Prime note in vista del referendum costituzionale
30 agosto 2020SULLA RIDUZIONE DEL NUMERO DEI PARLAMENTARI. IN VISTA DEL REFERENDUM DEL 20-21 SETTEMBRE 2020. PRIME NOTE.
SOMMARIO.
1.Introduzione.
2. Una riforma costituzionale non accompagnata da adeguata informazione. Soprattutto in relazione ai suoi reali ed ulteriori effetti.
3. Il numero dei parlamentari nella costituzione italiana.
4.-4.1.Le motivazioni della riforma costituzionale. Limiti e contraddizioni. I rischi della riforma costituzionale.
4.2. L’argomento che fa leva sulla elefantiasi del Parlamento italiano (al confronto con Assemblee elettive di altri Paesi).
4.3. L’argomento relativo al risparmio di costi ed alla maggiore efficienza.
5. Effetti diretti e indiretti della riforma.
1.Introduzione.
1.1. I giorni 20 e 21 di settembre, contagi da Covid-19 permettendo, i cittadini italiani saranno chiamati a pronunciarsi su una riforma costituzionale nota semplicisticamente come “taglio dei parlamentari”. Il quesito è così formulato: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei Parlamentari’, approvato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 250 del 12 ottobre 2019 ?”.
Il dibattito parlamentare sulla riduzione del numero dei componenti delle due Camere è iniziato nella XVIII legislatura, avviatasi dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018. A preannunziare il dibattito sono state alcune anticipazioni rese dal Ministro “per i rapporti con il Parlamento e per la democrazia diretta” innanzi alle Commissioni Affari costituzionali congiunte di Camera e Senato (seduta del 12 luglio 2018). Su questa falsariga è seguita una iniziativa legislativa parlamentare (Atto Senato [A.S.] n. 805: senatori Patuanelli: Movimento 5Stelle, e Romeo: Lega Nord). Ma già prima erano stati presentati l’A.S. n. 214 (sen. Quagliariello: Gruppo Misto) e l’A.S. n. 515 (sen. Calderoli: Lega-Salvini Premier-Partito Sardo d’Azione).
Il testo della legge costituzionale, che prevede la riduzione del numero dei parlamentari: da 630 a 400 Deputati e da 315 a 200 Senatori elettivi, è stato approvato dal Senato, in seconda votazione, con la maggioranza assoluta dei suoi componenti, nella seduta dell’11 luglio 2019, e dalla Camera dei deputati, in seconda votazione, con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, nella seduta dell’8 ottobre 2019.
Nel procedimento di approvazione della riforma si è verificata un’anomalia politica[1] nella sua fase finale, conseguente alla formazione agli inizi di settembre 2019 del governo di coalizione tra Movimento 5 Stelle (M5S) e Partito Democratico (PD), definito dai media come Governo “Conte 2”. La riduzione del numero dei parlamentari, prevista come primo obiettivo delle riforme istituzionali proposte dal governo precedente (coalizione Lega-M5S: Governo “Conte 1”) è stata approvata nelle prime tre deliberazioni con il voto contrario del PD e di Liberi e Uguali, per cui nella seconda votazione del Senato con 180 voti a favore e 50 contrari ha raggiunto la maggioranza assoluta ma non quella dei due terzi che avrebbe reso impossibile il ricorso al referendum. Al contrario, nella seconda e definitiva votazione alla Camera, l’8 ottobre 2019, ha ottenuto 553 voti favorevoli, derivanti dal sostegno di tutti i Gruppi parlamentari, 14 voti contrari (13 del gruppo misto e uno di Forza Italia) e due astenuti
Poiché la riforma costituzionale non è stata approvata a maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, un quinto dei Senatori, in base all’art. 138 della Costituzione, ha potuto richiedere il referendum confermativo per dare l’ultima parola al popolo italiano.
In precedenza, l’unica iniziativa popolare per la richiesta del referendum è stata quella dei radicali, che però non è riuscita a raccogliere il numero di firme necessario, come risulta dall’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum, del 23 gennaio 2020. Il referendum è stato quindi indetto, come anticipato, su iniziativa parlamentare di un quinto dei Senatori, raccogliendo un numero di firme superiore a quello dei voti contrari alla riforma registrati nella seconda votazione al Senato. Risulta difficile, pertanto, considerare questa iniziativa come il solo e genuino prodotto di chi si è opposto nel dibattito parlamentare alla legge costituzionale, conformemente alla natura che dovrebbe assumere il referendum costituzionale. Basti pensare ai nove firmatari della Lega, partito che ha proposto insieme al M5S la revisione costituzionale e che l’ha sostenuta in modo compatto in tutte le votazioni parlamentari.
Considerazioni di pure convenienza politica, dunque, poco coerenti con lo spirito e l’oggetto della richiesta referendaria. E ciò malgrado, “utili alla bisogna”. Spetta, dunque, agli elettori confermare o respingere la modifica costituzionale.
1.2. Originariamente previsto per il 29 marzo 2020, il referendum è stato rinviato al 20 e 21 settembre in seguito alle misure restrittive adottate per combattere il Coronavirus, che avrebbero gravemente compromesso lo svolgimento della campagna referendaria.
La riduzione dei parlamentari, dagli attuali 945 a 600, è pari a un taglio lineare del 36,5%. In seguito a tale riduzione, il numero medio di abitanti per ciascun parlamentare eletto passerebbe, per la Camera, da un deputato ogni 96.000 a uno ogni 151.210 abitanti; per il Senato da un senatore ogni 188.424 a uno ogni 302.420 abitanti. È senza dubbio un discostamento notevole non solo rispetto all’attuale proporzione ma anche rispetto a quella a suo tempo immaginata dai Padri costituenti.
