Studio legale G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)
Corte di cassazione, sezione lavoro, Ordinanza 12 dicembre 2024, n. 32139.
Il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro. Il datore di lavoro, infatti, ha il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione, bensì l’onere di attivarsi sorge solo allorquando l’illecito viene percepito in termini circostanziati, sì da consentire l’avvio del procedimento.
Lavoro. Licenziamento per giusta causa. Grave violazione del vincolo di fiducia. Tempestività della contestazione. Whistleblowing.
“[…] La Corte di Cassazione,
(omissis)
Rilevato che
1. Con sentenza n. 709/2022 il tribunale di Taranto – sezione lavoro revocava, a seguito di opposizione di TM.P. (…) srl, l’ordinanza resa in data 28/1/2019 con la quale, all’esito della fase sommaria era stato accolto dal tribunale il ricorso proposto da M.R.F. avverso licenziamento intimatogli per giusta causa con nota del 27/3/2017 in cui venivano contestati al F. addebiti relativi a “grave violazione del vincolo di fiducia per aver ricevuto un hard disk di provenienza delittuosa di pertinenza del pc aziendale della postazione di un suo superiore gerarchico; aver esaminato la corrispondenza personale del superiore gerarchico; aver rivelato il contenuto alla datrice di lavoro mediante mail inoltrata all’amministratore delegato”, per i quali era stato attivato un procedimento penale nei confronti del ricorrente..”; con la medesima nota gli era stata contestata la recidiva “relativa alla precedente sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione di tre giorni irrogatale in data 06 luglio 2016 per aver utilizzato un linguaggio offensivo contenuto in un messaggio mail che lei ha inviato in data 11 maggio 2016 al rag. N.”.
Il Tribunale affermava la tempestività della contestazione disciplinare e dell’irrogazione della sanzione in quanto, sebbene solamente il 13/3/2017 il datore di lavoro avesse attivato il procedimento disciplinare, la conoscenza diretta del contenuto delle indagini risaliva al febbraio 2017; comunque, il F. non aveva dedotto concreto pregiudizio dei suoi diritti di garanzia; la contestazione disciplinare non era generica, essendo stata formulata per relationem, richiamando le accuse del procedimento penale; non risultava dimostrato un eventuale intento ritorsivo in capo al datore di lavoro; la sussistenza del fatto disciplinarmente rilevante (avere appreso informazioni riservate relative al proprio superiore gerarchico ed averle rivelate all’amministratore delegato) era risultata provata, restando irrilevante la sentenza penale di assoluzione, fondata sull’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o la sua attribuibilità; il F. aveva acquisito conoscenza non autorizzata di informazioni afferenti alla vita privata di altro soggetto, irrilevanti per la realtà aziendale, successivamente divulgandole; trattavasi di insubordinazione nei confronti di superiori, fattispecie ricorrente in qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione delle disposizioni impartite dai superiori; l’art. 9 co. 1 lett. c) sez. IV titolo VII CCNL Imprese Metalmeccaniche prevedeva la sanzione conservativa per il caso di lieve insubordinazione, mentre quella grave comportava la sanzione del licenziamento per giusta causa (art. 10 lett. B co. 2 lett. A); l’infrazione appariva grave per le circostanze.
2. La Corte di appello di Lecce – sez. distaccata di Taranto con sentenza n. 414/2022 pubblicata il 15.6.2022 ha rigettato il reclamo proposto dal F., ritenendo, quanto al motivo di reclamo attinente la tardività della contestazione – per essere la mail menzionata nella contestazione disciplinare stata inviata il 22/9/2015, mentre la contestazione disciplinare era stata formulata il 13/3/2017 – che “a prescindere dal rilievo che non consta (né il ricorrente offre indicazioni sul punto) che l’eventuale tardività abbia potuto pregiudicare in concreto i diritti di garanzia, sta di fatto che, essendo i fatti in contestazione oggetto di procedimento penale in corso, necessariamente solo al compimento delle indagini, nel febbraio 2017, l’azienda aveva potuto avere completa conoscenza dei fatti rilevanti, con la conseguenza che la contestazione del 13 marzo 2017 appare tempestiva”.
