più influenti modalità di tempo e di forma, oltre che sul contenuto degli obblighi; ad es., l’ art. 2 della Dir. n. 98/59 obbliga il datore di lavoro che preveda di effettuare licenziamenti collettivi, a trasmettere in tempo utile ai rappresentanti dei lavoratori talune analitiche informazioni, per acquisire da essi proposte utili alla procedura di consultazione, nella quale “devono essere almeno esaminare le possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti collettivi, nonché di attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure sociali di accompagnamento intese in particolare a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati”. Il carattere preventivo di tali procedure è stato più volte affermato dalla Corte di Giustizia (Cfr. tra le molte, la sentenza del 27.1.2005, in causa C-188/03). Coerente con tali caratteri è la finalizzazione delle consultazioni al raggiungimento di un accordo (art. 2, par.i 1-3, Dir. n. 98/59). Obblighi analoghi prescrive la Dir. n. 2001/23 al datore cedente e a quello cessionario, concernenti la data del trasferimento dell’ azienda, i motivi, le conseguenze giuridiche, economiche e sociali, per i lavoratori, e in particolare le misure previste nei confronti dei lavoratori, “in merito” alle quali devono essere avviate “in tempo utile [consultazioni] con i rappresentanti dei rispettivi lavoratori al fine di ricercare un accordo” (art. 7.2, Dir. n. 2001/23), dunque prima di procedere al licenziamento collettivo o al trasferimento aziendale, “indipendentemente dal fatto che [tali] decisioni siano prese dal datore di lavoro o da un’ impresa che lo controlla” (art. 2.4, Dir. 98/59; art. 6.4, Dir. 2001/23). La corretta esecuzione degli obblighi datoriali, il cui accertamento compete alle autorità nazionali, è condizione di efficacia dei provvedimenti aziendali. Inoltre, al fine di rendere “costruttivo” il dialogo tra impresa e rappresentanti dei lavoratori, alcune direttive consentono ai rappresentanti dei lavoratori di “far ricorso ad esperti, in conformità delle leggi e/o prassi nazionali” (art. 2.2, 2° comma, Dir. 98/59), in ragione “della complessità tecnica delle materie […] oggetto di informazione e consultazione” (così il 10° considerando della Dir. 98/59). Questa previsione, mutuata dalla Dir. n. 94/45, è stata poi fatta propria anche dalle direttive n. 2001/86  e n. 2003/72 (infra, § 5), ma non dalla direttiva sui trasferimenti d’ azienda; di converso, la Dir. n. 2002/14 fa riferimento ai “consulenti” e agli “esperti che eventualmente assistono” i rappresentanti dei lavoratori, indicandoli tra i soggetti obbligati, a rispettare la segretezza delle informazioni riservate ricevute dall’ impresa (art. 6), facendo così ritenere consentito il ricorso ai medesimi. In caso di fusioni transfrontaliere, i menzionati diritti dei lavoratori continuano ad essere disciplinati dalle disposizioni nazionali (cfr.il considerando 12° della Dir. n. 2005/56).

Altre direttive, invece, configurano gli obblighi di informazione e consultazione come adempimenti periodici, volti a specifici scopi ed obiettivi. Nella Dir. n. 89/391 (sul “miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro”), l’ informazione e la consultazione periodica dei lavoratori e dei loro rappresentanti, congiunta ad una loro formazione tematica, è finalizzata alla “partecipazione responsabile” dei lavoratori (singolarmente considerati e/o tramite le loro rappresentanze aziendali) al conseguimento della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”, ritenendosi inscindibile il nesso tra sicurezza, salute dei lavoratori, condizioni di lavoro, formazione e partecipazione dei lavoratori. Tra gli strumenti prioritari della Dir. n. 89/391 figurano infatti: a) l’informazione dei diversi soggetti che collaborano al “miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro”, il che implica l’obbligo del datore di lavoro, a sua volta, di “informarsi circa progressi tecnici e le conoscenze scientifiche in materia di sicurezza; b) la partecipazione attiva dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti al sistema di prevenzione per tutti gli aspetti concernenti sicurezza, mediante diritti di informazione e consultazione (al riguardo, con formula assai vaga, si parla di “partecipazione equilibrata”); c) la formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti; d) la previsione di rappresentanti dei lavoratori “per la sicurezza” rinviando alle legislazioni e/o prassi nazionali quanto riguarda la procedura da seguire per l’individuazione degli stessi. Tali principi proiettano la promozione della sicurezza sul lavoro nell’ambito di una “politica delle relazioni industriali dell’ambiente di lavoro” superando l’approccio prevalentemente “tecnico-regolamentare” che caratterizzava la normativa precedente (24).

Infine, nelle direttive sul lavoro a tempo parziale e a tempo determinato (Dir. n. 97/81 e Dir. n. 99/70), le informazioni sono preordinate ad una disciplina dell’ “organizzazione del lavoro più flessibile che risponda tanto agli interessi dei lavoratori tanto alle esigenze della concorrenza”, nel senso che la “diffusione di informazioni adeguate” su tali rapporti di lavoro ai lavoratori e ai loro “organismi rappresentativi nell’ impresa” può aiutare il lavoratore a scegliere liberamente tra lavoro a tempo parziale e lavoro a tempo pieno, nonché a trasformare tale scelta nel corso del rapporto, e a “facilitare accordi collettivi sulla flessibilità del lavoro”.

  1. (Segue). I diritti di informazione e consultazione nelle imprese nazionali secondo la Dir. n. 2002/14.

5.1. I diritti d’ informazione e consultazione di fonte comunitaria, di cui al § precedente, hanno ricevuto applicazione diversa nei vari Paesi, spesso non conforme ai principi e al testo delle norme, peraltro non sempre chiaramente formulate. La Corte di Giustizia si è mostrata esigente nella valutazione del rispetto della disciplina comunitaria, condannando gli Stati membri carenti di opportune procedure amministrative e giudiziarie di ricorso nonché di sanzioni adeguate, effettive, proporzionate e dissuasive per i datori di lavoro inadempienti gli obblighi di informazione e consultazione dei lavoratori (25). Gli orientamenti della Corte di Lussemburgo hanno positivamente influito sulle modifiche delle direttive in materia di licenziamenti collettivi e trasferimenti d’azienda, e sulla stessa formulazione della Dir. n. 2002/14. Quest’ultima, che richiama nei considerando il cit. punto 17 della Carta comunitaria del 1989, detta un quadro normativo comune a tutti gli Stati membri nella disciplina dell’informazione e della consultazione dei lavoratori, per impedire che “decisioni gravi” che interessano i lavoratori siano adottate e rese pubbliche senza che siano state “preventivamente osservate procedure adeguate di informazione e consultazione” (6° considerando della Dir. n. 2002/14). E’ implicito il riferimento alle vicende, anche giudiziarie, legate alla chiusura dello stabilimento Renault di Vilvoorde, in Belgio (nel febbraio 1997), avvenuta nel mancato rispetto di procedure informativo-consultive(26), così come a documenti della Commissione e a Rapporti elaborati -su incarico della Commissione- da Gruppi di esperti di alto livello” (27), che ricordano come le procedure in materia di informazione e consultazione dei lavoratori fossero “spesso orientate al trattamento a posteriori dei processi di cambiamento, anziché alla prevenzione degli stessi o dei rischi a loro connessi”, impedendo che esse potessero produrre “un effetto positivo sulla disponibilità dei lavoratori e dei loro rappresentanti in materia di ristrutturazioni del sistema economico”. Coerente con tali premesse è “il coinvolgimento dei lavoratori nella conduzione dell’ impresa e nella determinazione del suo futuro” (7° considerando della Dir. n. 2002/14), e pertanto il miglioramento dei diritti di informazione e consultazione, che asseconda gli obiettivi della “strategia dell’ occupazione della Comunità”, imperniata sui concetti di ‘anticipazione’, ‘prevenzione’  e ‘occupabilità’, che gli Stati membri “devono integrare nelle politiche pubbliche [per] incidere positivamente sull’ occupazione, anche al livello delle imprese, attraverso l’ intensificazione del dialogo sociale, per facilitare un cambiamento coerente con il mantenimento dell’ obiettivo prioritario dell’ occupazione” (10° considerando). A tali fini volge al Dir. n. 2002/14, ponendo una serie di prescrizioni minime che fissano principi, regole e modalità comuni agli Stati membri, e incaricando l’ autonomia collettiva di individuare le soluzioni applicative più adatte alle norme, prassi e culture nazionali.

5.2. Sono soggette agli obblighi della direttiva “le imprese che impiegano in uno Stato membro almeno 50 addetti o gli stabilimenti che impiegano in uno Stato membro almeno 20 addetti. Gli Stati membri determinano le modalità di calcolo delle soglie di lavoratori impiegati” (art. 3.1).  L’ obiettivo di “migliorare e sviluppare” i diritti in argomento caratterizza le definizioni di informazione e consultazione -che migliorano quelle contenute nelle direttive nn. 98/59, 2001/23 e 89/391-, nonché le modalità formali e temporali e l’oggetto delle procedure (art. 4). È “informazione la trasmissione di dati da parte del datore di lavoro ai rappresentanti dei lavoratori per consentir loro di prendere conoscenza della questione trattata e esaminarla”; mentre è “consultazione lo scambio di opinioni e l’instaurazione di un dialogo tra i rappresentanti dei lavoratori e il datore di lavoro” (art. 2, lett. f e g). In particolare, l’ informazione deve essere trasmessa “ad un dato momento, secondo modalità e con un contenuto appropriati, suscettibili in particolare di permettere ai rappresentanti dei lavoratori di procedere ad un esame adeguato e di preparare, se del caso, la consultazione”, mentre la consultazione deve svolgersi assicurando “che la scelta del momento, le modalità e il contenuto siano appropriati”, e aver luogo “al livello pertinente di direzione e di rappresentanza, in funzione dell’argomento trattato”, basandosi” sulle informazioni pertinenti fornite dal datore di lavoro” e dell’ eventuale parere “che i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di formulare […] in modo tale da permettere ai rappresentanti dei lavoratori di avere un incontro con il datore di lavoro e di ottenere una risposta motivata al loro eventuale parere”. Quanto all’oggetto delle procedure, il datore di lavoro deve fornire le informazioni e a garantire la consultazione in merito ai seguenti dati e notizie: a) l’evoluzione recente e probabile dell’attività d’impresa o dello stabilimento e della situazione economica; b) la situazione, la struttura e l’evoluzione probabile dell’occupazione, nell’ambito dell’impresa o dello stabilimento, e le eventuali misure anticipatrici previste in caso di minaccia per l’occupazione; c) le decisioni suscettibili di comportare cambiamenti di rilievo in materia di organizzazione del lavoro, nonché di contratti di lavoro (comprese quelle previste dalle direttive in materia di trasferimenti e licenziamenti collettivi). Le procedure consultive non sono fini a se stesse, ma sono propedeutiche alla “ricerca [di] un accordo sulle decisioni che dipendono dal potere di direzione del datore di lavoro”.