1.3. La legge oggetto del referendum si compone di quattro articoli.
-L’art. 1 modifica l’art. 56 della Costituzione riducendo il numero dei Deputati da 630 a 400. Il numero dei Deputati eletti nella Circoscrizione Estero scende da 12 a 8;
-L’art. 2 modifica l’art. 57 della Costituzione riducendo il numero dei Senatori elettivi da 315 a 200. Il numero dei Senatori eletti nella Circoscrizione Estero scende da 6 a 4. La riduzione complessiva del numero dei Senatori conduce ovviamente alla riduzione del numero minimo di Senatori eletti per Regione: da 7 a 3 (computando per la prima volta, oltre alle Regioni, anche le Province autonome di Trento e Bolzano). Restano invece invariati i seggi assegnati al Molise (due) e alla Valle d’Aosta (uno);
-L’art. 3 modifica l’art. 59 della Costituzione chiarendo che il numero massimo di senatori a vita di nomina del Presidente della Repubblica non possa in alcun caso essere superiore a 5, in tal modo risolvendo, nel senso più restrittivo, il nodo interpretativo se cinque fosse il numero di senatori a vita in carica nominati dall’istituzione presidenziale o, invece, da ciascun Presidente della Repubblica, secondo l’interpretazione che peraltro sinora ne hanno dato soltanto Sandro Pertini e Francesco Cossiga;
-L’art. 4 disciplina l’entrata in vigore delle nuove disposizioni di legge stabilendo che esse si applicano a decorrere dalla data del primo scioglimento delle Camere successivo alla data di entrata in vigore della legge costituzionale e comunque non prima che siano decorsi 60 giorni dalla suddetta data di entrata in vigore.
Possono votare tutti i cittadini italiani iscritti nelle liste elettorali del Comune e che avranno compiuto il 18° anno di età il 20 settembre 2020. I cittadini italiani residenti all’estero (AIRE) possono votare all’estero.
Al referendum costituzionale partecipano anche le elettrici e gli elettori italiani residenti all’estero, che a differenza delle procedure nazionali esprimono il voto per corrispondenza. Il numero degli aventi diritto nella circoscrizione estero a fine marzo 2020 è stimato a 4.500.000 elettrici e elettori, dei quali 2.500.000 in Europa, 1.500.000 in America latina, il resto sparsi nel mondo. Permangono tuttavia le difficoltà epidemiologiche emergenziali in grandi Paesi del Sud e Nord America, il cui rientro temporale alla attività di ordinaria amministrazione è ancora incerto.
1.4. Chi voterà SI approverà la riduzione del numero dei parlamentari. Chi voterà NO deciderà che il numero dei parlamentari resti quello attuale.
In caso di vittoria del SI dovrà essere modificata la legge elettorale per ridefinire i collegi elettorali coerentemente al numero inferiore dei parlamentari eletti.
Non è previsto, come già detto, il raggiungimento di uno specifico quorum. Vince chi ottiene anche un solo voto in più.
Pertanto, se i SI supereranno i NO, la riduzione del numero dei Parlamentari verrà confermata e 345 seggi saranno eliminati. Ma se prevarranno i NO si tornerà allo status quo ante, ovvero 945 parlamentari totali di cui 630 deputati e 315 senatori (più i senatori a vita).
Il referendum confermativo chiude una procedura di garanzia rafforzata. Le norme per la revisione della Costituzione impongono tempi lunghi e passaggi complessi. Il procedimento previsto dall’art. 138 della Costituzione è il seguente: una legge costituzionale dev’essere approvata dalle due Camere per due volte successive a distanza di tre mesi l’una dall’altra. Nel caso in cui nella seconda votazione venga raggiunta in entrambe le Camere la maggioranza dei due terzi, la legge è approvata in via definitiva e promulgata dal Presidente della Repubblica. Se, invece, nella seconda votazione, la legge viene approvata semplicemente con una maggioranza assoluta (50% +1), allora la legge viene pubblica in Gazzetta Ufficiale in modo tale da consentire l’avvio del possibile iter referendario (il referendum costituzionale può essere chiesto, entro tre mesi, da un quinto dei componenti di una Camera, da cinque Consiglio regionali o da cinquecentomila elettori). Se il referendum viene effettivamente promosso, l’applicazione o il rigetto della legge dipendono dall’esito del referendum. Nel caso in cui il referendum non venga promosso, la legge viene promulgata dal Presidente della Repubblica e pubblicata di nuovo in Gazzetta Ufficiale per l’effettiva entrata in vigore. Per tali motivi, la revisione della Costituzione, anche senza contrasti tra le forze parlamentari, non avviene mai in tempi brevi. Questa forma di garanzia è volta ad impedire uno stravolgimento della Costituzione, anche se può non venire incontro alle esigenze di urgenza ed efficacia che la realtà in ipotesi potrebbe imporre.
2. Una riforma costituzionale non accompagnata da adeguata informazione. Soprattutto in relazione ai suoi reali ed ulteriori effetti.
2.1. La legge oggetto di referendum confermativo sembra circoscrivere i suoi effetti alla riduzione del numero dei parlamentari. Ora, rispetto alle “grandi riforme” del 2006 (governo Berlusconi) e del 2016 (governo Renzi), per citare solo i progetti giunti fino allo stadio di delibere costituzionali sottoposte al voto dei cittadini, e da essi respinte, la riforma che dovrà essere confermata dal voto popolare presenta un oggetto delimitato, specifico e omogeneo. Tuttavia, a ben vedere, questa riforma s’inserisce in un progetto di più ampia portata.