Quanto al motivo di appello relativo all’avere il Tribunale violato l’art. 7 della l. n. 300 del 1970 nonché l’art. 112 c.p.c., in quanto l’insubordinazione non avrebbe formato oggetto della contestazione disciplinare, la Corte d’appello lo rigettava sulla base del rilievo che “l’immutabilità e specificità della contestazione vanno correlate alla descrizione dei fatti addebitati, mentre la rispettiva qualificazione (nella specie, insubordinazione) rientra tra i poteri del giudice e non comporta alterazione dell’oggetto della contestazione, poiché opera sul piano meramente valutativo”.
Nel merito condivideva la qualificazione della condotta in termini di insubordinazione – nozione non limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprendente qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale – posto che “l’avere il lavoratore attinto informazioni riservate dall’interno di un hard disk aziendale, afferenti alla vita privata di un superiore gerarchico ed estranee agli interessi aziendali, ed averle divulgate verso un comune superiore gerarchico (amministratore delegato) con una mail a carattere denigratorio (…) denotano la messa in discussione di un’importante figura aziendale, con grave compromissione della sua autorevolezza ed autorità nella compagine.
Quanto alla sussistenza della giusta causa e della proporzionalità della sanzione espulsiva la Corte leccese sottolineava come, “anche a prescindere dalla specifica rilevanza disciplinare consacrata nell’art. 10 lett. B) CCNL del settore (licenziamento senza preavviso del lavoratore che provochi all’azienda grave nocumento morale, come nel caso di grave insubordinazione ai superiori), sta di fatto che la condotta ha compromesso la fiducia che deve presiedere il rapporto tra datore e lavoratore, per tutte le circostanze che l’hanno preceduta (pregressi episodi analoghi) ed accompagnata (complessità delle operazioni di prelievo delle informazioni, intensità della determinazione volitiva, protrazione nel tempo), per il turbamento naturalmente arrecato alla compagine aziendale”.
Infine, negava rilevanza alla circostanza dell’assenza di riscontri probatori sull’impossessamento dell’hard disk contenente le informazioni riservate, “rilevando essenzialmente la indebita e diffamatoria divulgazione di queste dopo la relativa acquisizione, come precisamente riportato della nota di contestazione”.
3. Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione il F. affidato a quattro motivi.
4. TM.I.B. – (…) – s.p.a., già TM.P. s.p.a.- replica con controricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso il F. deduce “ex art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 111 cost. violazione dell’art. 132 comma 2 n. 4 c.p.c.
Nullità della sentenza.
Motivazione inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione per essere la stessa afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” in relazione alla ritenuta tempestività della contestazione disciplinare.
Evidenzia che dalla semplice lettura del testo della sentenza impugnata “risulta palese l’inconciliabilità tra l’affermazione secondo la quale i fatti posti a base del procedimento disciplinare conclusosi con il licenziamento del ricorrente potevano essere conosciuti solo al compimento delle indagini penali concluse nel febbraio 2017 e l’altra affermazione per la quale i fatti disciplinarmente rilevanti erano da individuare nella circostanza che il F. aveva divulgato fatti riguardanti il superiore gerarchico con una mail a carattere denigratorio, mail questa che era stata inviata al comune superiore in data 22/9/2015”.
Lamentava, altresì, l’illogicità di tale affermazione anche alla luce del rilievo che “il destinatario della mail con la quale si sarebbe consumata l’insubordinazione risulta essere la stessa persona fisica che ha iniziato il procedimento disciplinare e che ha inflitto la sanzione espulsiva: l’amministratore delegato della società resistente Ing. S.R.” essendo insostenibile che “il medesimo soggetto persona fisica abbia potuto valutare la valenza disciplinare di un fatto che già conosceva da due anni solo dopo la conclusione delle indagini penali”.