La direttiva assegna all’autonomia collettiva il compito rilevante di definire “le disposizioni necessarie” alla sua applicazione: gli Stati membri possono infatti “affidare alle parti sociali al livello adeguato, anche a livello dell’impresa o dello stabilimento, il compito di definire liberamente e in qualsiasi momento mediante accordo […] le modalità di informazione e di consultazione dei lavoratori” anche prevedendo “disposizioni diverse da quelle di cui all’articolo 4”, naturalmente in melius, essendo quelle in peius, rispetto alla normativa nazionale e a quella comunitaria, vietate (art. 9), fermo restando comunque l’ obbligo dello Stato di garantire l’ effetto utile della normativa (art. 11), potendo a tal fine intervenire in forma  sostitutiva.

5.3. La Dir. n. 2002/14 ha ricevuto un’ applicazione diversa nei Paesi membri, anche in ragione del differente sviluppo dei sistemi di Relazioni industriali, disomogeneo sul piano dell’ organizzazione e tutela collettiva. Tuttavia, anche in alcuni ordinamenti più avanzati la direttiva non ha ricevuto un’ applicazione conforme alla sua lettera e alla sua ratio. Lo scarto denunciato è più frequente in materia di informazioni riservate (art. 6), esagerando talune leggi nazionali nel tutelare l’ interesse, pur legittimo, dell’impresa a tenere segrete tali informazioni, così come nella vaghezza dello stesso termine “informazione”, che induce interpretazioni restrittive, impedendo ai rappresentanti dei lavoratori di esaminare a fondo i dati forniti e di confrontarsi tempestivamente con i datori di lavoro in caso di decisioni produttive di immediate conseguenze sui lavoratori. Altri difetti riguardano le modalità temporali delle informazioni, vale a dire la loro trasmissione in tempo utile prima della consultazione. Il Parlamento europeo rileva inoltre come alcune legislazioni nazionali non abbiano provveduto a garantire un adeguato rispetto degli obblighi di cui all’art. 4 della direttiva, con riferimento all’ obiettivo di ricercare un accordo (art. 4. 4, lett. e); a coinvolgere i rappresentanti sindacali attivi nelle aziende interessate dalla direttiva, onde consolidare a quei livelli il dialogo sociale; ad apprestare sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive (art. 6.3) in caso di inosservanza degli obblighi di informazione e consultazione dei lavoratori; a tutelare i rappresentanti dei lavoratori, specie negli ordinamenti nazionali nei quali essa è garantita solo dalla contrattazione collettiva. Infine, quanto all’ ambito di applicazione della direttiva, il Parlamento stigmatizza il fatto che alcune leggi nazionali, nell’ indicare le modalità di computo dei dipendenti,  non tengano conto dei giovani lavoratori, delle donne impiegate a tempo parziale o dei lavoratori assunti con contratti a termine per brevi periodi, in tal modo tradendo lo spirito della direttiva (28)..

5.4. La previsione di un apparato sanzionatorio è assai rilevante ai fini di un’efficace applicazione dei diritti di informazione e consultazione. In linea di continuità con quanto già a suo tempo affermato nella direttiva sui CAE, ed in quella sulla SE, la Dir. n. 2002/14 obbliga gli Stati membri ad apprestare misure sanzionatorie “effettive, proporzionate e dissuasive” in caso di violazione da parte dei datori di lavoro o dei rappresentanti dei lavoratori degli obblighi fissati nel testo “per garantire i risultati imposti dalla direttiva” (art. 14.2). Si richiede, in particolare, che gli Stati “predispongano procedure amministrative o giudiziarie” (art. 12.2). L’esperienza applicativa delle norme comunitarie e nazionali in materia di diritti di informazione e consultazione ha mostrato come e quanto la mancata attivazione di sanzioni efficaci abbia indebolito l’esercizio concreto dei diritti in questione. Va ricordato a tale proposito che la valutazione di adeguatezza delle norme e dei rimedi (di natura civile, amministrativa o penale) apprestati dai singoli Stati membri per conformarsi al diritto comunitario e per sanzionare eventuali lesioni di beni protetti dall’ ordinamento comunitario, non è astratta. Al contrario, secondo un consolidato orientamento della Corte di Giustizia, si tratta di individuare il grado concreto di effettività delle norme comunitarie alla luce degli strumenti individuati dagli ordinamenti nazionali al fine di darne immediata esecuzione. Con tali precisazioni la Corte chiede che il sistema compulsivo interno si dimostri congruente allo scopo perseguito dalla normativa comunitaria e dispieghi un’ idonea efficacia deterrente, anche in relazione alle misure utilizzate in casi analoghi fondati esclusivamente sul diritto nazionale (“Qualora una disciplina comunitaria non contenga una specifica norma sanzionatoria di una violazione o che rinvii in merito alle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali, l’ art. 5 [ora art. 10] del trattato impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte a garantire la portata e l’ efficacia del diritto comunitario. A tal fine, pur conservando la scelta delle sanzioni, essi devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura e per importanza e che in ogni caso conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva. Inoltre le autorità nazionali devono procedere nei confronti delle violazioni del diritto comunitario con la stessa diligenza usata nell’ esecuzione delle rispettive legislazioni nazionali (29).

Si ricorda infine che i diritti previsti dalla direttiva sono di contenuto analogo a quelli previsti da norme di legge (spesso di recezione di direttive comunitarie) o contrattuali, per la cui violazione l’ ordinamento italiano predispone sanzioni e rimedi processuali appositi, come ad esempio quello previsto dall’ art. 28 della L. 20 maggio 1970. Sicché non sembra coerente prevedere sanzioni diverse per fattispecie uguali o simili.

  1.  diritti di informazione e consultazione nelle “imprese di dimensioni comunitarie” e nelle società di diritto europeo.

6.1. Gli obblighi di informazione e  onsultazione cui sono tenute le imprese e i gruppi che operano nell’ ambito transnazionale dell’ UE hanno struttura e finalità diverse da quelli disposti per le imprese nazionali. Un primo aspetto riguarda i soggetti obbligati, trattandosi di: a) imprese “di dimensione comunitaria”, cioè le imprese che impiegano almeno 1000 lavoratori negli Stati membri e almeno 150 lavoratori per Stato membro in almeno due Stati membri; b) gruppi  di imprese di dimensioni comunitarie, cioè i gruppi che impieghino almeno 1000 lavoratori negli Stati membri, abbiano almeno due imprese situate in Stati membri diversi, che impieghino ciascuna non meno di 150 lavoratori in uno Stato membro e 150 lavoratori in un altro Stato membro; c) società costituite in forma di SE o di SCE (conformemente ai regolamenti CE n. 2157/2001 e n. 1435/2003). Nelle cit. direttive, il “coinvolgimento dei lavoratori nella conduzione dell’impresa e nella determinazione del suo futuro”, contribuisce a “rafforzarne la competitività” e costituisce “una condizione preliminare del successo dei processi di ristrutturazione e di adattamento delle imprese alle nuove condizioni indotte dalla globalizzazione dell’economia”. Coerenti con i detti scopi, e con la difficoltà di individuare ed applicare regole uniformi per situazioni organizzative e forme societarie differenziate, sono le previsioni che affidano in via prioritaria la determinazione della disciplina in materia di informazione e consultazione all’ accordo tra management dell’ impresa e rappresentanze transnazionali dei lavoratori a tal fine delegate (Delegazioni speciali di Negoziazione: DSN), secondo i canoni della sussidiarietà orizzontale, applicandosi in difetto delle prescrizioni minime, allegate al testo delle direttive.

Tratteremo prima della direttiva del coinvolgimento dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di dimensione comunitaria (Dir.n. 94/45; modificata dalla Dir.n. 2009/38) e, quindi, delle direttive sul coinvolgimento dei lavoratori nella SE e nella SCE (n. 2001/86 e 2003/72)

6.2. L’attenzione delle istituzioni dell’UE ai diritti di informazione e consultazione dei lavoratori dipendenti da imprese, anche di gruppo, a struttura transnazionale risale alla proposta presentata dal Commissario CEE Vredeling (30), il cui iter ha incontrato ostacoli da parte di alcuni Stati membri (in particolare il Regno Unito), malgrado il sostegno della Commissione e delle Organizzazioni sindacali europee Ces, Unice e Ceep, nell’ ambito del Dialogo sociale. Solo nel 1994 viene adottata una direttiva in materia (Dir. n. 94/45, inizialmente non vincolante il Regno Unito; modificata dalla Dir. n. 2009/38). Essa, come ricorda la Commissione in vari documenti, ha contribuito  a costruire “nuove pratiche transnazionali di relazioni industriali” basate sulla cooperazione tra rappresentanze dei lavoratori, nonché tra organizzazioni sindacali, di paesi diversi, oltre che sul “confronto costruttivo” tra queste ultime e le direzioni delle imprese transnazionali, utile alla competitività delle imprese e al consolidamento del “modello sociale europeo”. La direttiva costituisce la base normativa di attività, procedurali e strumentali, che i soggetti interessati devono porre in essere per rendere effettivi i diritti di informazione e consultazione, che devono riguardare “questioni transnazionali”, definite come “quelle riguardanti l’impresa di dimensioni comunitarie o il gruppo di imprese di dimensioni comunitarie nel loro complesso o almeno due imprese o stabilimenti dell’impresa o del gruppo ubicati in due Stati membri diversi” (art. 1.4 della Dir. n. 2009/38). Essa rimette all’ autonomia collettiva, attraverso l’ accordo stipulato tra la DSN e la Direzione centrale dell’impresa o del gruppo, la scelta degli strumenti e degli organismi ritenuti più idonei, se, cioè, istituire dei Comitati aziendali europei (CAE), titolari di diritti di informazione e consultazione o, in alternativa o in aggiunta ai CAE, delle procedure di informazione e consultazione. Nel secondo caso, “l’ accordo deve stabilire secondo quali modalità i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di riunirsi per discutere delle informazioni che sono loro comunicate. Queste informazioni riguardano segnatamente questioni transnazionali che incidono notevolmente sugli interessi dei lavoratori” (art.6.3). In difetto di accordo si applicano delle prescrizioni accessorie allegate al testo della direttiva (art.7), che sono escluse qualora la DSN decida di non avviare negoziati (art. 5.5, 2° comma). Di converso, il rifiuto di avviare negoziati da parte della Direzione centrale comporta l’applicazione delle suddette prescrizioni (art. 7.1).