È doveroso sottolineare che la revisione costituzionale, salutata con accurata enfasi come un momento storico e di conclusione di un lungo iter politico, rappresenta, invece, un punto di partenza che necessita dell’attuazione di idonei adeguamenti o correttivi, o di “riforme di contrappeso”, una volta esaurito il carico emotivo e il carattere contingente che hanno portato all’approvazione di tale modifica costituzionale. La suddette riforme dovrebbero a giudizio di molti consistere nell’adozione di un sistema elettorale che dia piena libertà di scelta agli elettori, in revisioni costituzionali di riequilibrio e in modificazioni significative dei regolamenti parlamentari.
La formazione del governo “Conte 2”, se ha determinato l’approvazione della revisione con una forte maggioranza nella quarta votazione alla Camera, ha spinto i partiti di governo a prevedere alcune riforme di “contrappeso”, riforme che il Programma di governo del 4 settembre 2019, ha indicato, al punto 10, come frutto di “un percorso per incrementare le opportune garanzie costituzionali e di rappresentanza democratica, assicurando il pluralismo politico e territoriale”, e ha specificato poi nella riforma della legge elettorale, nel cambiamento dei requisiti di elettorato attivo e passivo per l’elezione delle Camere e, infine, in “una revisione costituzionale volta a introdurre istituti che assicurino più equilibrio al sistema e che contribuiscano a riavvicinare i cittadini alle istituzioni”[1].
Il 7 ottobre 2019 i Capigruppo della maggioranza hanno assunto una serie di “impegni comuni” in tema di riforme della legge elettorale, di abbassamento dell’elettorato passivo per l’elezione del Senato, di modificazione dei regolamenti parlamentari e di “interventi costituzionali” relativi al rapporto fiduciario tra Camere e Governo.
2.2. Com’è ovvio, la riduzione del numero dei parlamentari incide sulla rappresentanza, sulla sovranità popolare, sul ruolo del Parlamento e quindi sulla vita democratica. Malgrado l’indubbia rilevanza del referendum, l’informazione che viene fornita agli elettori è obiettivamente inadeguata per qualità e tempo dedicato. Secondo un sondaggio condotto a metà di agosto da IPSOS, società di analisi e ricerche di mercato, solo il 28% degli italiani era a conoscenza del referendum costituzionale, e quindi del suo oggetto e finalità, e consapevole dei suoi profondi effetti. Eppure, a favore di una corretta informazione si era mossa l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM), che il 22 luglio scorso aveva rivolto a tutti i fornitori di servizi di media audiovisivi e radiofonici un “atto di indirizzo” affinché “considerata la rilevanza politica e istituzionale del referendum confermativo quale strumento di democrazia partecipativa”, assicurassero “uno spazio adeguato ai temi inerenti al referendum popolare confermativo del testo della legge costituzionale […], garantendo una corretta, imparziale e completa rappresentazione delle posizioni favorevoli e contrarie”. Ciò malgrado, l’informazione agli elettori restava assai povera. Tanto da sollecitare l’AGCOM a intervenire di nuovo.
Il 19 agosto, avendo esaminato i dati di monitoraggio relativi al periodo di campagna referendaria, con riguardo alla settimana 8-15 agosto, l’Autorità ha giudicato ”ancora insufficiente lo spazio complessivamente dedicato dai media a un argomento così rilevante”. L’AGCOM, “alla luce della rilevanza costituzionale del quesito, inerente la composizione dei due rami del Parlamento, Istituzione massima della sovranità popolare, ha ravvisato l’esigenza di garantire un’informazione completa e corretta, nonché il più ampio accesso ai soggetti chiamati a rappresentare le posizioni favorevoli e contrarie già a partire da questa fase della campagna referendaria coincidente con il periodo delle vacanze estive”. Di conseguenza, l’’AGCOM “ha deciso di rivolgere ordini a tutti i fornitori di servizi media audiovisivi affinché assicurino […] un’informazione completa che illustri il merito del quesito referendario e garantisca il bilanciamento delle posizioni favorevoli e contrarie. E ciò sia nei notiziari sia nei programmi di approfondimento (extra Tg), nei quali ultimi sono stati riscontrati alcuni squilibri, oltre che insufficiente trattazione del merito”.
Una sufficiente e adeguata informazione ai cittadini non è cosa di poco conto, se si considera che, a parte le ragioni di merito, a parte la rilevanza delle modifiche che verrebbero introdotte nell’organizzazione e nel funzionamento delle istituzioni e nel rapporto tra queste e i cittadini, per la validità di questo tipo di referendum non è necessario un quorum, come già detto.
Sotto questo aspetto il referendum confermativo (o costituzionale, o sospensivo, disciplinato dall’art. 138 della Costituzione) differisce dal referendum abrogativo (art. 75 della Costituzione). Il quale, per essere valido, necessita del raggiungimento di un quorum, nel senso che devono partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto: affinché la norma oggetto del referendum stesso sia abrogata, dev’essere raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. Invece, nel referendum confermativo si procede al conteggio dei voti validamente espressi indipendentemente dal fatto che abbia partecipato o meno alla consultazione la maggioranza degli aventi diritto. Prevale quindi la maggioranza dei voti espressi indipendentemente dal numero dei votanti. È dunque importante che gli elettori siano adeguatamente informati. Della carente informazione si lamentano in particolare i cittadini residenti all’estero.
3. Il numero dei parlamentari nella Costituzione italiana.
In Italia, gli articoli 56 e 57 della Costituzione prevedono un numero fisso di deputati e senatori, rispettivamente pari a 630 e 315 (cui si aggiungono i senatori a vita e i senatori di diritto a vita). Questa previsione è stata introdotta dalla legge costituzionale n. 2 del 1963. Nella precedente formulazione, approvata dall’Assemblea Costituente (1947), il numero dei parlamentari era determinato in misura fissa il rapporto con la popolazione: per la Camera, un deputato ogni 80.000 abitanti (o frazioni superiori a 40.000); per il Senato un senatore ogni 200.000 abitanti (o frazioni superiori a 100.000)[3].