2. Con il secondo motivo di ricorso il F. lamenta, ex art. 360 n. 3 c.p.c. “violazione e falsa applicazione dell’art. 7 legge 300 del 20 maggio 1970 in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.” e censura la sentenza gravata nella parte in cui ha affermato che la tardività della contestazione disciplinare risulta irrilevante non avendo il F. né allegato né provato che tale tardività abbia pregiudicato in concreto i diritti di garanzia del lavoratore.
Deduce che la contestazione disciplinare di un fatto di cui il datore era venuto a conoscenza due anni prima realizzava una violazione dei precetti di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. cui conseguiva una preclusione all’esercizio del potere disciplinare.
3. Con il terzo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata, ex art. 360 n. 3 in relazione all’art. 2104 c.c. nella parte in cui afferma che la mail inviata dal ricorrente all’amministratore delegato della società datrice di lavoro riveste carattere denigratorio e, mettendo in discussione un’importante figura aziendale, deve essere valutata come un’ipotesi di insubordinazione, posto che, al contrario di quanto affermato, il comportamento del lavoratore che comunica ad un superiore gerarchico alcuni fatti posti in essere da un collega di lavoro che possono ledere l’immagine pubblica del datore rientra nel dovere di diligenza richiesta dall’interesse dell’impresa e che, di conseguenza, il medesimo comportamento non può essere certamente considerato illecito disciplinare.
4. Con il quarto motivo si lamenta, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c.
L’accoglimento del gravame avrebbe dovuto portare il Giudice d’Appello, in forza dell’art. 91 c.p.c. alla condanna della società resistente al pagamento delle spese di giudizio comprese quelle della fase di appello.
5. Il primo motivo di ricorso è infondato.
5.1. Secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, in materia di licenziamento disciplinare, la tempestività della contestazione è declinata in senso relativo, a motivo delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa.
Ai fini della valutazione della tempestività rileva, inoltre, l’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non l’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi (Cass. n. 23739 del 2008; Cass. n. 21546 del 2007), e va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione (da ultimo Cass. n. 7467 del 2023), bensì l’onere di attivarsi sorge solo allorquando l’illecito viene percepito in termini circostanziati, sì da consentire l’avvio del procedimento (Cass. n. 28974 del 2017; Cass. n. 10069 del 2016; Cass. n. 21546 del 2007).
La valutazione delle suddette circostanze, costituendo una indagine di fatto, è riservata al giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (Cass. n. 14726 del 27/05/2024, Rv. 671309-01; Cass. n. 281 del 12/01/2016; Cass. n. 16841 del 26/06/2018; Cass. n. 2516 del 20/09/2019; Cass. n. 32542 dell’8/11/2021).
5.2. Al riguardo va precisato che la nullità della sentenza prevista dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. Sez. L., n. 3819 del 14/02/2020, Rv. 656925 – 02).
Devesi invero ribadire che, intanto un vizio di motivazione omessa o apparente è configurabile, in quanto, per ragioni redazionali o sintattiche o lessicali (e cioè per ragioni grafiche o legate alla obiettiva incomprensibilità o irriducibile reciproca contraddittorietà delle affermazioni delle quali la motivazione si componga), risulti di fatto mancante e non possa dirsi assolto il dovere del giudice di palesare le ragioni della propria decisione.
Non può invece un siffatto vizio predicarsi quando, a fronte di una motivazione in sé perfettamente comprensibile, se ne intenda diversamente evidenziare un mero disallineamento dalle acquisizioni processuali (di tipo quantitativo o logico: vale a dire l’insufficienza o contraddittorietà della motivazione).
In questo secondo caso, infatti, il sindacato che si richiede alla Cassazione non riguarda la verifica della motivazione in sé, quale fatto processuale riguardato nella sua valenza estrinseca di espressione linguistica (significante) idonea a veicolare un contenuto (significato) e frutto dell’adempimento del dovere di motivare (sindacato certamente consentito alla Corte di Cassazione quale giudice anche della legittimità dello svolgimento del processo: cfr. Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077), ma investe proprio il suo contenuto (che si presuppone, dunque, ben compreso) in relazione alla correttezza o adeguatezza della ricognizione della quaestio facti.