Le modifiche introdotte dalla Dir. n. 2009/38 (cd. di “rifusione”), che assorbe precisi orientamenti della Corte di Giustizia (31), intendono rendere più efficace l’ attività dei CAE. Trattasi in primo luogo delle definizioni di informazione e consultazione transfrontaliera, che si ispirano a quelle contenute nelle direttive nn. 2001/86, 2002/14 e 2003/72, non senza contraddizioni tra “considerando” (di tenore più estensivo)e testo dell’ articolato di legge. Progressi sono rappresentati anche dall’ obbligo della Direzione centrale dell’impresa di acquisire il parere del CAE prima di  adottare determinate decisioni, e non solo prima di procedere alla loro applicazione. L’informazione fornita deve altresì riferirsi alle misure programmate e non deve riguardare solo fatti e decisioni di cui il CAE abbia già notizia per altri canali. Quanto alle procedure per la costituzione del CAE, la Direzione centrale deve fornire alle Organizzazioni sindacali interessate informazioni analitiche sulla struttura dell’impresa e sulla forza lavoro, necessarie per l’avvio dei negoziati, assorbendo in tal modo i cit orientamenti della Corte di Lussemburgo. Le imprese non sono, invece, obbligate a rendere note fusioni o acquisizioni che, in quanto cambiamenti strutturali, potrebbero dare luogo alla rinegoziazione degli accordi costitutivi dei CAE. Inoltre, l’ accordo istitutivo di un CAE può prevedere anche la costituzione di un “comitato ristretto”, composto di non più di cinque membri, per agevolare il coordinamento del CAE e, quindi, la sua attività, con positivi effetti sulle procedure informativo-consultive, specie quelle attivate dal CAE a fronte di “circostanze eccezionali” o di “decisioni che incidano notevolmente sugli interessi dei lavoratori, in particolare nel caso di delocalizzazione, chiusura di imprese o di stabilimenti oppure licenziamenti collettivi” (cfr. le “prescrizioni accessorie” alla direttiva). In queste ipotesi le riunioni tra il il CAE, o il suo comitato ristretto, e la Direzione centrale, o qualsiasi altro appropriato livello direttivo dell’impresa, si svolgono in base ad una relazione della Direzione, sulla quale il CAE, o il suo comitato ristretto, possono formulare un parere al termine della riunione o entro un periodo ragionevole, e fatte “salve le prerogative della direzione centrale”. Le modifiche introdotte prevedono, inoltre, opportune forme di coordinamento tra le procedure nazionali ed europeo di informazione e consultazione, il riconoscimento del diritto alla formazione dei delegati, la possibilità di adeguare gli accordi istitutivi dei CAE in caso di modifiche significative della struttura delle imprese, e il riconoscimento del ruolo delle organizzazioni sindacali nel processo costitutivo dei CAE, a cominciare dalla costituzione delle DSN. Altre importanti previsioni consistono nella “clausola di non regresso” e nel principio (peraltro enunciato solo nei considerando), secondo cui “in linea con i principi generali del diritto comunitario, occorre applicare procedure amministrative o giudiziarie, nonché sanzioni efficaci, dissuasive e proporzionate alla gravità delle infrazioni, in caso di violazione degli obblighi ai sensi della direttiva”.

In caso di fusioni transfrontaliere, i menzionati diritti dei lavoratori continuano ad essere disciplinati dalla direttiva sui CAE (cfr. il 12° considerando eI l’ art. 4 della Dir.n. 2005/56).

6.3. Diversa nella ratio, ma analoga nelle modalità attuative, e la garanzia dei diritti di coinvolgimento dei lavoratori nella Società europea (SE) e nella Società cooperativa europea, come si evince dai regolamenti n. 2157/2001 e n. 1435/2003, e dalle direttive n. 2001/86 e 2003/72, che “completano” i regolamenti  per la parte relativa al coinvolgimento (intendendosi per tale, come anticipato (32), i diritti di informazione e consultazione, e di “partecipazione organica”). Questa complessa normativa, emanata dopo un trentennale dibattito (i testi dei primi progetti sono pubblicati in GUCE 124, del 10.10.1970), è quello di favorire la costituzione e la gestione di società di statuto europeo “senza gli ostacoli dovuti alla disparità delle legislazioni nazionali applicabili alle società commerciali e ai limiti territoriali della loro applicazione”, offrendo “un quadro giuridico uniforme per programmare ed eseguire la loro attività a livello comunitario”. Le ipotesi di costituzione di una SE (e, similmente, di una SCE), sono le seguenti: a) fusione tra (sole) S.p.a., con sede e amministrazione centrale in Stati membri differenti; b) creazione di una holding, con sede e amministrazione centrale in Stati membri differenti ovvero nello stesso Stato ma (da almeno due anni) con affiliate o succursali in altri Stati membri; c) creazione di una società partecipata o controllata in comune da società o da altri enti pubblici o privati che si trovano nelle condizioni descritte per la SE holding; d) trasformazione della (sola) S.p.a., che da almeno due anni abbia un’ affiliata in un altro Stato membro della UE: soltanto in questa ipotesi la SE (e analogamente la SCE) non è un nuovo soggetto giuridico, ma una veste organizzativa nuova per una società esistente e persistente. Condizione dell’acquisto della personalità giuridica (attraverso l’ iscrizione nel registro delle società) è il riconoscimento, nello statuto della SE (e della SCE), del mantenimento dei diritti di coinvolgimento acquisiti dai lavoratori presso le società partecipanti alla costituzione di una SE (o di una SCE). A tali garanzie sono direttamente preposte le cit. direttive nn,. 2001/86 e 2003/72), che mutuano lo schema collaudato della Dir. n. 94/45, imperniato sull’ accordo tra la DSN e le società partecipanti alla costituzione di una SE o di una SCE. In tal modo si vuol impedire “che la costituzione di una SE [o di una SCE] comporti la scomparsa o la riduzione delle prassi di coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni dell’impresa [e cioè i diritti di informazione e consultazione e i diritti di partecipazione agli organi societari] già esistenti nelle società partecipanti alla costituzione di una SE” o di una SCE (considerando 3° di entrambe le direttive), diritti che a loro volta presuppongono l’ esercizio di essenziali diritti sindacali sia nella SE o nella SCE che nelle imprese partecipanti alla loro costituzione. “A tal fine gli organi competenti delle società partecipanti informano la DSN del progetto e dello svolgimento del processo di costituzione della SE [e della SCE], sino all’iscrizione di quest’ultima” e “negoziano con spirito di cooperazione per raggiungere un accordo sulle modalità del coinvolgimento dei lavoratori nella SE [e della SCE]” (art.  3.3 e art. 4.1 di entrambe le direttive). L’ una e l’ altra direttiva prevedono che, in difetto di accordo si applichino delle “disposizioni di riferimento” allegate alla direttive, cioè delle prescrizioni minime che obbligano l’ “organo competente della SE” (e della SCE) a fornire periodiche informazioni ad un apposito “organo di rappresentanza dei lavoratori” delle società partecipanti alla costituzione della SE (e della SCE). Le procedure informative devono svolgersi “con tempi, modalità e contenuti che consentano ai rappresentanti dei lavoratori di procedere ad una valutazione approfondita dell’eventuale impatto e, se del caso, di preparare consultazioni con l’organo competente della SE”; esse vertono sui problemi concernenti la stessa SE e qualsiasi sua affiliata o dipendenza situata in un altro Stato membro, o questioni che esorbitano dai poteri degli organi decisionali di un unico Stato membro. Le consultazioni consistono nell’ “apertura di un dialogo e d’uno scambio di opinioni tra l’organo di rappresentanza dei lavoratori e/o i rappresentanti dei lavoratori e l’organo competente della SE, con tempi, modalità e contenuti che consentano ai rappresentanti dei lavoratori, sulla base delle informazioni da essi ricevute, di esprimere -circa le misure previste dall’organo competente- un parere di cui si può tener conto nel processo decisionale all’interno della SE”. Le suddette definizioni sono simili a quelle della nuova direttiva sui CAE; ancora più incisivi sono, invece, i diritti dell’ “organo di rappresentanza” dei lavoratori a fronte di “circostanze eccezionali”, che sono quelle, secondo le “disposizioni di riferimento” allegate alle direttive, “incidono notevolmente sugli interessi dei lavoratori, in particolare nel caso di delocalizzazione, trasferimento, chiusura di imprese o di stabilimenti oppure licenziamenti collettivi”). Si prevede, infatti, che in tali ipotesi l’ organo di rappresentanza (o il comitato ristretto) ha “il diritto di riunirsi, a sua richiesta, con l’organo competente della SE (o della SCE) o qualsiasi altro livello di direzione più appropriato nell’ambito della società, avente la competenza di prendere decisioni proprie, per essere informato e consultato sulle misure che incidono considerevolmente sugli interessi dei lavoratori. Qualora l’organo competente dell’ impresa decida di non agire conformemente al parere espresso dell’organo di rappresentanza, quest’ultimo può chiedere all’ organo competente della SE una nuova riunione nella prospettiva di trovare un accordo”.