Oggi, in rapporto alla popolazione, vi è un Deputato ogni 96.006 abitanti circa; un Senatore elettivo (senza considerare i senatori a vita e i “senatori di diritto a vita”) ogni 188.424 abitanti circa. Se venisse confermata la riforma costituzionale, questa proporzione sarebbe destinata quasi a raddoppiare.
La disciplina costituzionale introdotta nel 1963 (che allo stesso tempo parificava la durata delle due Camere, in precedenza diversificata, essendo di sei anni quella del Senato) manteneva un quoziente di rappresentatività non diverso di fatto da quello risultante dall’applicazione della originaria formulazione, per quanto riguarda la Camera dei deputati. Per il Senato, invece, mirava ad affrontare il profilo della ‘integrazione’ della sua composizione.
Infatti la III disposizione transitoria della Costituzione aveva previsto un novero di senatori di diritto, solo per la prima legislatura repubblicana (il loro numero risultò di 107), a fianco dei senatori elettivi (per i quali il d.P.R. n. 30 del 6 febbraio 1948 disegnò 237 collegi uninominali).
Già nella seconda legislatura, pertanto, la composizione numerica del Senato si ridimensionò ai soli senatori elettivi (oltre ai senatori a vita e ai senatori di diritto a vita, cioè gli ex Presidenti della Repubblica); da qui l’avvio di un dibattito su come riequilibrarla rispetto all’altro ramo del Parlamento (che contò allora 590 deputati).
Nella successiva terza legislatura il disegno di legge costituzionale d’iniziativa governativa approvato (anche se con formulazione modificata rispetto all’originario Atto Senato [A.S. n. 250], che fu approvato in testo unificato con l’A.S. n. 285) precisava, nella relazione illustrativa, di mirare ad “un migliore equilibrio” nella composizione numerica delle due Camere, “in modo che il sistema bicamerale abbia maggiori garanzie di organico funzionamento”. Questa istanza teneva presente la posizione costituzionale del Parlamento in seduta comune, al fine di scongiurare la possibilità che “il Senato, considerato nella sua totalità, abbia nella votazione in comune con la Camera, una disponibilità di voti perfino inferiore a quella del numero dei membri della Camera appartenenti a un solo partito. Basterebbe cioè un solo partito della Camera a neutralizzare la volontà di tutta la rappresentanza senatoriale”.
4.4.1. Le motivazioni della riforma costituzionale. Limiti e contraddizioni. I rischi della riforma costituzionale.
4. Non sono convincenti, a giudizio di molti, e nostro, gli argomenti a sostegno della necessità del mutamento costituzionale, in particolare quelli che insistono sul contenimento dei costi e sulla maggiore efficienza. Essi vengono così esposti nelle relazioni illustrative dei disegni di legge e nei documenti ufficiali: da un lato, “favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini”; dall’altro, “ottenere concreti risultati in termini di spesa, e dunque ridurre il costo della politica”.
In altre parole: “aumentare l’efficienza e la produttività delle Camere e, al contempo, razionalizzare la spesa pubblica”.
Un argomento ulteriore è quello per cui l’Italia potrà finalmente “allinearsi agli altri Paesi europei, che hanno un numero di parlamentari eletti molto più limitato”, considerato che “l’Italia è il Paese con il numero più alto di parlamentari direttamente eletti dal popolo”.
Diversi sono i toni usati nella comunicazione di più facile consumo: “Tagliamo le poltrone!”, “Mandiamo a casa la casta !”, “Facciamo uscire 345 politici dalle aule di Palazzo Madama e Montecitorio e ci facciamo entrare 60 milioni di italiani”.
Quanto ai costi, si afferma che la riduzione dei parlamentari comporterà “il più grande taglio ai costi della politica di sempre”: “eliminare 345 poltrone” corrisponde a un risparmio pari a “1 miliardo di euro ogni due legislature”[4].
Con riguardo ai vantaggi in termini di efficienza legislativa si afferma che “le due Camere lavoreranno con maggiore agilità”[5]; che “avremo istituzioni parlamentari che […] saranno ipso facto più funzionali”[6], che la riduzione “potrà determinare un miglioramento del processo decisionale delle Camere, che potranno operare con più efficienza e, dunque, essere più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini”[7].
Non manca chi, con argomentazioni più meditate, afferma che “la riduzione del numero dei parlamentari, creando una maggiore verticalizzazione della rappresentanza politica”, sarà “in grado di aumentare capacità di incidenza, autonomia e prestigio di ciascuno di essi e conseguentemente accrescere funzionalità ed efficienza (ma anche prestigio) di ciascuna Camera nel suo complesso”, anche perché “meno parlamentari significa inevitabilmente meno atti, procedimenti, negoziazioni”[8].
Tuttavia non viene ben chiarito come la riduzione del numero dei parlamentari possa realmente tradursi in maggiore funzionalità ed efficienza, come possa portare i cittadini ad avere “un rapporto più diretto con i propri rappresentati in Parlamento”, come possa essere “un modo per avvicinare cittadini ed istituzioni”. Ugualmente nebuloso è come possa esserci al contempo, da un lato, “una minore dipendenza di deputati e senatori da interessi particolari” e, dall’altro, una più ampia capacità “di rispondere alle richieste reali che arrivano dalla comunità”[9].