5.3. Nella specie non è riscontrabile alcuno dei suddetti vizi.
La Corte d’appello, infatti, nel motivare in ordine alla tempestività della contestazione – che era “formulata per relationem richiamando le accuse del processo penale” (così la sentenza impugnata a pag. 3) – ha evidenziato che “essendo i fatti in contestazione oggetto del procedimento penale in corso, necessariamente solo al compimento delle indagini, nel febbraio 2017, l’azienda aveva potuto avere completa conoscenza dei fatti rilevanti”.
In altri termini ha ritenuto, con motivazione che seppur stringata risulta pianamente comprensibile, che, essendo la contestazione degli addebiti disciplinari modulata sulla base di quanto emerso in sede di indagini penali, “necessariamente” solo all’esito di queste era possibile effettuare la contestazione.
Neppure è possibile riscontrare il lamentato vizio di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili nella parte in cui, dopo aver dato rilievo alla necessità di attendere gli esiti delle indagini, ha affermato l’irrilevanza della “assenza di riscontri probatori sull’impossessamento dell’hard disk contenente le informazioni riservate, all’uopo rilevando essenzialmente la indebita e diffamatoria divulgazione di queste dopo la relativa acquisizione, come precisamente riportato della nota di contestazione”.
Tale valutazione, infatti, attiene al merito dell’incolpazione disciplinare ed in ogni caso non si presenta come inconciliabile con quella svolta in termini di tempestività della contestazione e relativa alla necessità di attendere l’esito delle indagini, attenendo a quanto successivamente accertato nel processo penale.
6. Il secondo motivo è inammissibile.
In via generale, si rileva che il motivo con cui si denunzia il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assertivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare essa il fondamento della lamentata violazione.
Sotto questo profilo, le censure nelle quali si articola il motivo in esame, non sono ammissibili, in quanto la deduzione degli “errori di diritto”, in esse individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle norme asseritamente violate, non è corredata da una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia.
Il controllo affidato a questa Corte non equivale, infatti, alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 25332/2014 e n. 20012/2014).
6.1. Va, poi, evidenziato che la valutazione di tempestività della contestazione disciplinare esclude in radice una violazione degli obblighi di buona fede, posto che essa altro non è che la codificazione della correttezza della condotta datoriale.
Né, tanto meno, è di per sé sanzionabile – come, invece, sembra sostenere parte ricorrente – un eventuale ritardo nell’acquisizione di elementi che conducano ad accertare la responsabilità disciplinare.
Il datore di lavoro, infatti, ha il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione (da ultimo Cass. n. 7467 del 2023), bensì l’onere di attivarsi sorge solo allorquando l’illecito viene percepito in termini circostanziati, sì da consentire l’avvio del procedimento (Cass. n. 28974 del 2017; Cass. n. 10069 del 2016; Cass. n. 21546 del 2007).
Come poi evidenziato da questa Corte (Cass. n. 3904 del 2020) e recentemente ribadito (Cass. n. 109 del 03/01/2024, Rv. 669691-01), il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro (cfr. Cass. n. 10688 del 2017; Cass. n. 1101 del 2007; Cass. n. 241 del 2006; Cass. n. 5308 del 2000).
6.2. Ciò posto, la sentenza impugnata sul punto è coerente con i princìpi richiamati e le doglianze di parte ricorrente, lungi dall’evidenziare l’error in iudicando in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, come l’evocazione formale del vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 c.p.c. imporrebbe, in sostanza propongono una diversa valutazione dei fatti, inibita a questo giudice di legittimità, peraltro senza neanche adeguatamente contrastare l’assunto espresso dalla Corte territoriale secondo cui non è emerso, né è stato allegato dal lavoratore, che l’eccepito ritardo “abbia pregiudicato i diritti di garanzia”.
7. Il terzo motivo riguarda la sussunzione del fatto contestato ed accertato nella fattispecie del licenziamento per giusta causa dovuto a grave insubordinazione.