  1. La partecipazione dei lavoratori negli organi societari. Partecipazione dei lavoratori e “interesse dell’ impresa”.

7.1. La partecipazione dei lavoratori negli organi societari (o “partecipazione organica”) è oggetto di proposte legislative della Commissione sin dalla fine degli anni Sessanta nell’ ambito della riforma del diritto societario europeo (proposta di “Quinta Direttiva”, oltre la cit. proposta di “Statuto di Società europea”) (33), fondata sui principi della libera concorrenza e circolazione delle imprese. Le suddette proposte, avversate da alcuni Paesi membri, oltre che da varie organizzazioni sindacali dei datori e dei prestatori di lavoro, sono state modificate più volte, anche in modo incisivo, approdando infine in alcune direttive emanate nei primi anni del nuovo secolo.

Il legislatore dell’ UE fa riferimento alla partecipazione organica dei lavoratori nelle cit. direttive 2001/86 e 2003/72, nonché nella Dir. n. 2005/56, relativa alle fusioni transfrontaliere delle società di capitali, senza tuttavia porne una disciplina puntuale. Nelle direttive 2001/86 e 2003/72, la partecipazione tout court è qualificata come un meccanismo di coinvolgimento che, se preesistente “in una o più società che costituiscono una SE, dovrebbe essere mantenuto trasferendolo alla SE, una volta costituita, a meno che le parti decidano diversamente” (considerando 7° di entrambe le direttive). L’ influenza “sulle attività della società” (art. 2, lett. k di entrambe le direttive), riconducibile alla partecipazione organica, consiste nel diritto dell’organo di rappresentanza dei lavoratori e/o dei rappresentanti dei lavoratori: a) di eleggere o designare alcuni dei membri dell’organo di vigilanza o di amministrazione della società, o, b) di raccomandare la designazione di alcuni o di tutti i membri dell’organo di vigilanza o di amministrazione della società e/o di opporvisi (art. 2 di entrambe le direttive). Nel primo caso, l’ influenza sulle attività della società si esprime con la nomina o la designazione diretta di alcuni membri degli organi di amministrazione (CdA) o di sorveglianza (CdS); nel secondo caso si realizza, invece, in modo indiretto, con l’ indicazione di tutti o di parte dei consiglieri di amministrazione o di vigilanza al soggetto (l’ assemblea generale dei soci o degli azionisti) deputato per legge e/o statuto ad eleggere i consiglieri, oppure esercitando il diritto di veto su alcuni o su tutti i membri del CdA o del CdS. In tal modo, il legislatore dell’ UE non pone una disciplina uniforme sulla partecipazione (com’ era nelle prime proposte di Quinta direttiva e di Statuto di Società europea, ispirate ai modelli centroeuropei di partecipazione organica), ma focalizza la garanzia del mantenimento del diritto acquisito di partecipazione nella formazione e composizione (che si traduce in influenza sulle attività) del CdA e/o del CdS (34).

7.2. Il sistema tedesco è quello che, più di ogni altro, approfondito il tema della partecipazione dei lavoratori negli organi societari. Idea base della Mitbestimmung è che la sottomissione (di uno o più soggetti) all’ autorità direttiva ed organizzativa (di altri) è perfettamente conciliabile con la dignità umana se all’ interessato viene data la possibilità d’ influire nella formazione dell’ organo dotato di poteri autoritativi cui egli rimane sottomesso. Tale fondamento, da cui muove la citata legge del 1976, è ribadito in chiave etico-politica come “imperativo democratico” dal ricordato “Libro Verde” (“tutti coloro i quali sono toccati dalle decisioni adottate da istituzioni sociali e politiche debbono essere coinvolti o partecipi nel processo di formazione delle decisioni medesime”: p. 9), nonché dai successivi Rapporti nazionali che, durante gli anni Settanta, si sono ispirati al medesimo assunto (come il “Rapporto Bullock”, per il Regno Unito, e il “Rapport Sudreau”, per la Francia”) (35).  Della sua rilevanza prese atto il Bundesverfassungsgericht (il Tribunale costituzionale tedesco), dandone anzi una “giustificazione costituzionale”, allorché ebbe a pronunciarsi, su ricorso dei datori di lavoro, sulla legittimità costituzionale del Mitbestimmungsgesetz del 1976 rispetto a diritti fondamentali, tra i quali quelli dei proprietari di quote sociali (Anteilseigner) o dell’ impresa. Disse allora il Tribunale costituzionale federale (sentenza del 1° marzo 1979), che, anzitutto, la suddetta legge non ledeva la garanzia della proprietà, essendo conforme alla garanzia del rapporto di preordinazione all’ uso del proprietario e alla sostanza stessa della proprietà “che i vincoli alla proprietà debbano soddisfare insieme gli interessi del proprietario e quelli della collettività”; e che, in secondo luogo, essendo “la codeterminazione intesa propriamente come lo strumento idoneo a consolidare politicamente l’economia di mercato [essa] deve servire al bene della collettività, anche se ciò non è stato esplicitato in alcune sue disposizioni […]. Pertanto la codeterminazione non può essere ritenuta inidonea, o non necessaria a conseguire questo fine […]. Le limitazioni che la legge pone ai proprietari appaiono dunque accettabili e ragionevoli e, in ogni caso, sono tali da lasciare agli azionisti un’ influenza determinante nonché il diritto alla decisione finale […]. Dal punto di vista della legittimità costituzionale del contemperamento degli interessi degli azionisti con quelli dei lavoratori, la limitazione dei diritti connessi alla proprietà di quote sociali, realizzata dalla legge sulla codeterminazione, è conforme al [diritto di proprietà sancito dall’] art. 14 della Legge fondamentale tedesca” (36).

Queste affermazioni non rimasero isolate ma ebbero un’ eco autorevole nel Parlamento europeo che, in una Risoluzione del 1982, sottolineò come “le giuste rivendicazioni del lavoratore nell’ ambito del rapporto di collaborazione sono: la sicurezza economica, un buon reddito, un regolare lavoro, corretti rapporti umani. Per soddisfare le dette rivendicazioni occorre che il lavoratore abbia le informazioni necessarie e voce in capitolo (il che è molto di più di poter esprimere in modo facoltativo il proprio parere) sia per quanto riguarda la propria attività sul posto di lavoro che per quanto riguarda gli obiettivi ed il funzionamento dell’ impresa nel suo insieme […] Il lavoratore ha diritto allo sviluppo della sua personalità individuale e al riconoscimento della sua dignità umana; ha, quindi, il diritto di conoscere le circostanze e gli sviluppi di maggiore rilievo per il suo futuro; ha, pertanto, anche il diritto a che non vengano prese decisioni che riguardano direttamente il suo futuro al di fuori di lui e senza di lui”.

Come ha messo in evidenza a suo tempo il giudice costituzionale tedesco, e come si evince dalla definizione di “partecipazione” di cui alle cit. direttive 2001/86 e 2003/72, l’ “influenza” dei lavoratori, almeno in termini giuridico-formali, si determina essenzialmente nella nomina (o nella revoca) dei membri dell’ organo direttivo, nonché nella “sorveglianza” del loro operato, e non invade la sfera delle funzioni riservate a quell’ organo Nella Mitbestimmung tedesca la nomina -o la revoca anticipata- nonché il controllo dei membri del Comitato direttivo fa istituzionalmente capo al Consiglio di Sorveglianza, secondo gli artt. 84 e 111 della Legge sulle società perazioni (Aktiengesetz, di seguito AktG): la partecipazione paritetica, quasi-paritetica o minoritaria in seno al tale organo rafforza, in misura maggiore o minore a seconda dei modelli, la posizione dei dipendenti rispetto all’ esercizio diquelle stesse funzioni, ma non altera il ruolo e le prerogative dell’ organo di direzione e di ciascuno dei suoi membri.Per quanto riguarda la nomina, essa compete anzitutto al CdS come organo collegiale, e di regola viene deliberata a maggioranza. Fa eccezione la nomina (o la revoca) dell’ Arbeitsdirektor che, in base all’ art. 13 del Montan-Mitbestimmungsgesetz (1951), non può avvenire contro la volontà della maggioranza dei membri nominati dai lavoratori; si ricorda inoltre che, nella disciplina del Mitbestimmungsgesetz (1976), per la nomina dei componenti il Comitato Direttivo è richiesta la maggioranza di almeno due terzi dei membri del CdS in prima votazione (art. 31.2), altrimenti viene deliberato a maggioranza assoluta sui candidati proposti da una commissione paritetica (art. 31.3), o in mancanza provvede il Presidente del Consiglio di Sorveglianza (art. 31.4).

Dalle citate disposizioni si evince la ridotta influenza dei membri del Consiglio di Sorveglianza nominati dai lavoratori sulla nomina dei componenti il Comitato Direttivo, almeno nel caso di partecipazione minoritaria. Ma anche laddove uno dei membri dell’ organo direttivo dovesse la propria carica alla cooptazione dei “rappresentanti” dei dipendenti in seno al Consiglio di Sorveglianza, non per questo sarebbe giuridicamente vincolato a valutazioni preferenziali per l’ interesse dei lavoratori: così come non c’ è un rapporto di mandato tra amministratori ed azionisti, è ugualmente escluso un mandato analogo verso i lavoratori, sicché non potrebbe sussistere alcuna relazione giuridica tra un tale membro dell’ organo direttivo e il corpo dei dipendenti, quali pretesi “rappresentati”. Da quanto detto deriva che l’ eventuale membro del Consiglio di Sorveglianza su designazione dei lavoratori si troverebbe nella stessa posizione degli altri amministratori e sarebbe perciò tenuto ad uniformarsi ai medesimi criteri di gestione previsti dalla legge, sotto responsabilità personale (artt. 76 e 93, AktG).  In altri termini, sempre sotto il profilo giuridico-formale, l’ interesse dell’ impresa, come criterio-guida nella direzione della società, non è scomponibile nei singoli interessi di categoria sottostanti all’ impresa, pur essendo essi ricompresi congiuntamente in quel concetto. Quest’ampia, ma precisa, connotazione dell’ interesse dell’ impresa (Unternehmensinteresse) rende ogni membro del Comitato Direttivo, comunque designato, doverosamente svincolato dai particolari interessi di categoria. In realtà, l’ “influenza” dei lavoratori sulle decisioni dell’ impresa che ha luogo mediante il condizionamento -diretto o mediato- della composizione dell’ organo di sorveglianza e, per questa via, dell’ organo direttivo (e, quindi, l’ “influenza” dei lavoratori sulla legittimazione dell’ organo di direzione della società) può apprezzarsi soltanto in via di fatto, ed è fondamentalmente legata all’ elevato grado di discrezionalità di cui gli amministratori dispongono nell’ espletamento del loro incarico. Rientra nella loro valutazione incensurabile -entro il limite della diligenza che si richiede ad un dirigente di impresa coscienzioso- ponderare e bilanciare i diversi interessi in gioco (degli azionisti -di maggioranza o minoranza-, degli investitori, dei lavoratori, dei creditori sociali, ecc.) nella determinazione di ciò che, rispetto ai singoli atti di gestione, convenga o non sia opportuno fare. La presenza nel Comitato Direttivo di membri cooptati dai “rappresentanti” dei dipendenti è garanzia che l’interesse specifico dei medesimi venga, di fatto, tenuto in qualche considerazione nel processo valutativo dell’ interesse dell’ impresa. Garanzia tanto maggiore quanto più omogenea è la composizione dell’ organo di direzione.