4.1. Chi è contrario alla riforma costituzionale afferma che essa produrrebbe vari effetti negativi, riassumibili nei seguenti:
a) la riduzione del numero dei parlamentari comporterebbe una riduzione della rappresentatività, sia degli elettori, sia dei partiti, sia dei territori;
b) la riforma avrebbe un’incidenza negativa sul funzionamento delle Camere e sull’esercizio delle garanzie costituzionali. Non v’è dubbio che il più ridotto numero di parlamentari sarebbe difficilmente compatibile con le previsioni dei regolamenti parlamentari che disciplinano i Gruppi parlamentari e le Commissioni. Si porrebbe il problema del numero di deputati e senatori necessari per la costituzione di un Gruppo e del numero delle Commissioni, che, specie al Senato, sarebbe molto ridotto e renderebbe problematica la presenza dei Gruppi di minoranza in tutte le Commissioni. Occorrerebbe, quindi, una riforma degli attuali regolamenti, da avviare e concludere rapidamente subito dopo l’eventuale entrata in vigore della legge costituzionale;
c) le critiche più radicali alla riforma costituzionale insistono sulla verticalizzazione del sistema dei partiti, sul ridimensionamento del ruolo del Parlamento nel sistema e nella forma di governo, e sul rischio della trasformazione della stessa forma di Stato.
4.2. L’argomento che fa leva sulla elefantiasi del Parlamento italiano (al confronto con Assemblee elettive di altri Paesi).
Compariamo le assemblee parlamentari dei maggiori Paesi dell’Unione europea, che appartengono alla stessa “famiglia” di sistemi di governo e che, per quanto possibile, adottano sistemi elettorali analoghi (Germania, Francia), concentrando l’attenzione sulle Camere “basse”, che sono assemblee elettive a differenza delle Camera “alte”, la cui composizione e funzione sono disciplinate diversamente dai vari Stati. Ora, il dato comparato mostra come il rapporto fra numero dei parlamentari e popolazione in Italia si allinei a quello di altri Paesi europei ad un livello basso (la comparazione è limitata alla Camera bassa, dato che molti Stati hanno o un parlamento monocamerale o, in caso di bicameralismo, una Camera alta non eletta direttamente dai cittadini).
Ebbene, se la riforma venisse confermata, l’Italia passerebbe dall’essere il secondo Paese per numero di parlamentari, all’ultimo di questa bizzarra classifica (Germania: 709 deputati; Francia: 577; Italia: 400. Con l’avvertenza che in Germania il numero dei parlamentari è una variabile libera che si applica a partire da un numero minimo prefissato di parlamentari e che dipende dall’esito elettorale, potendo determinare seggi c.d. “soprannumerari”).
L’Italia ha oggi una percentuale di numero dei deputati (Camera bassa) ogni 100.000 abitanti pari a uno, dunque simile alla Francia (0.9), alla Germania (0.9) e identica al Regno Unito (uno). In caso di approvazione definitiva della riforma l’Italia si troverebbe ad avere una percentuale pari a 0.7, che sarebbe la percentuale più bassa fra gli Stati membri dell’Unione europea (seguita dalla Spagna, con 0.8).
Ad ogni modo, i dati vanno letti considerando anche il ruolo che essi “giocano” all’interno di variabili “istituzionali”, come la forma di governo e il sistema elettorale, così come di elementi di fatto, quali la popolazione totale o le dimensioni del territorio. Ciò è utile per contestare l’argomentazione della eccessiva numerosità dei parlamentari italiani.
4.3. L’argomento relativo al risparmio di costi ed alla maggiore efficienza.
Come si evince da dati ufficiali, il costo della nostra Camera dei Deputati è tra i più alti in Europa, secondo soltanto al Bundestag tedesco. A parte l’enfasi mediatica sulla riduzione dei costi della politica in termini di indennità, diarie e vitalizi, oltre che in termini di (ma solo ipotetica) riduzione dei costi del processo decisionale in sé considerato, il dibattito sui costi della democrazia non può prendere in considerazione il solo dato quantitativo ma deve valorizzare altri fattori, tra i quali soprattutto la qualità del lavoro svolto dai Parlamenti.
Come noto, il Parlamento italiano, con l’evoluzione dei regolamenti che hanno permesso lo sviluppo di funzioni nuove rispetto a quella legislativa (funzioni di indirizzo politico, di controllo, di garanzia costituzionale), si presenta come un organo fortemente “interventista” rispetto ad altre Assemblee europee. L’espletamento di queste funzioni spiega la presenza presso la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica di qualificati apparati di supporto tecnico e di documentazione (consiglieri parlamentari, archivisti), in posizione di imparzialità rispetto all’indirizzo politico. Si pensi poi alla funzione delle strutture incaricate del controllo sulla qualità degli atti normativi, che ha visto la creazione di appositi servizi per la redazione degli atti normativi.
Queste amministrazioni parlamentari sono costituite da personale reclutato attraverso pubblici concorsi, diversamente che in altri ordinamenti, dove i membri degli apparati parlamentari sono anche “staff members” dei politici. Alla luce di ciò il dibattito sui costi di funzionamento dovrebbe distinguere fra le risorse impiegate per la qualità dei servizi prestati e quelle da eventualmente ridurre o eliminare perché in ipotesi non essenziali per il “sostentamento della democrazia”[10].
Insomma, il taglio di un terzo dei parlamentari non si tradurrebbe automaticamente nel taglio di un terzo delle spese. Ad ogni modo, considerando che attualmente ogni parlamentare costa, al lordo delle tasse, circa 230/240.000 di euro annui, per un totale di 222 milioni di euro annui, il risparmio complessivo ammonterebbe a 82 milioni di euro annui per entrambe le Camere. Le stime per una intera legislatura vanno dai 300 milioni di euro (secondo l’Osservatorio Conti Pubblici Italiani) ai 500 milioni di euro (secondo il Movimento 5Stelle). Si tratta, al massimo, di 100 milioni l’anno. Al netto delle imposte e dei contributi, il risparmio reale si attesterebbe intorno ai 57 milioni di euro annui (285 milioni per i cinque anni di legislatura). In termini percentuali, questo rappresenterebbe lo 0,007% della spesa pubblica italiana: l’equivalente di poco più di un caffè per ogni italiano. Senz’altro troppo poco per giustificare una tale riforma costituzionale, che produrrà una serie di squilibri, come la distorsione del rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Che sarà compito della legge elettorale correggere.
