Principio di legalità e divieto di analogia in materia penale

Corte costituzionale. Sent. 98/2021

Corte costituzionale, Sentenza n. 98/2021.

Principio di legalità e divieto di analogia in materia penale: il giudice non può applicare la legge penale in situazioni non riconducibili al significato letterale delle espressioni usate dal legislatore.

Oggetto: Processo penale-Dibattimento-Riqualificazione giuridica del fatto-Art. 521 del codice di procedura penale-Facoltà dell’imputato, allorquando sia invitato dal giudice del dibattimento a instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del fatto, di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al fatto diversamente qualificato. Questione di legittimità costituzionale. Inammissibilità.

1.Il divieto di applicazione analogica della legge penale a sfavore del reo “costituisce un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo della legge”.  È quanto si legge nella sentenza n. 98, depositata il 14 maggio 2021, con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torre Annunziata. Il Tribunale aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521 del codice di procedura penale, “nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato, allorquando sia invitato dal giudice del dibattimento ad instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del fatto, di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diversamente qualificato dal giudice in esito al giudizio”, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.

2.Il Tribunale di Torre Annunziata stava celebrando un processo contro un imputato accusato dal pubblico ministero di atti persecutori (il cosiddetto stalking) per una serie di condotte abusive compiute nei confronti di una donna con cui intratteneva da qualche mese una relazione affettiva, e che frequentava abitualmente la sua casa familiare. Al termine del dibattimento, il giudice aveva prospettato alle parti la possibilità di una riqualificazione dei fatti contestati all’imputato nel più grave delitto di maltrattamenti in famiglia. Ciò sulla base di un orientamento della Corte di Cassazione che considera integrato questo reato in presenza di condotte maltrattanti compiute in un “contesto affettivo protetto”, caratterizzato da “legami forti e stabili tra i partner” e dalla “condivisione di progetti di vita”. A questo punto l’imputato aveva chiesto di essere ammesso al giudizio abbreviato, e di godere così del relativo sconto di un terzo della pena in caso di condanna. Il giudice, preso atto che il codice di procedura penale non consente di chiedere il rito abbreviato al termine del dibattimento, aveva tuttavia ritenuto che, in un caso come questo, una simile preclusione fosse incompatibile con i principi di eguaglianza e del giusto processo, e dello stesso diritto di difesa. Il mutamento prospettato della qualificazione giuridica del fatto comporta infatti, secondo il Tribunale, uno stravolgimento dei rischi sanzionatori che l’imputato aveva considerato con il proprio difensore, nel momento in cui aveva deciso di affrontare il dibattimento anziché chiedere di essere giudicato con rito abbreviato o di patteggiare la pena. Conseguentemente, il Tribunale ha sollevato questione di costituzionalità mirante, appunto, a consentire all’imputato, di fronte alla prospettazione di una possibile riqualificazione giuridica del fatto contestatogli, di optare per il rito abbreviato.

La Corte costituzionale non ha esaminato nel merito la questione, ritenendo che il Tribunale rimettente non avesse adeguatamente motivato sulla sussistenza, nel caso concreto, dei presupposti del mutamento della qualificazione giuridica del fatto contestato dal pubblico ministero. In proposito, la Corte ha anzitutto sottolineato che il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone, per quanto qui rileva, che le condotte abusive siano compiute nei confronti di una persona della stessa “famiglia”, oppure di una persona “convivente”; e che, invece, il reato di atti persecutori aggravati prevede che le condotte vengano compiute nei confronti di persona che sia o sia stata legata all’autore da una “relazione affettiva”.

Ha quindi rammentato il fondamentale canone interpretativo in materia penale, basato sull’art. 25, secondo comma, Cost. e rappresentato dal divieto di applicare la legge oltre i casi da essa espressamente stabiliti. Questo divieto, ha affermato la Corte, impedisce di riferire la norma a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei significati letterali delle espressioni utilizzate dal legislatore. Ciò a garanzia sia del principio della separazione dei poteri, che assegna al legislatore -e non al giudice- l’individuazione dei confini delle figure di reato; sia della prevedibilità per il cittadino dell’applicazione della legge penale, che sarebbe frustrata laddove al giudice fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello desumibile dalla sua immediata lettura.