7.3. Analoga attenzione alla tutela dei diritti di partecipazione dei lavoratori presta la Dir. n. 2005/56, relativa alle fusioni transfrontaliere di società di capitali (37), vale a dire a quelle operazioni con le quali: a) una società trasferisce la totalità del suo patrimonio ad altra società preesistente (la società incorporante) essenzialmente attraverso l’assegnazione ai loro soci di titoli o quote rappresentativi del capitale sociale della società incorporante; b) due o più società trasferiscono la totalità del loro patrimonio ad una società da loro costituita mediante l’assegnazione ai loro soci di titoli o quote rappresentativi del capitale sociale della nuova società; c) una società trasferisce la totalità del proprio patrimonio alla società che detiene la totalità delle quote o dei titoli rappresentativi del suo capitale. In caso di fusioni transfrontaliere, dunque, i diritti di partecipazione già riconosciuti in almeno una delle società partecipanti alla fusione non si estinguono né sono limitati dalla intervenuta, diversa legislazione nazionale della società incorporante (o della società nata dalla fusione), ma si applica una disciplina analoga a quella dettata per la SE, tale da garantire ai lavoratori delle società interessate dalla fusione una tutela minima inderogabile nella materia in argomento. A lungo la disparità di vedute tra Stati membri su questo aspetto aveva ostacolato l’adozione della direttiva (38). Tali divergenze sono state superate con l’art. 16: secondo il suo par. 1, è la legge dello stato dove la società risultante dalla fusione pone la sede sociale a disciplinare la partecipazione dei lavoratori. Sono tuttavia previste due eccezioni a questo principio generale. Esso non si applica se una delle società partecipanti alla fusione ha un numero medio di dipendenti superiore a 500 nei sei mesi precedenti la pubblicazione del progetto comune di fusione ed è soggetta a un regime di partecipazione dei lavoratori conforme alla Dir. n. 2001/86. La seconda eccezione rileva quando la disciplina della partecipazione dei lavoratori contenuta nella legge applicabile alla fusione, determinata ai sensi del detto principio generale, sia inferiore agli standard goduti dai lavoratori delle società partecipanti alla fusione; ovvero quando tale disciplina non prevede per i lavoratori di stabilimenti della società risultante dalla fusione, situati in altri Stati membri, diritti di partecipazione di livello equivalente a quelli goduti dai lavoratori impiegati nello Stato dove ha sede sociale la società risultante dalla fusione. In questi casi l’ art. 16.3 rinvia alla disciplina della partecipazione dei lavoratori nella SE. Infine il progetto comune di fusione deve indicare i diritti di partecipazione dei lavoratori all’interno della società risultante dalla fusione adottati ai sensi del cit. art. 16, analogamente a quanto previsto dai regolamenti sulla SE e la SCE.

 

8.La partecipazione economica. Origini ed evoluzione teorica. Orientamenti delle istituzioni comunitarie

Un meccanismo ulteriore del coinvolgimento dei lavoratori è quello della partecipazione economica e finanziaria all’ economia (in particolare) dell’ impresa. Questo tema fu rilanciato in ambito internazionale nei primi anni Ottanta in seno al dibattito sulla share economy (39), rivisitando un progetto risalente agli anni Venti-Trenta, e riproposto in vari Paesi tra gli anni Cinquanta e Settanta, con varianti più incisive nei sistemi nordeuropei, dove trovò radici culturali e ideali di segno progressista, come il Progetto MEIDNER (40). Un trait-d’ union tra vecchie e nuove formule della partecipazione economica, sul versante dei partiti riformisti e delle organizzazioni sindacali, era costituito dalla necessità di estendere la democrazia politica alla sfera economica (supra, § 2) a fronte dell’ esaurimento dei modelli classici di programmazione economica e dell’ incipiente successo delle teorie e dei programmi neo-liberisti. Quel che variava in questo progetto erano le dimensioni e i luoghi di riferimento della partecipazione economica. Se per alcuni studiosi, come Meade, essa poteva essere efficacemente impostata nel macrosistema economico, per altri, invece, come Dahl (41), sarebbe stato preferibile un percorso emancipato da implicazioni “politiche”, facendo coincidere la partecipazione economica con una gestione più democratica delle singole imprese senza curarsi delle implicazioni e degli effetti macroeconomici.

In sede teorica, e nelle applicazioni pratiche, nei vari sistemi nazionali, sono state differenziate le forme e le funzioni della partecipazione finanziaria dei lavoratori, distinguendo, da un lato, la partecipazione alla “proprietà” delle imprese (“financial participation schemes in share”) e dall’altro, le forme di ripartizione degli utili attraverso particolari sistemi retributivi (“financial participation schemes in cash”). In molti Paesi la partecipazione dei dipendenti al capitale dell’ impresa ha trovato giustificazione nei processi di riallocazione del capitale, indotti dalla globalizzazione dei mercati, e da processi di privatizzazione delle imprese pubbliche. A dare fondamento ai programmi di partecipazione economica è stata anche la crescente importanza del “capitale umano” nella creazione di valore delle imprese, che spinge verso il superamento della tradizionale divisione tra capitale e lavoro sotto il profilo delle responsabilità nella conduzione dell’ impresa e delle relative fonti di reddito (profitti per il capitale, redditi da lavoro dipendente per il lavoro). In questa direzione procede anche l’ evoluzione dell’ allocazione del risparmio dei lavoratori, e in particolar modo quello di natura previdenziale, che tende a spostarsi da un’ intermediazione fortemente pubblica -attraverso il debito pubblico- e un regime pensionistico a ripartizione, verso forme di impiego orientato al mercato azionario, soprattutto in una prospettiva di lungo periodo.

I regimi di partecipazione agli utili, il diritto d’opzione e l’azionariato dei dipendenti sono relativamente diffusi nell’UE; di converso, i Piani di azionariato dei lavoratori (Employee Stock Ownership Plans, ESOP) sono prevalentemente utilizzati nei Paesi di tradizione Anglo-americana, come il Regno Unito e l’ Irlanda, nonché in alcuni dei Paesi di recente adesione all’ UE, come l‘Ungheria, la Croazia e la Romania (42). Nell’ ambito della UE, i sistemi nazionali di partecipazione finanziaria dei lavoratori sono tra loro molto diversi; anche il livello di incentivazione varia considerevolmente da uno Stato membro all’altro. Quanto al diritto dell’ UE, esso è povero di riferimenti alla partecipazione finanziaria. Oltre ai cenni contenuti nel cit. Programma d’azione per l’attuazione della Carta comunitaria del 1989, e nella seconda direttiva del Consiglio sul diritto societario.(artt. 19.3, 23.2, 41, par. 1 e 2, della Dir. 77/91), che concede deroghe alle società per azioni in modo da incoraggiare la partecipazione finanziaria dei lavoratori, il provvedimento più organico, ma giuridicamente non vincolante, è costituito dalla Raccomandazione del Consiglio n. 92/443, sulla promozione della partecipazione ai profitti e ai risultati dell’impresa, compresa la partecipazione al capitale (43). La Raccomandazione invita gli Stati membri ad incentivare i sistemi di partecipazione economica e finanziaria dei dipendenti sulla base del seguente decalogo: a) applicazione su base regolare; b) calcolo secondo una formula predefinita; c) applicazione complementare rispetto al sistema di remunerazione tradizionale; d) variabilità della partecipazione in funzione dei risultati dell’impresa; e) estensione della possibilità di beneficiare dei sistemi di partecipazione finanziaria alla totalità del personale; f) applicabilità sia alle imprese del settore privato che a quelle del settore pubblico; g) applicabilità alle imprese di qualunque dimensione; h) semplicità degli schemi di partecipazione; i) informazione e formazione dei lavoratori sui regimi offerti; l) volontarietà dell’introduzione dei sistemi di partecipazione e dell’adesione agli stessi. I detti principi sono stati confermati dalla Relazione di accompagnamento della Raccomandazione (nota come “Rapporto PEPPER”, acronimo di Promotion of Employee Participation in Profits and Enterprises Results), aggiornata da ultimo col Rapporto “Pepper IV”. Esso fornisce un quadro completo sulla partecipazione dei lavoratori nell’ UE a 27 Stati e nei Paesi candidati, e documenta un significativo aumento della partecipazione finanziaria dei lavoratori nell’UE, nel primo decennio del nuovo secolo; inoltre propone di costruire un “concetto europeo di partecipazione finanziaria” basato su un “approccio aperto e modulare”, per sviluppare normative a livello sovranazionale, superare le differenze nazionali in materia di politica fiscale e favorire un ampio sistema di incentivi che preveda soluzioni diverse e flessibili, compatibili con quelle già vigenti negli Stati membri. Il suddetto approccio, che riflette le diversità nazionali, poggia su tre elementi base: a) partecipazione agli utili; b) partecipazione azionaria individuale (diritto d’opzione e azioni); c) piani di partecipazione azionaria collettivi (Esop). Ogni Stato membro riconoscerebbe uno o più elementi base del “concetto europeo”, assorbito in una Raccomandazione del Consiglio, come equivalenti ad un piano redatto secondo le sue stesse leggi e quindi avente uguali vantaggi. Secondo il Rapporto “Pepper IV”, L’ introduzione di un sistema applicabile a livello transfrontaliero, sul modello della Società europea o della Società privata europea, riducendo le differenze normative nazionali, in particolare quelle in materia di incentivi, avrebbe effetti positivi sia sulla domanda che sull’offerta. In particolare le società con sedi in Stati diversi potrebbero trarre vantaggio dalla riduzione degli oneri amministrativi derivante dall’applicazione generalizzata dello stesso sistema, riscuotendo interesse anche presso i lavoratori soggetti a processi di mobilità tra aziende o tra Paesi diversi.