È tuttavia comprensibile il punto di fondo: si pensi al Senato, che in base alla Costituzione dev’essere eletto su base regionale. È evidente che le Regioni più piccole avranno grandi difficoltà ad essere compiutamente rappresentate in Senato, sia con esponenti della maggioranza sia con esponenti delle minoranze. La riforma avrebbe un effetto molto selettivo, limitando sensibilmente la voce in Parlamento in Parlamento delle forze minori e distorcendo la rappresentanza a vantaggio dei territori più popolosi.
Come è stato già fatto notare da taluni nel dibattito (parlamentare e non), la presenza di collegi enormi potrebbe produrre l’effetto di aumentare i costi delle campagne elettorali e, comunque, avrebbe l’effetto di legare ancora di più i candidati ai partiti, non essendo immaginabile che si possa essere eletti senza il forte appoggio di una struttura di partito. Ad ogni modo, tagliare il numero dei parlamentari ha poco senso se non si rivede anche il funzionamento del Parlamento. Se le regole rimangono immutate, il prodotto non cambia automaticamente in meglio: anzi, c’è il rischio che peggiori la qualità, perché si chiederà a meno persone di fare più cose, con un prevedibile scadimento della qualità e dell’efficienza.
5. Effetti diretti e indiretti della riforma
5.1. Per ciascuno dei due rami del Parlamento, la riduzione prevista è pari al 36,5 per cento degli attuali componenti (elettivi). A seguito di tali modificazioni, il numero degli abitanti per deputato aumenterebbe (da 96.006) a 151.210. Il numero di abitanti per ciascun senatore aumenterebbbe (da 188.424) a 302.420 (assumendo il dato della popolazione quale reso da Eurostat), pertanto con una drastica riduzione della rappresentanza popolare e quindi con un divario accresciuto nel rapporto tra elettori ed eletti.
Come già detto, per il Senato l’art. 2 del testo della legge costituzionale in questione modifica l’art. 57 della Costituzione, determinando in 200 (anziché 315) il numero dei senatori elettivi. Entro tale numero, i senatori da eleggere nella circoscrizione Estero scendono da 6 a 4. Si tratta di una riduzione percentuale affine a quella numerica complessiva, affinché, si dice, non cambi in misura significativa l’incidenza numerica della rappresentanza della Circoscrizione Estero. Si teme però che a seguito dell’approvazione della riforma la riduzione di numero aumenti ulteriormente la già scarsa rappresentatività.
La legge oggetto del referendum confermativo riduce da sette a tre il numero minimo (previsto dall’art. 57, terzo comma, della Costituzione) di Senatori per Regione o Provincia autonoma, lasciando al contempo non modificata la previsione vigente del medesimo terzo comma relativa alle rappresentanze del Molise (2 senatori) e della Valle d’Aosta (1 senatore).
La predeterminazione di un numero minimo di senatori per Regione importa, come noto, una variazione rispetto alla ripartizione di seggi tra Regioni che si avrebbe qualora si seguisse, invece, un’assegnazione solo proporzionale alla popolazione, senza alcuna soglia numerica minima di rappresentanza senatoriale regionale.
5.2. La rideterminazione del numero di Deputati e Senatori si riflette su altri importanti profili.
Ne indichiamo alcuni.
In primo luogo, la riduzione si ripercuote sull’organizzazione interna delle Camere. Una considerazione a parte riguarda la ripartizione dei membri di un Gruppo parlamentare con un numero esiguo di componenti fra le Commissioni parlamentari permanenti. Se restasse invariato il numero delle Commissioni (quattordici), non tutti i gruppi (specie quelli piccoli, come ad es., quelli “in deroga” o autorizzati e le componenti politiche del Gruppo misto) riuscirebbero ad essere rappresentati nelle Commissioni. Ora, mentre il regolamento del Senato prevede (all’art. 21, comma 2), che uno stesso senatore possa essere assegnato a tre Commissioni permanenti, cosicché la riduzione dei numeri parlamentari non comprometterebbe, almeno in ipotesi, la presenza delle minoranze nelle Commissioni, invece, il Regolamento della Camera (art. 19, comma 3) non consente che i deputati possano essere designati per più di una Commissione; col rischio che le minoranze non potrebbero partecipare a tutte le Commissioni permanenti, espletando le loro funzioni di caratteri ispettivo e di controllo. Se al Senato restassero immutate nel numero le Commissioni permanenti, esse risulterebbero composte da circa 14 senatori ciascuna (e dentro di esse, una sede deliberante -valorizzata dalla riforma del 2017 del Regolamento del Senato- richiederebbe un quorum di deliberazione costituito da un numero davvero esiguo di membri).
Il più ridotto numero di parlamentari sarebbe dunque difficilmente compatibile con le previsioni dei regolamenti parlamentari che disciplinano i Gruppi parlamentari e le Commissioni. Infatti si porrebbe il problema del numero di deputati e senatori necessari per la costituzione di un Gruppo e del numero delle Commissioni, che, specie al Senato, sarebbe molto ridotto e renderebbe problematica la presenza in tutte dei Gruppi di minoranza. Occorrerebbe, quindi, una riforma degli attuali regolamenti che dovrebbe essere messa in cantiere e procedere in tempi rapidi subito dopo l’eventuale entrata in vigore della legge costituzionale.