La Corte ha evidenziato che il giudice del procedimento principale non aveva spiegato le ragioni per le quali aveva ritenuto che, a fronte di una relazione affettiva durata qualche mese e caratterizzata da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro, la vittima potesse essere considerata, alla stregua del linguaggio comune, come persona già appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato, ovvero con lui “convivente”. In assenza di questa dimostrazione, ha concluso la Corte, l’applicazione del reato di maltrattamenti in famiglia anziché di quello di atti persecutori costituirebbe il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma penale, come tale vietata dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione.

3.Dal testo della sentenza n. 98/2021

“[…] Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Torre Annunziata, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato, allorquando sia invitato dal giudice del dibattimento ad instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del fatto, di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diversamente qualificato dal giudice in esito al giudizio», in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.

2.– Le questioni sono inammissibili, per non essersi l’ordinanza di rimessione adeguatamente confrontata con gli argomenti contrari alla riqualificazione giuridica del fatto contestato nel giudizio a quo, riqualificazione dalla quale dipende la rilevanza delle questioni prospettate.

2.1.– L’imputato è chiamato a rispondere del delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, primo e secondo comma, del codice penale. In esito al dibattimento, il rimettente ritiene di dover riqualificare i fatti contestati – immutati nella loro materialità – nella diversa e più grave fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 cod. pen. Avendo prospettato alla difesa dell’imputato tale possibile riqualificazione, e avendo il difensore chiesto – a fronte di tale modifica in iure – di essere ammesso al rito abbreviato, il rimettente solleva le questioni di legittimità costituzionale sopra indicate, aventi ad oggetto la disposizione del codice di procedura penale – l’art. 521, comma 1 – che consente al giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, nella parte in cui non prevede la possibilità per l’imputato di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al fatto così come diversamente qualificato.

La riqualificazione – da atti persecutori aggravati a maltrattamenti in famiglia – dei fatti contestati all’imputato costituisce dunque il presupposto logico che condiziona l’applicazione nel giudizio a quo della disposizione, della cui legittimità costituzionale il giudice dubita.

2.2.– Tale riqualificazione riposa sul rilievo, svolto con ricchezza di argomenti dall’ordinanza di rimessione, che le condotte – moleste, minacciose, ingiuriose e violente – contestate all’imputato siano state commesse nel quadro di una relazione affettiva stabile tra l’imputato e la persona offesa, pur nella riconosciuta assenza di convivenza.

Secondo quanto riferisce il rimettente, dall’istruttoria dibattimentale è emersa l’esistenza di un rapporto affettivo tra i due, dipanatosi in un arco temporale di circa quattro mesi, nel corso del quale – in particolare – la donna era solita frequentare la casa ove l’uomo viveva con la madre e la sorella, e nella quale lei stessa talvolta si tratteneva.

Il pubblico ministero aveva qualificato le condotte contestate all’imputato come atti persecutori ai sensi dell’art. 612-bis cod. pen., con l’aggravante prevista dal secondo comma di tale disposizione, che prevede l’aumento della pena quando il fatto sia commesso, tra l’altro, «da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa».

Ritiene invece il rimettente che la stabilità della relazione affettiva, desunta in particolare dall’assidua frequentazione da parte della persona offesa della famiglia dell’imputato, imponga di riqualificare le condotte come maltrattamenti in famiglia ai sensi dell’art. 572, primo comma, cod. pen.: disposizione, quest’ultima, applicabile a chiunque «maltratta», per la parte che qui rileva, «una persona della famiglia o comunque convivente». Ciò in quanto il sintagma «una persona […] comunque convivente» andrebbe letto come riferito a un «contesto affettivo protetto», caratterizzato da «legami affettivi forti e stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire». In tale ipotesi, dunque, il più grave delitto di maltrattamenti in famiglia assorbirebbe l’ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che verrebbe dunque ad abbracciare le sole ipotesi di relazioni affettive non caratterizzate (o non più caratterizzate) da una «attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima».

Questa lettura troverebbe conforto, osserva il rimettente, in varie pronunce della Corte di cassazione, che hanno ricondotto allo spettro applicativo dell’art. 572 cod. pen. fatti commessi nell’ambito di relazioni caratterizzate dalla «condivisione di progetti di vita», e hanno affermato il principio secondo cui l’art. 572 cod. pen. «è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale». Pertanto, il delitto sarebbe configurabile «anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7 febbraio-9 maggio 2019, n. 19922, nonché – nello stesso senso – sezione sesta penale, sentenza 18 marzo-15 luglio 2014, n. 31121 e, pur escludendo nel caso di specie il reato de quo, sezione sesta penale, sentenza 7 maggio-27 maggio 2013, n. 22915. Si vedano altresì, in epoca successiva all’ordinanza di rimessione, sezione sesta penale, sentenza 21 ottobre-1° dicembre 2020, n. 34086, concernente una coppia che, pur non convivendo, pagava congiuntamente un appartamento utilizzato come base per incontri clandestini; sezione sesta penale, sentenza 6 novembre 2019-11 febbraio 2020, n. 5457, relativa a una coppia non convivente, la cui relazione durava da appena due mesi).