  1. Partecipazione “debole” e partecipazione “forte”. Fondamento. Critica. Continuità e discontinuità fra i diversi meccanismi del coinvolgimento.

9.1. Nella letteratura sul tema non mancano classificazioni e graduazioni dei meccanismi partecipativi in termini di “forza” (partecipazione “forte” e partecipazione “debole”). Forme di partecipazione debole sarebbero quelle che si esauriscono nei diritti di informazione e consultazione, mentre sarebbero manifestazioni di forte partecipazione quelle che si traducono anche nella presenza di rappresentanti dei lavoratori negli organi gestori delle società commerciali, valutando, i più avveduti, anche il dato numerico dei rappresentanti dei lavoratori negli organi sociali, distinguendosi tra una partecipazione paritaria (rispetto ai rappresentanti degli azionisti), com’ è quella che si realizza nel sistema tedesco del settore carbosiderurgico, una partecipazione “quasi paritaria” (come quella della Legge tedesca del 1976) ed una partecipazione minoritaria. È soprattutto con riferimento a quest’ ultima che alcuni giungono a rilevare una sorta di equivalenza rispetto al coinvolgimento che ha luogo mediante procedure di informazione e consultazione.

Ritengo poco costruttivo affrontare la questione facendo ricorso a criteri meramente quantitativi, e con l’ occhio volto solo alla composizione degli organi gestori. Si tratta di verificare, infatti, se il grado d’ influenza di un determinato meccanismo sia solo una variabile dipendente del numero dei membri degli organi societari eletti o designati dai lavoratori o se il grado di influenza reale e complessiva risulti dal concorso di altri elementi. Se ci limitiamo al dato numerico, osserviamo infatti che i rappresentanti dei lavoratori occupano un terzo dei seggi del CdS in Austria, un terzo dei seggi dell’ ‘Assemblea mista’ in Norvegia, da due membri a un terzo dei seggi nel Comitato di Direzione in Lussemburgo e nei Paesi nordici (esclusa l’ Islanda). Malgrado questa partecipazione numericamente minoritaria, nei sistemi citati l’influenza sulle decisioni degli amministratori, o il potere di intervento sula loro formazione, appare ugualmente rilevante per i seguenti motivi: a) per il fatto che in Svezia la partecipazione riguarda anche l’ attività dei Comitati esecutivi e di altri organi decisori, previsti dal Consiglio di Amministrazione, mentre in Austria i rappresentanti dei lavoratori hanno diritto di partecipare a Comitati referenti al Comitato di Sorveglianza e di partecipare anche al Consiglio di Sorveglianza della “società dominante”; b) per il fatto che, in Norvegia, l’ organo direttivo delle società è tenuto a chiedere in via preliminare all’ Assemblea dei soci un parere su investimenti e trasformazioni rilevanti che comportino mutamenti sostanziali o conseguenze sui lavoratori, prima cioè di adottare decisioni che possono interessare questi ultimi; c) per il fatto che in Lussemburgo è richiesto il voto unanime dei membri del CdS per la designazione o la revoca di un revisore indipendente; d) per il potere, espressamente riconosciuto ai rappresentanti dei lavoratori -dalla legge danese- di partecipare alla nomina del Comitato esecutivo incaricato della gestione corrente degli affari; e) per il potere, espressamente riconosciuto dalla legge finlandese ai rappresentanti dei lavoratori, di partecipare alle decisioni concernenti la politica economica, commerciale e finanziaria dell’ impresa e la politica dell’ impiego.

C’è di più: i rappresentanti dei lavoratori possono esercitare un’ influenza anche indiretta sull’ attività dei Consigli di Amministrazione o di Sorveglianza, come si evince, ad esempio dal diritto francese e dal diritto olandese. In Olanda si riconosce, infatti, ai rappresentanti aziendali dei lavoratori un diritto di proposta (spesso utilizzato) e un diritto di veto (di fatto non utilizzato) nella nomina dei membri del CdS delle Spa e delle Srl con più di 100 dipendenti, analogo al diritto degli azionisti. Inoltre, il CdS, prima di procedere alla nomina o alla revoca di membri del Comitato di Direzione, deve consultare la rappresentanza aziendale dei lavoratori. Obblighi di consultazione dei lavoratori da parte del CdS, in apposte “riunioni di concertazione”, sono previsti anche prima dell’ adozione di determinate decisioni, quali: trasferimenti d’ azienda; partecipazioni finanziarie e cooperazione tra imprese; cessazione totale o parziale dell’ attività; riduzione, ampliamento o modificazione dell’ attività; modificazioni rilevanti dell’ organizzazione del lavoro; assunzione di lavoratori; costituzione di gruppi di esperti o affidamento ad esperti di pareri sulle suddette decisioni. Contro le dette decisioni dell’ impresa il Consiglio d’ azienda può ricorrere alla Camera di commercio entro trenta giorni dalla notifica del CdS. In Francia il Comité d’ entreprise può esercitare un (limitato) potere di influenza sulle decisioni dell’ organo di Direzione relative al bilancio annuale e alla delega di poteri, delegando due suoi membri a partecipare con voto consultivo alle riunioni del Consiglio di Amministrazione o di Sorveglianza delle società private e pubbliche. I membri del Comité d’ entreprise hanno diritto alle stesse informazioni fornite agli altri membri del Consiglio di amministrazione e possono presentare istanze o proposte al Consiglio di Amministrazione o di Sorveglianza, sulle quli questi ultimi emettono un parere motivato.

9.2. Dalla sommaria ricostruzione che precede emerge una differenza fondamentale tra i diversi meccanismi di coinvolgimento, che a loro volta scontano differenze ulteriori in ragione del concreto funzionamento dei vari sistemi nazionali. Su questa base possiamo svolgere alcune brevi considerazioni.

Si può affermare anzitutto che l’ influenza del meccanismo della partecipazione organica dipende dalla funzione svolta dagli organi “cogestiti” nel processo decisionale dell’ impresa, in particolare dal ruolo del CdS, allorché si tratti di partecipazione in una struttura societaria di tipo dualistico (un Comitato di Direzione e un CdS). In secondo luogo si può dire che i rappresentanti dei lavoratori, nella prassi, cercano di intervenire preventivamente e con carattere di priorità nelle decisioni di carattere sociale, quelle cioè immediatamente produttive di conseguenze negative per i lavoratori, piuttosto che cercare di intervenire sulle -o di influenzare le- strategie generali o globali. In terzo luogo, l’ esperienza registrata in ambito europeo permette di affermare che in alcuni contesti nazionali la partecipazione negli organi societari viene concepita come ausiliaria o complementare ai diritti di informazione, consultazione o codeterminazione, cioè come strumento di sostegno degli stessi. In effetti, negoziazioni preventive tra impresa e sindacati esterni, o tra impresa e rappresentanze sindacali interne, possono talora produrre effetti più concreti sul processo decisionale rispetto alla partecipazione (o al voto) di carattere minoritario negli organi societari: il riferimento è soprattutto al sistema francese e a quello olandese, le cui modalità gestionali si collocano a metà strada, per così dire, fra le procedure di informazione  consultazione e la partecipazione organica.

In ogni caso, nel misurare la capacità dei rappresentanti dei lavoratori di influenzare le decisioni dell’ impresa, la partecipazione organica non è il solo fattore da considerare, ma è il sistema complessivo di coinvolgimento, di intervento dei rappresentanti dei lavoratori e dei sindacati, che comprende la stessa codeterminazione aziendale (che vede protagonisti le rappresentanze aziendali dei lavoratori, si chiamino Betriebsraete, Works councils, comités de empresa, ecc.) la quale garantisce una limitazione o quanto meno procedimentalizza i poteri dell’ imprenditore su certe decisioni tipizzate quanto a contenuto ed effetti, cioè in quanto capaci di produrre conseguenze negative sui lavoratori

9.3. Una “graduazione” in termini di forza e di potere dei diversi meccanismi e/o modalità del coinvolgimento non può essere condotta in astratto ma deve tener conto di molteplici fattori, quali ad esempio: a) la differente natura giuridica e la diversa ratio e finalità dei vari istituti partecipativi; b) la collocazione dei medesimi nei sistemi sindacali e contrattuali nonché nell’ ambito delle relazioni endoaziendali tra impresa, lavoratori e loro rappresentanze; c) la diversa natura e ruolo dei soggetti titolari dei diritti di partecipazione. Quanto detto riconduce la riflessione ai temi generali, già esposti, relativi all’esistenza di una rete o di un continuum tra i vari meccanismi partecipativi, nonché tra la partecipazione e la contrattazione, e in particolare: d) dell’ inquadramento degli istituti partecipativi nei sistemi di relazioni sindacali; e) delle struttura e funzione della rappresentanza dei lavoratori e della contrattazione collettiva.

Recuperando alcune considerazioni svolte in premessa, possiamo affermare che la partecipazione dei lavoratori non ha una “valenza politico-culturale” univoca nei vari sistemi giuridici: infatti, “le disposizioni sulla partecipazione dei lavoratori sono essenziali non soltanto sotto il profilo dei diritti sociali, ma anche in quanto strumento che favorisce il buon funzionamento e il successo dell’ impresa grazie all’instaurazione di relazioni stabili fra direzione e dipendenti sul luogo di lavoro” (44). Parafrasando quanto affermato dal Tribunale costituzionale  tedesco (45), si potrebbe dire che i caratteri della partecipazione come “vincolo di socialità” (Sozialbindung) per l’impresa e come risorsa professionale ed economica della stessa “servono a consolidare politicamente l’economia di mercato e a servire al bene della collettività”. Questa impostazione ha trovato una prima e importante applicazione nella Dir. n. 94/45 (46), poi consolidata dalla Dir.n. 2009/38, e ulteriori enunciazioni nelle normative  sullo Statuto di Società europea, che rappresentano un progresso nell’ integrazione economica e sociale europea nella parte in cui introducono temperamenti sul piano sociale, mediante meccanismi di concertazione transnazionale, ai processi di internazionalizzazione delle imprese.