Al riguardo va evidenziato che la nozione di insubordinazione, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (cfr. già Cass. 2.7.1987 n. 3251 e, più di recente, Cass. n. 13411 del 01/07/2020, Rv. 658443 – 01; Cass. n. 7795 del 27/03/2017, Rv. 643580 – 01).
7.1. La Corte territoriale ha accertato, nel caso in esame, conformemente al giudice di primo grado, che “l’avere il lavoratore attinto informazioni riservate dall’interno di un hard disk aziendale, afferenti alla vita privata di un superiore gerarchico ed estranee agli interessi aziendali, ed averle divulgate verso un comune superiore gerarchico (amministratore delegato) con una mail a carattere denigratorio (..) denotano la messa in discussione di un’importante figura aziendale, con grave compromissione della sua autorevolezza ed autorità nella compagine.
Le informazioni fraudolentemente acquisite non erano strettamente afferenti ai rapporti interni né integravano illeciti penalmente rilevanti e la loro divulgazione è stata effettuata a fini esclusivamente diffamatori e futili, allo scopo di pregiudicare la figura del superiore gerarchico”.
La condotta addebitata, come accertata dai giudici di merito, configura di certo una condotta idonea a realizzare una violazione del disposto dell’art. 2104, comma 2, c.c. perché concretizza, specialmente se accompagnata da modalità comportamentali dirette a porre in discussione pubblicamente la figura del superiore gerarchico, un atto di insubordinazione suscettibile di legittimare il licenziamento del lavoratore.
Né può ritenersi, come erroneamente ritiene il ricorrente, che la condotta come sopra enucleata rientrasse nell’obbligo di diligenza del lavoratore, il quale sarebbe legittimato, nell’interesse dell’impresa, a diffondere “comportamenti asseritamente lesivi dell’immagine del datore che i colleghi del lavoratore dovessero porre in essere”.
Va, infatti, evidenziato che, come chiarito da questa Corte in relazione alla tutela del dipendente pubblico ex art. 54-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 ratione temporis applicabile (c.d. “whistleblowing”), (cfr Cass. n. 17715 del 27/06/2024, Rv. 671596 – 01; Cass. n. 9148 del 31/03/2023, Rv. 667173 – 01) la normativa citata si limita a scongiurare conseguenze sfavorevoli, limitatamente al rapporto di impiego, per il segnalante che acquisisca, nel contesto lavorativo, notizia di un’attività illecita, mentre non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti posti dalla legge (cfr. Cass. Pen., sez. V, 21 maggio 2018, n. 35792), né può riconoscersi efficacia scriminante alle segnalazioni effettuate per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti dei superiori.
7.2. Inoltre, i giudici di seconde cure, oltre ad accertare la proporzionalità tra i fatti come accertati e la massima sanzione inflitta, sottolineando come la grave insubordinazione era sanzionata anche dall’art. 10 del CCNL inter partes con la massima sanzione espulsiva, hanno valutato la gravità del fatto in relazione a tutti gli elementi del caso concreto (portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze nelle quali sono state commesse e intensità dell’elemento intenzionale), rilevando che “la condotta ha compromesso la fiducia che deve presiedere il rapporto tra datore e lavoratore, per tutte le circostanze che l’hanno preceduta (pregressi episodi analoghi) ed accompagnata (complessità delle operazioni di prelievo delle informazioni, intensità della determinazione volitiva, protrazione nel tempo), per il turbamento naturalmente arrecato alla compagine aziendale”.
8. Il quarto motivo, attinente alle spese del grado d’appello, è infondato avendo la Corte territoriale, del tutto correttamente posto le spese a carico dell’odierno ricorrente quale parte soccombente, in applicazione dell’art. 91 c.p.c.
9. Il ricorso va, dunque, rigettato.
10. Il ricorrente va condannato alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente liquidate come da dispositivo.
11. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13. (ndr del comma 1-bis dello stesso art. 13)
P.Q.M.
Rigetta il ricorso […]”..
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