2.3.– Tuttavia, tale orientamento risale, come correttamente osserva il rimettente, ad epoca antecedente alla introduzione dell’art. 612-bis cod. pen., e si è formato in larga misura con riferimento a ipotesi concrete caratterizzate dal venir meno di una preesistente convivenza (la sentenza n. 19922 del 2019 sopra citata concerneva, ad esempio, una coppia che aveva convissuto per circa dieci anni; e parimenti concernono ex conviventi Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 3 novembre-22 dicembre 2020, n. 37077; sezione terza penale, sentenza 12 giugno-28 ottobre 2019, n. 43701; sezione sesta penale, sentenza 13 dicembre 2017-24 gennaio 2018, n. 3356), specie quando dalla convivenza siano nati anche dei figli (ex aliis Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 6 ottobre 2020-4 febbraio 2021, n. 4424; sezione sesta penale, sentenza 28 settembre-20 novembre 2017, n. 52723; sezione sesta penale, sentenza 20 aprile-22 maggio 2017, n. 25498).

Non a caso, una recente sentenza della Corte di cassazione –invero successiva all’ordinanza di rimessione– ha escluso il delitto di maltrattamenti in famiglia in un’ipotesi assai simile a quella oggetto del processo a quo, caratterizzata da una relazione «instaurata da non molto tempo» e da una “coabitazione” consistita soltanto «nella permanenza anche per due o tre giorni consecutivi nella casa dell’uomo, ove la donna si recava, talvolta anche con la propria figlia» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 23 novembre 2020-25 gennaio 2021, n. 2911).

2.4.– La giurisprudenza di legittimità, considerata alla luce dei casi di volta di volta esaminati, fornisce dunque indicazioni assai meno univoche di quanto appaia dall’ordinanza di rimessione circa la possibilità di sussumere entro la figura legale descritta dall’art. 572 cod. pen., e non in quella di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., condotte abusive poste in essere nel contesto di una relazione affettiva con le caratteristiche illustrate nell’ordinanza di rimessione, ove si dà atto in particolare dell’assenza di convivenza (presente o passata) tra i due protagonisti della vicenda.

Ma, soprattutto, nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio il rimettente omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998).

Il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore. Ciò vale non solo per il nostro, ma anche per altri ordinamenti ispirati alla medesima prospettiva, come dimostra la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, secondo cui in materia penale «il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione da parte del giudice» (BVerfGE 73, 206, (235); in senso conforme, più recentemente, BVerfGE 130, 1 (43); 126, 170 (197); 105, 135 (157); 92, 1 (12)).

Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale (su quest’ultimo profilo, si vedano in particolare le sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, nonché, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo, n. 121 del 2018): corollari posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché –evidentemente– tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988).

È evidente infatti che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale, che assegna alla sola legge e agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione – destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul diritto «inviolabile» (art. 13 Cost.) alla libertà personale dei destinatari della norma penale – spetti soltanto ai rappresentanti eletti a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 230 del 2012, n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge.

Per altro verso, il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce l’ovvio pendant dell’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981). Tale imperativo mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004). Tanto che proprio rispetto al mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice questa Corte ha recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018). La garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe, in effetti, anch’essa svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura.

E dunque, il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato; requisiti che circoscrivono – per quanto qui rileva – l’ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 cod. pen.

Il divieto di analogia in malam partem impone, più in particolare, di chiarire se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa tra imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare quest’ultima come persona (già) appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di “convivenza”.

In difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 cod. pen. in casi siffatti –in luogo dell’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente– apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost.

2.5.– Il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in malam partem in relazione al caso di specie comporta dunque una lacuna motivazionale sulla rilevanza delle questioni prospettate, che ne determina l’inammissibilità (da ultimo, sentenza n. 57 del 2021).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torre Annunziata, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2021. […]”.

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