In secondo luogo, la riforma riverbera effetti sulla dinamica di alcuni procedimenti. Come, ad esempio, quello della elezione del Presidente della Repubblica.
Riducendo i seggi di entrambe le Camere dovrà essere rivista anche la composizione del collegio dei “Grandi elettori” per l’elezione del Presidente della Repubblica. L’attuale art. 83 della Costituzione prevede un numero di votanti che risulta dalla somma dei 630 Deputati, dei 315 Senatori, dei senatori a vita e dei senatori di diritto a vita (cioè gli ex-Presidenti della Repubblica), cui si aggiungono i tre delegati eletti da ciascun Consiglio regionale ad eccezione della Valle d’Aosta che ne esprime solo uno. La riduzione del numero dei parlamentari comporterebbe una variazione nell’assemblea degli elettori: 600 parlamentari ai quali aggiungere i 58 rappresentanti delle Regioni (tre delegati per ciascuna Regione; uno solo per la Valle d’Aosta). Dunque, con la riduzione dei parlamentari aumenterebbe il peso dei rappresentanti regionali in sede di elezione del Presidente della Repubblica. I primi, infatti, diminuiscono (da circa 950 a 600). I secondi, invece, restano quelli di prima (cioè 58).
Non considerando i senatori a vita, le maggioranze richieste dall’art. 83 della Costituzione sarebbero così rideterminate: 439 voti necessari ai primi tre scrutini (due terzi dell’Assemblea); 330 voti dal quarto scrutinio (maggioranza assoluta), essendo il numero degli elettori pari a 658 (400+200+58).
In occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica svoltasi da ultima (29-30 gennaio 2015), le medesime maggioranze (considerando tuttavia la presenza di sei senatori a vita) erano pari a: 673 voti (maggioranza dei due terzi dell’Assemblea) e 505 voti (maggioranza assoluta), essendo il numero complessivo degli elettori pari a 1009 (630+321+58).
Con la composizione del nuovo collegio (658 grandi elettori) sia i delegati regionali sia i senatori a vita di nomina presidenziale che gli ex-Presidenti della Repubblica avrebbero un peso elettorale maggiore, creando inevitabili strascichi politici sulla necessità di considerare tali soggetti all’interno del collegio presidenziale, dal momento che i primi più che rappresentare i territori locali si adeguerebbero alle decisioni dei parlamentari colleghi di partito, mentre il peso politico dei secondi (soprattutto nei casi di questioni di fiducia) contribuirebbe ad alimentare le critiche nei confronti di un istituto (spesso malamente) osteggiato a causa della natura della sua legittimazione.
In terzo luogo, la riduzione del numero dei parlamentari si ripercuote sulla legislazione elettorale (L. n. 165/2017 e decreto legislativo n. 189/2017). La riforma costituzionale qui in esame non interviene su questa materia, che è rimessa alla legislazione ordinaria. Eppure, l’incidenza della riduzione del numero dei parlamentari sulla rappresentanza, sulla sovranità popolare, sul ruolo del Parlamento e quindi sulla vita democratica appare più evidente se si legge la riforma, oltre che nel contesto già richiamato, nel quadro di altre riforme in discussione, come in particolare quella concernente la legge elettorale.
Come noto, la legge elettorale, oltre a porsi come cinghia di trasmissione fra sistema politico e forma di governo[11], fra politica e istituzioni, connota la rappresentanza e, di conseguenza, la democrazia[12]. Le “leggi che stabiliscono il diritto di voto”, che disciplinano “come, da parte di chi, a chi e su che cosa devono essere dati i suffragi”[13], da sempre costituiscono un elemento fondamentale delle teorie sulla democrazia rappresentativa ed oggi sono un indicatore, ed un fattore, del carattere più o meno maggioritario o d’investitura della democrazia.
Senza approfondire in questa sede il discorso sulla legge elettorale, che insieme ad altre questioni potrà essere oggetto di prossimi contributi, è opportuno intanto osservare che sarebbe necessario riflettere sulla ridefinizione del perimetro dei collegi, uninominali e plurinominali (oltre che sulla definizione di elementi come quelli connessi alla tutela delle minoranze linguistiche -ad es. ai fini della soglia di sbarramento, ed altresì ai fini del rispetto delle prescrizioni della legge n. 422/1991[14]o connessi al numero di seggi che la cit. L. n. 165/2017[15] definisce direttamente nel testo).
La definizione territoriale dei collegi, per risultare coerente con il diminuito numero di parlamentari senza discostarsi dall’impianto del vigente sistema elettorale, richiederebbe la previsione di una nuova delega legislativa (o la ridefinizione dei collegi direttamente con legge) al fine di diminuire il numero attuale di collegi (uninominali in primo luogo), e in modo tale da dispiegare i suoi effetti al momento di applicazione della nuova disciplina costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari.
Riguardo al tema della determinazione dei collegi, si ricorda che nel 1963 si pose il problema -per il solo Senato- di commisurare un variato numero di seggi al numero di collegi. La scelta compiuta fu quella di non modificare il numero dei collegi, destinando il numero di seggi previsti in più, al meccanismo di riparto ‘sostanzialmente’ proporzionale (già allora vigente, per il caso non si raggiungesse nel collegio uninominale la soglia del 65 per cento dei voti validi).
Andrebbe comunque assicurata una chiara individuazione della legislazione elettorale applicabile in ogni momento, che ricomprenda anche l’ipotesi in cui le Camere dovessero essere sciolte subito dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale e prima dell’attuazione (e dell’entrata in vigore) dell’atto normativo chiamato all’eventuale rideterminazione dei confini dei nuovi collegi elettorali (considerato che la decorrenza per l’applicazione della modifica costituzionale è fissata al momento del primo scioglimento della legislatura in corso).