Le funzioni corrispondenti a queste forme di partecipazione si esauriscono talvolta in sedi e organismi appositi di informazione e di consultazione dei lavoratori (talora distinti, più spesso congiunti), ma possono manifestarsi anche in attività negoziali prodromiche alla stipulazione di contratti collettivi gestionali, diversi – per causa ed oggetto- dalla contrattazione tradizionale, in quanto innestate in attività di gestione congiunta (e/o di codeterminazione) di vicende particolari dell’impresa (come le crisi aziendali o i processi di riorganizzazione, ristrutturazione, riconversione che possono dar luogo a riduzioni del personale o a trasferimenti di azienda). Queste forme c.d. deboli di partecipazione esprimono, in realtà, due tendenze tra loro convergenti: a) quella della contrattazione a trasformarsi in un complesso, più o meno stabile ed organizzato, di relazioni tra impresa e lavoratori, soprattutto nelle ricordate situazioni di crisi aziendali e di mercato, le quali richiedono un grado elevato di “consenso sociale” alle decisioni d’impresa (tendenza particolarmente evidente nell’esperienza italiana); b) quella della partecipazione a configurarsi come sede prodromica di attività negoziali -e talora contrattuali- tra impresa e rappresentanze aziendali dei lavoratori, con esclusione dei soggetti sindacali e contrattuali in senso stretto, quando si tratti di comporre in modo non conflittuale (e preferibilmente in forma stragiudiziale, con la previsione di sedi arbitrali anche aziendali) interessi contrapposti dell’impresa e dei lavoratori conseguenti a decisioni dell’impresa produttive di negative conseguenze sociali.

Viste dalla prospettiva da ultimo enunciata, la partecipazione e la contrattazione danno luogo a un dialogo sociale stabile che può coinvolgere anche i Pubblici poteri (non solo per i compiti tradizionali di mediazione e conciliazione di conflitti e controversie collettive ma in particolare per l’amministrazione attiva dei problemi connessi al mercato del lavoro, alla riqualificazione professionale, ecc., come prevedono, ad esempio  le direttive sui licenziamenti collettivi). In questo senso, mentre alcuni istituti partecipativi diventano prodromici rispetto alla contrattazione, e tendono a favorire una “specializzazione” delle funzioni di rappresentanza e di quelle negoziali, la contrattazione produce a sua volta sedi ed istituti partecipativi che producono ulteriori effetti sulle relazioni contrattuali, rendendole più stabili ma anche più complesse (come nel caso dell’allargamento del Dialogo sociale ad altri soggetti, pubblici e privati).

Un secondo ordine di osservazioni riguarda il rapporto tra partecipazione e contrattazione; per quanto diverse siano le forme della partecipazione, “la sua lunga e mutevole storia insegna una cosa: le valutazioni sulla partecipazione dei lavoratori al processo decisionale delle imprese non possono essere separate da quelle sulla funzione e la portata della contrattazione collettiva”. “In un caso come nell’ altro i lavoratori cercano di esercitare un’influenza sulle condizioni nelle quali lavorano e producono. L’una e l’altra sono nate dalla conoscenza, da parte dei lavoratori, della particolare situazione in cui si trovano; l’una e l’altra si sono sviluppate con la consapevole intenzione dei lavoratori di ridurre gli svantaggi connessi alla loro condizione di dipendenza” (47). Per questi motivi non è indifferente, per l’ attività contrattuale e sindacale dei rappresentanti dei lavoratori, l’esistenza e il buon funzionamento della partecipazione con le sue ripercussioni; analogamente non sono irrilevanti, per il buon funzionamento degli istituti partecipativi, gli obiettivi concreti e le realizzazioni della politica contrattuale.

Questo rapporto simbiotico (cioè di “relazione stretta con reciproca influenza”) tra partecipazione e contrattazione è presente in vari sistemi nazionali: preso atto che in alcuni Stati le procedure di informazione e consultazione dei lavoratori sulle decisioni strategiche o economiche e sulle conseguenze sociali che ne derivano, non è sempre garantito in modo adeguato e che, anzi, assai spesso il coinvolgimento dei lavoratori serve di fatto ad avallare decisioni del datore di lavoro, senza poter influire sulle stesse, da più parti si sostiene la necessità di pervenire a procedure informative  e consultive che consentano una reale anticipazione delle decisioni delle imprese, ponendo in essere una reale politica di prevenzione e di accompagnamento delle decisioni strategiche, comprese quelle riguardanti l’occupazione (formazione, riconversione, riqualificazione, ecc.), nonché di quelle dirette a rafforzare la capacità di impiego.

 

NOTE

(*) Contributo ai “Materiali di studio” per la Scuola europea di Relazioni industriali, diretta da Marco Cilento, nell’ambito del Festival Lucisullavoro (Montepulciano-SI).

 ([1]) Si v., in proposito, M. D’ ANTONA, Partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese (voce), in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma 1990.

(2) K.F. WALKER K.F., Workers’ participation in management. Problems, practice and prospects, International Institute for Labor Studies, Bulletin 12, 1975, p. 9, s.

(3) “Partecipazione contrattuale”, giustapposta a quella “conflittuale” e a quella “collaborativa”; sul punto, Cfr. S. LEONARDI, Partecipazione e comando nell’impresa fordista e in quella post-fordista, Rivista Critica di Diritto del Lavoro, n. 1/’96.

(4) L. BELLARDI, Concertazione e contrattazione. Soggetti, poteri e dinamiche regolative, Cacucci, Bari 1999; B. VENEZIANI, Stato e autonomia collettiva,  III ed., Cacucci,  Bari 1992.

(5) W. DÄUBLER, The Individual and Collective: no Problem for German Labour Law, in Comparative Labour Law Journal, 1989, p. 34; J. SCHREGLE, Co-Determination in the Federal Republic of Germany, in International Labour Review, Vol, 117, No. 1, 1978; M. WEISS, Labour Law and Industrial Relations in the Federal Republic of Germany, Kluwer, Deventer, 1987.

(6) A norma della Dir. n. 98/59, concernente la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi, il datore di lavoro deve “procedere in tempo utile a consultazioni con i rappresentanti dei lavoratori al fine di giungere ad un accordo”; in base alla Dir. n. 98/50, sulla tutela dei lavoratori in caso di trasferimento d’ impresa, il datore di lavoro cedente e quello cessionario “sono tenuti ad avviare in tempo utile le consultazioni [sulle misure previste nei confronti dei rispettivi lavoratori] con i rappresentanti dei rispettivi lavoratori al fine di ricercare un accordo”.

(7) L. BELLARDI, Istituzioni bilaterali e contrattazione collettiva. Il settore edile (1945-1988), F.Angeli, Milano 1989; S. LEONARDI, Bilateralità e servizi. Quale ruolo per il sindacato?, Ediesse, Roma 2005.

(8) Per i profili di diritto commerciale e societario della partecipazione, si v. M.J. BONELL., La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese (voce), Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma 1990. Per una ricostruzione sul piano internazionale dei temi connessi alla partecipazione, si v. R. BLANPAIN., Representation of employees at plant and enterprise level, Dordrecht, Martinus Nijhoff, 1994; T. KOCHAN, Worker Participation and American Unions: Threat or Opportunity?, in collaboraziopen con. Katz, Mower N., Kalamazoo: W.E..Upjohn Institute for Employment Research, 1984; T.KOCHAN, H. KATZ; R. McKERSIE, The Transformation of American Industrial Relations. New York, NY: Basic Books, 1986; M. WEISS, Trade Unions, Workers’ Participation and Collective Bargaining in Germany and the EU,  in: J. G. Getman, R. Marshall (ed.), The Future of Labor Unions, Organized Labor in the 21st Century, 2004, p. 201, s; M. WEISS, The European Community’s Approach to Workers’ Participation: Recent Developments, in: A. C. Neal (ed.), Social Policy, 2004, 39; J. HYMAN., B. MASON, Managing Employee Involvement and Participation, London: Sage, 1995; G. STRAUSS, Workers participation in management: An international perspective, in Research in Organisational Behavior, Vol. 4, 1982; M. WEISS, M. SEWERYNSKI., Handbook on employee involvement in Europe, The Hague, Kluwer Law International, 2004. Per una più recente lettura, Cfr. P. OLIVELLI, Rappresentanza collettiva dei lavoratori e diritti di partecipazione alla gestione delle imprese, in DLRI, 107, 2007. Per una ricostruzione del dibattito politico e sindacale italiano, è doveroso il rinvio a G. Baglioni Democrazia impossibile?, Il Mulino, 1995; dello stesso A. (a cura di), Teorie della tutela e della partecipazione. Antologia, in “L’impresa plurale. Quaderni di partecipazione”, n. 10/2002.

(9) S. e B. WEBB, Industrial Democracy, Longmans Green, London, 1897 (trad. it.: Democrazia industriale, Ediesse, Roma, 1984); A.FLANDERS, H.A. CLEGG (a cura di), The System of Industrial Relations in Great Britain: its History, Law and Institutions (Oxford: Basil Blackwell, 1954); E.H. HUNT, British Labour History, 1815-1914 (London: Weidenfeld and Nicolson, 1981. Per un inquadramento della partecipazione nelle tre grandi “prospettive” di emancipazione del lavoro (‘antagonista’, ‘evoluzionista’ e ‘integrazionista’), delineate dal pensiero politico-sociale dell’ Ottocento, cfr. A. ACCORNERO, La partecipazione come prospettiva emancipatoria del nuovo secolo?, in L’impresa al plurale, n.3/4, 1999, Milano, p. 31 e s.

(10) G. GIUGNI, Democrazia industriale e controllo operaio, in Democrazia industriale e sindacato in Italia, “Quaderni di Mondoperaio”, nuova serie, n. 5/1977.

(11) M. AMBROSINI (a cura di), La partecipazione dei lavoratori nell’impresa: realizzazione e prospettive, F. Angeli, Milano 1998;

(12) S.J. CHAPMAN, J.H. WHITLEY, Labour and capital after the war, London, J.Murray, 1918;

(13) P. RESCIGNO, Pluralismo e rappresentanza, Il Progetto, 55-56/1990. Verso la prospettiva di una maggiore partecipazione politica dei cittadini e dell’ emancipazione sociale, muove anche un filone culturale della dottrina sociale della Chiesa (si v. G. Baglioni-M. Castro-M. Figurati-M. Napoli-D. Paparella, Oltre la soglia dello scambio. La partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Idee e Proposte, CESOS, 2000).

(14) F. NAPHTALI, Wirtschaftsdemokratie. Ihr Wesen, Weg und Ziel, Berlin, 1928 (Bund-Vlg., Köln, 1984); W. LUTHARDT (a cura di), Sozialdemokratische Arbeiterbewegung und Weimarer Republik. Materialien zur gesellschaftlichen Entwicklung 1927-1933, Bd. 2, Frankfurt. M. 1978; G.E. RUSCONI, La crisi di Weimar, Einaudi, Torino 1977.

(15) G. Ghezzi, Commento all’art. 46,  in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma 1980.

(16) P .HAEBERLE, Grundrechte im Leistungsstaat, in: Veröffentlichungen der Vereinigung Deutscher Staatsrechtslehrer, vol. 30, 1972, 163 e s.

(17) Nel suo Rise and Fall of Economic Justice, Oxford University Press, USA, 1985, C.B. MACPHERSON tracciava la seguente distinzione teorica fra democrazia industriale e democrazia economica: mentre la prima “riguarda in primo luogo le decisioni relative alla produzione (condizioni di lavoro, metodi di produzione e anche fini e allocazione della produzione)”, la seconda “riguarda in primo luogo la distribuzione dei beni sociali nell’intera società”; con questa espressione “non deve intendersi soltanto la distribuzione dei redditi, quanto soprattutto la distribuzione dei poteri e delle opportunità nella sfera economica”.

(18) COMMISSION ON INDUSTRIAL DEMOCRACY, Report of the Commission on industrial democracy, London, HMSO, 1977; O. KAHN FREUND, Industrial Democracy. Industrial Law Journal 1977, 6(1); P. DAVIES, W. WEDDERBURN OF CHARLTON, The Land of Industrial Democracy, Industrial Law Journal 1977.

(19) MACPHERSON, cit.; H. CLEGG, Trade Unionism under Collective Bargaining, Blackwell, Oxford 1976.

(20) CONSIGLIO CEE, Risoluzione del 21 gennaio 1974, relativa ad un programma di azione sociale (in GUCE 13, del 12.2.1974).

(21) Secondo gli articoli 17 e 18 della Carta, “occorre sviluppare l’informazione, la consultazione e la partecipazione dei lavoratori secondo modalità adeguate, tenendo conto delle prassi vigenti nei diversi Stati membri. Ciò vale, in particolare, nelle imprese o nei gruppi che hanno stabilimenti o imprese situati in più Stati membri della Comunità europea”. “L’informazione, la consultazione e la partecipazione devono essere realizzate tempestivamente e in particolare nei casi seguenti: al momento dell’introduzione nelle imprese di mutamenti tecnologici aventi incidenze notevoli per i lavoratori in ordine alle condizioni di lavoro e all’organizzazione del lavoro; in occasione di ristrutturazioni o fusioni di imprese che incidono sull’occupazione dei lavoratori; in occasione di procedure di licenziamenti collettivi; quando determinate politiche occupazionali seguite dall’impresa hanno ripercussioni sui lavoratori della stessa, in particolare, su quelli transfrontalieri”.

(22) Si v., in tal senso, le sentenze 28 ottobre 1999, causa C-187/98, Commissione/Grecia, punto 46; 18 dicembre 2008, causa C-306/07, Andersen, punto 25; 11 febbraio 2010, causa C-405/08, Ingeniørforeningen i Danmark, c. Dansk Arbejdsgiverforening, punti 39 e 40).

(23) Cfr. le sentenze 28 ottobre 1999, in causa C-187/98, punto 46; 18 dicembre 2008, in causa C-306/07, punto 25; 11 febbraio 2010, in causa C-405/08, punti 39 e 40.

(24) M.LAI, Diritto della salute e della sicurezza sul lavoro, Giappichelli, Torino,  2010.

(25) Sentenza dell’8 giugno 1994, cause C-382-383/92; cfr. il commento di G. LYON-CAEN, Le Royaume-Uni, mauvais élève ou rebelle indomptable ? in Droit Social, 11/1994.

(26) F. VANDAMME, La fermeture de l’ usine Renault-Vilvorde: conséquences politiques et sociales internationales, in Revue du Marché Commun et de l’ Unione Européenne, 1997

(27) Il riferimento è al Rapporto conclusivo del gruppo di esperti guidato da Davignon, su “European Systems of Involvement”; e al “Rapporto conclusivo del gruppo di esperti di alto livello guidato da Gyllenhammar, per le conseguenze economiche e sociali del processo di trasformazione industriale. (COMMISSIONE CE, Libro verde “Partnership per una nuova organizzazione del lavoro” [COM(97)128 def.]).

(28) PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 sull’applicazione della direttiva 2002/14/CE che stabilisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori nella Comunità europea (P6_TA(2009)0061).

(29) CGE, 21 settembre 1989, causa 68/88; 10 luglio 1990, in causa 326/88.

(30) In GUCE, C 297/3 del 15 novembre 1980.

(31) Si v. le sentenze 29 marzo 2001, in causa C-62/99; 13 gennaio 2004, in causa C-440/2000; 15 luglio 2004, in causa C-349/01.

(32) Scopo dei regolamenti concernenti la società europea e la società cooperativa europea (Regg. n. 2157/2001 e 3235/2003) è quello di favorire la costituzione e la gestione di società di dimensioni europee “senza gli ostacoli dovuti alla disparità delle legislazioni nazionali applicabili alle società commerciali e ai limiti territoriali della loro applicazione”, offrendo così “un quadro giuridico uniforme per programmare ed eseguire la loro attività a livello comunitario”. Le ipotesi di costituzione di una SE, indicate tassativamente dal Reg. n. 2157/2001, sono le seguenti: a) fusione tra (sole) S.p.a., con sede e amministrazione centrale in Stati membri differenti; b) creazione di una holding, con sede e amministrazione centrale in Stati membri differenti ovvero nello stesso Stato ma (da almeno due anni) con affiliate o succursali in altri Stati membri; c) creazione di una società partecipata o controllata in comune da società o da altri enti pubblici o privati che si trovano nelle condizioni descritte per la SE holding; d) trasformazione della (sola) S.p.a., che da almeno due anni abbia un’ affiliata in un altro Stato membro della UE: soltanto in questa ipotesi la SE non è un nuovo soggetto giuridico, bensì una nuova veste organizzativa per una società già esistente e persistente. Le ipotesi di costituzione di una SCE sono simili a quelle, già descritte, della SE.

(33) COMMISSIONE CEE,  “Libro Verde” sulla “Partecipazione dei lavoratori e la struttura delle società”, in Bollettino CEE, supplemento 8/75.

(34) J.A.FERNANDEZ AVILÉS, El “sistema normativo” de implicaciòn de los trabajadores en la sociedad europea. Documento de trabajo n. 5/2009, OIT,  Ginebra;

(35) COMMISSIONE CEE,  “Libro Verde” sulla “Partecipazione dei lavoratori […], cit..

(36) S.SIMITIS, La Corte costituzionale federale e la cogestione, DLRI, 1979, p. 619.

(37) Ai fini della direttiva s’ intende per fusione transfrontaliera delle società di capitali l’operazione con la quale: a) una società trasferisce la totalità del suo patrimonio ad altra società preesistente (la società incorporante) mediante l’assegnazione ai loro soci di titoli o quote rappresentativi del capitale sociale della società incorporante ed eventualmente di un conguaglio in contanti non superiore al 10% del valore nominale di tali titoli o di tali quote o, in mancanza di valore nominale, della loro parità contabile; b) due o più società trasferiscono la totalità del loro patrimonio ad una società da loro costituita mediante l’assegnazione ai loro soci di titoli o quote rappresentativi del capitale sociale della nuova società ed eventualmente di un conguaglio in contanti non superiore al 10% del valore nominale di tali titoli o di tali quote o, in mancanza di valore nominale, della loro parità contabile; c) una società trasferisce la totalità del proprio patrimonio alla società che detiene la totalità delle quote o dei titoli rappresentativi del suo capitale.

(38) A PRETO-C.DESOGUS, La direttiva comunitaria sulle fusioni transfrontaliere di società di capitali, in Contratto Impresa/Europa, 2006.

(39) J.E. MEADE, Agathopia: The Economics of Partnership, Aberdeen. The David Hume Institute. 1989; P. SANTI, Economia della partecipazione e relazioni industriali, DLRI,  43, 1989; M.L. WEITZMAN, The Share Economy: Conquering Stagflation, 1984, Harvard University Press, Cambridge.

(40) R. MEIDNER, Capitale senza padrone, Edizioni lavoro, Roma 1980; M. CARRIERI, La democrazia economica dimezzata. La parabola svedese: 1975-1990, DRLI, 1991.

(41) DAHL, R.A. A Preface to Economic Democracy, University of California Press, 1986;

(42) J. LOWITZSCH, Il cammino verso una Regolamentazione Europea, in The PEPPER IV Report:  Benchmarking of Employee Participation in Profits and Enterprise Results in the Member and Candidate Countries of the European Union, Institute for Eastern European Studies, Free University of Berlin, 2009, p. 69, s.

(43) A. ALAIMO, La partecipazione azionaria dei lavoratori: retribuzione, rischio e controllo, Giuffrè, Milano 1998.

(44)  Così la Commissione europea, nel “Memorandum sulla Società europea” , del 1988.

(45) Tribunale costituzionale (Bundesverfassungsgericht), sentenza del 1° marzo 1979; cit.

(46) “Il funzionamento del mercato interno comporta un processo di concentrazione di imprese, di fusioni transfrontaliere, di acquisizioni di controllo e di associazioni e, di conseguenza, una transnazionalizzazione delle imprese e dei gruppi di imprese [..]; se si vuole che le attività economiche si sviluppino armoniosamente, occorre che le imprese e i gruppi di imprese che operano in più di uno stato membro informino e consultino i rappresentanti dei lavoratori interessati dalle loro decisioni” (Così. l’ 8° considerando della Dir. n. 94/45; ribadito nei  considerando della Dir. n. 2009/38).

(47) S. SIMITIS, La Corte costituzionale federale e la cogestione,  […], cit., p. 596.