[1] M.VOLPI, La riduzione del numero dei parlamentari e il futuro della rappresentanza, in Costituzionalismo.it, n. 1/2020, p. 44.
[3] Configurazione a sé ebbe la composizione del Senato nella prima legislatura repubblicana, giacché la III disposizione transitoria della Costituzione previde, per essa soltanto, anche un insieme di senatori di diritto.
[4] R. FRACCARO, Riduzione parlamentari: con meno senatori e deputati, più risparmio e più efficienza, su ilblogdellestelle.it, 5 ottobre 2019.
[5][2]Ibidem
[6][3] R.CALDEROLI, Relatore, Discussione del disegno di legge costituzionale (214-515-805-B) Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei Parlamentari, Senato della Repubblica, 10 luglio 2019, p. 9.
[7] Audizione del Ministro FRACCARO, svoltasi il 12 Luglio 2018, presso le Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato riunite.
[8] 46 G. DI PLINIO, Un adeguamento della costituzione formale alla costituzione materiale. Il “taglio” del numero dei parlamentari, in dieci mosse, in Federalismi.it., 3 aprile 2019, pp. 5 ss. Sull’incremento di prestigio del Parlamento di pari passo con la riduzione di parlamentari, si v. R. BIN, Poche cose, poco utili (in margine al programma di riforme costituzionali nella XVIII legislatura), in Astrid Rassegna, n. 15/2018; G. CERRINA FERONI, Riduzione del numero dei parlamentari e applicabilità delle leggi elettorali (audizione presso la Commissione I Affari costituzionali), in Osservatorio costituzionale, 7 maggio 2019, p. 5; G.L. CONTI, Il futuro dell’archeologia, le proposte della Costituzione sul banco della XVIII Legislatura, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2018; S. PASSIGLI, La proposta di riforma costituzionale del governo Conte: luci ed ombre, in Astrid Rassegna, 14/2018. Per una ricostruzione critica del dibattito, si v. in particolare C. TRIPODINA, Riduzione del numero dei parlamentari, tra riforma costituzionale ed emergenza nazionale, in Osservatorio costituzionale, 14 aprile 2020, Fasc. 3/2020.
[9]Cfr. C. TRIPODINA, cit.
[10]F.FABIANO, La riduzione del numero dei parlamentari: un bene o un male per la rappresentatività? In Filodiritto, 3 Luglio 2020.
[11] Ex multis, cfr. L. ELIA (Il metodo delle riforme costituzionali: a proposito del messaggio del Presidente Cossiga, 1991, ora in Id., Costituzione, partiti, istituzioni, il Mulino, Bologna, 2009, p. 413).
[12] Sul legame fra sistema elettorale e modello di democrazia, si v. in particolare G. AZZARITI, La riforma elettorale, Seminario Aic, “I costituzionalisti e le riforme”, Università di Milano, 28 aprile 2014, in Rivista AIC, n. 2/2014, p. 12.
[13] La citazione è da C. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Rizzoli, Milano, 2007, Libro secondo, Delle leggi che derivano direttamente dalla natura del governo, cap. II (ed. cit., pp. 155-156), ma la relazione fra democrazia rappresentativa, principio di maggioranza e sistema elettorale, è presente in tutti gli scritti (classici e non) sul tema. Sul punto si v. A.ALGOSTINO, Contro la riduzione del numero dei parlamentari, in nome del pluralismo e del conflitto, in Questione Giustizia, 10/02/2020.
[14] LEGGE 30 dicembre 1991, n. 422,”Elezioni del Senato della Repubblica per l’attuazione della misura 111 a favore della popolazione alto-atesina”.
[15] LEGGE 3 novembre 2017, n. 165,” Modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali”. Come noto, la formula elettorale delineata dalla L. n. 165/2017 prevede che presso ciascuna Camera circa 1/3 dei seggi sia attribuito con formula maggioritaria nell’ambito di collegi uninominali e che circa 2/3 siano attribuiti con criterio proporzionale (declinato secondo il criterio del quoziente naturale e dei più alti resti) all’interno di collegi plurinominali determinati dall’aggregazione di collegi uninominali contigui . L’impronta connotante della formula è dunque proporzionale , mentre l’assegnazione maggioritaria dei seggi appare essere un correttivo o, meglio, un ulteriore corollario di una formula che è prevalentemente proporzionale. Il voto per il candidato uninominale, infatti, ha lo scopo di “personalizzare” il voto alla lista, cioè di individuare una personalità politica di riferimento del partito o della coalizione in ambito locale. In sostanza, la quota maggioritaria serve a consentire al partito di convogliare i voti verso il candidato di punta in ambito territoriale, che quindi viene a configurarsi quale (ulteriore) capo-lista rispetto alle candidature proporzionali ovvero, nel caso di liste collegate, quale candidato unico proposto dall’intera coalizione in ambito locale. Alla Camera vengono attribuiti nei collegi uninominali 232 seggi (dei quali 225 in 18 regioni, 1 in Val D’Aosta e 6 in Trentino Alto Adige), mentre gli altri 386 seggi sono attribuiti con criterio proporzionale. Al Senato, invece, vengono assegnati nei collegi uninominale 116 seggi (dei quali 109 in 18 regioni, 1 in Val d’Aosta e 6 in Trentino Alto Adige) e con criterio proporzionale i restanti 193. Si v. in proposito F.SGRÒ, Prime considerazioni sulla legge n. 165 del 2017: questioni nodali e specificità del nuovo sistema elettorale italiano, in Osservatorio costituzionale, Fasc. 3/2017, 6 dicembre 2017.