(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)
Corte di cassazione. Sentenza 11 aprile 2024, n. 9801.
Infermiere professionale. Assenza ingiustificata dal lavoro. Licenziamento. Svolgimento senza autorizzazione di attività extraistituzionali presso una cooperativa esterna. Obbligo di esclusività e divieto di cumulo di impieghi. Rigetto
La Corte di Cassazione evidenzia che l’accettazione di cariche sociali in una società cooperativa, nella specie Presidente del Consiglio di Amministrazione di una “società cooperativa sociale”, non incorre nella incompatibilità assoluta di cui all’art. 60 del d.P.R. n. 3/1957, in ragione della deroga prevista dall’art. 61 del medesimo d.P.R. Ciò tuttavia non esclude che il lavoratore debba chiedere al datore di lavoro l’autorizzazione allo svolgimento dell’incarico extraistituzionale
“[…] La Corte di cassazione
(omissis)
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Ancona, con la sentenza n. 123/2023, ha rigettato l’appello proposto da M.P. nei confronti della (…) Azienda Sanitaria territoriale (già A. Marche) avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Macerata.
Il lavoratore, infermiere professionale presso la A. Marche, aveva impugnato il licenziamento intimatogli dall’Azienda il 16 giugno 2018, per essere rimasto ingiustificatamente assente dal lavoro il 14 febbraio 2018, per aver accumulato un debito orario di 31,04 ore, e per aver svolto, senza prima chiederne autorizzazione, attività extraistituzionali presso una cooperativa esterna (di cui era stato presidente del C.d.A.).
2. La Corte d’Appello ha ritenuto tempestiva la contestazione disciplinare intervenuta con nota prot. 31447 del 21 marzo 2018, in relazione alla conoscenza dei fatti ritenuti di rilevanza disciplinare, e che non vi era stato mutamento della contestazione.
Nella specie il procedimento disciplinare era iniziato a seguito della segnalazione assunta a protocollo n. 1077080 del 23 febbraio 2018, con cui l’U.P.D. era stato reso edotto dal direttore dell’U.O.C. di appartenenza dell’assenza dal servizio il giorno 14 febbraio 2018 e della sussistenza del debito orario relativo al mese di dicembre 2017, nonché della nota prot. 1082932 del 7 marzo 2018, con cui il servizio ispettivo Area Vasta n. 3 aveva comunicato all’U.P.D. il risconto di accertamenti effettuati con riguardo allo svolgimento di attività extraistituzionali presso la Coop K..
Solo in tale momento, l’U.P.D. aveva avuto piena contezza dell’infrazione disciplinare.
Le circostanze invocate dal lavoratore sulla conoscenza di fatto delle attività extraistituzionale da parte del Direttore generale non potevano ritenersi equivalenti alla conoscenza della sussistenza dell’illecito disciplinare, mentre non poteva rilevare il dato dei controlli giornalieri che erano rimessi al Coordinatore dell’U.O.C., atteso che lo stesso era stato sottoposto a procedimento disciplinare per la mancata comunicazione delle anomalie riscontrate rispetto agli orari di lavoro del ricorrente.
Non vi era stata la violazione del principio di immutabilità della contestazione, atteso che gli elementi del fatto contestati erano rimasti immutati nella loro essenzialità. Anche se nella lettera di contestazione non si faceva formalmente menzione della recidiva, nella sostanza si faceva espresso riferimento al perdurare del comportamento negligente già contestato e sanzionato con provvedimento del 7 marzo 2018. Dunque, il datore di lavoro aveva tenuto conto, quali circostanze confermative della significatività degli addebiti contestati, anche dei precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento, non ostando a ciò l’art. 7 della legge n. 300 del 1970.
Inoltre, l’art. 55-bis, comma 9, esclude che le violazioni di carattere formale -procedurale determino ipso iure la decadenza dall’azione disciplinare e l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata.
Sulla rilevanza disciplinare delle condotte contestate la Corte d’Appello ha affermato quanto segue.
Non era contestato che dal 4 dicembre 2013 al 22 maggio 2017 il lavoratore era stato presidente della Cooperativa K., che svolgeva attività infermieristica presso una casa di riposo, e che nessuna autorizzazione era stata richiesta per svolgere tale attività.
Nella specie non veniva in rilievo il conflitto d’interessi quanto l’attività omissiva nel chiedere l’autorizzazione.
L’art. 61 del d.P.R. n. 3 del 1957 esclude le società cooperative dall’ambito applicativo del divieto di esercitare attività incompatibili, ma non esclude che la concreta valutazione sulla sussistenza dell’incompatibilità spetti al datore di lavoro.
Quanto all’assenza ingiustificata, se era vero che la comunicazione della modifica dell’orario era avvenuta ad un indirizzo di posta non certificato, era anche vero che lo stesso ricorrente ammetteva che la comunicazione a mezzo mail si era resa necessaria in quanto esso lavoratore, informato verbalmente in data 8/2/2018 dal direttore dell’UOC della modificazione dell’orario, aveva rifiutato la comunicazione brevi manu perché a suo dire illegittima. Quindi, lo stesso aveva già conoscenza di fatto dell’intervenuta modificazioni dell’orario di lavoro, e non poteva ritenersi l’effettuazione dell’assenza in buona fede.
In merito al debito orario, che il lavoratore assumeva non aver potuto recuperare perché sospeso dal servizio con provvedimento disciplinare conservativo del 7 marzo 2018, la Corte d’Appello ha osservato che andava considerato il fatto che la condotta complessiva del lavoratore era stata contraddistinta negli anni da un estremo disordine nella gestione degli orari lavorativi atteso che la presenza del debito orario era stata costante negli anni di lavoro sin dal 2014. L’attuale persistenza era quindi il sintomo di una condotta costantemente poco attenta al rispetto dell’organizzazione aziendale.
3. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando quattro motivi di impugnazione, assistiti da memoria.
4. Resiste con controricorso l’(…), già A. Marche, assistito da memoria. Eccepisce in via preliminare l’inammissibilità del ricorso ex art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ. in relazione all’art. 348-ter, comma 4, cod. proc. civ.
5. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta con cui ha chiesto il rigetto del ricorso, confermando tali conclusioni in udienza pubblica.
Ragioni della decisione
1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso prospettata dalla controricorrente, non ravvisandosi le condizioni previste dalle disposizioni processuali richiamate.
2. Con la prima censura viene dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro: violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 – travisamento dei fatti – insufficienza e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui ha escluso la rilevanza della mancata contestazione tempestiva degli addebiti. In connessione con la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro: violazione e falsa applicazione dell’art.55-bis del d.lgs. 165 del 2001, come modificato dal d.lgs. 25 maggio 2017 n. 75 nella parte in cui ha ritenuto tempestiva la contestazione degli addebiti.
Il provvedimento impugnato sarebbe censurabile, in primo luogo, nella parte in cui ha ritenuto la tempestività delle contestazioni disciplinari.
Assume il ricorrente che non sarebbe stato rispettato l’art. 7, della legge n. 300 del 1970, con la violazione del diritto di difesa del lavoratore. Vi sarebbe stata inerzia da parte dell’Amministrazione e la mancata affissione del Codice disciplinare.
Lo svolgimento di attività extraistituzionale era noto al datore di lavoro sin dal 2011, atteso che aveva chiesto il part-time deducendo anche lo svolgimento degli incarichi direttivi presso la Cooperativa. Nel 2013 aveva proposto al Direttore generale un progetto ideato dalla Coop. K., circostanza confermata dalla prova testimoniale. L’A. aveva prodotto visura camerale del 5 dicembre 2017, dalla quale emergeva la carica di amministratore.
Di talché la procedura sul punto era viziata.
3. Il motivo non è fondato.
In tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (ex art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una ‘notizia di infrazione’ di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione (v. anche, Cass. 13 luglio 2020, n. 14886). Non è allora censurabile il ragionamento della Corte territoriale che, sulla base di un accertamento in fatto, ha individuato tale momento nelle comunicazioni sopra indicate.
La questione affissione codice disciplinare riportata nella rubrica non è esplicitata nel motivo né ve ne è menzione nella sentenza di appello.
4. Con la seconda censura si prospetta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro: violazione e falsa applicazione dell’art.61 del d.P.R. n. 3/1957 – travisamento dei fatti – insufficienza e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui è stato ritenuto legittimo il provvedimento espulsivo per omessa richiesta di autorizzazione allo svolgimento di attività istituzionale.
Il provvedimento impugnato è censurato sotto diversi profili nella parte in cui la Corte d’Appello di Ancona ha ritenuto di dedurre una condotta disciplinarmente rilevante del lavoratore per aver omesso di chiedere autorizzazione per lo svolgimento di attività extraistituzionale.
Palese sarebbe ad avviso del ricorrente il travisamento dello spirito della legge e, segnatamente, dell’art. 61 del d.P.R. n. 3/1957, che esclude l’incompatibilità dell’attività extraistituzionale quando questa è prestata in favore, come nel caso specifico, delle società cooperative.
5. La censura non è fondata. Correttamente la Corte d’Appello ha affermato che in relazione all’incarico extraistituzionale in questione il lavoratore doveva chiedere l’autorizzazione al datore di lavoro.
L’art. 60 del d.P.R. 3 del 1957 prevede: “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”.
L’art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957, richiamato dall’art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, prevede dunque la decadenza dall’impiego, in ragione del previsto regime dell’incompatibilità assoluta, in ordine al quale non occorre valutare l’esistenza di riflessi negativi sul rendimento e sull’osservanza dei doveri d’ufficio, essendo sufficiente, per la preminenza dell’interesse pubblico, la mera potenzialità del conflitto, senza che rilevi l’eventuale conoscenza del fatto da parte dell’Amministrazione, stante l’indisponibilità della materia (Cass., n. 22188 del 2021).
L’art. 61 del medesimo d.P.R. n. 3 del 1957, stabilisce: “Il divieto di cui all’articolo precedente non si applica nei casi di società cooperative (…)”.
L’art. 61 ha escluso l’incompatibilità assoluta prevista per gli incarichi conferiti dalle società con fine di lucro nel caso delle società cooperative.
L’assunzione di cariche sociali in società cooperative è possibile, stante la finalità anche mutualistica, a prescindere dalla natura e dall’attività della cooperativa.
Si rientra, dunque, nel campo di applicazione dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 – che richiama la legge n. 412 del 1991.
L’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, a sua volta stabilisce: “Con il Servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico rapporto di lavoro. Tale rapporto è incompatibile con ogni altro rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato, e con altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale. Il rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale è altresì incompatibile con l’esercizio di altre attività o con la titolarità o con la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con lo stesso (…)”.
In proposito si può osservare che Cass. n. 13158 del 2015 (fattispecie attività prestata da infermiere professionale presso un centro privato convenzionato) ha affermato che il divieto di cumulo di impieghi è previsto, dal d.lgs. n. 165 del 2001, art. 53, primo comma, il quale dispone che per i dipendenti pubblici restano ferme, tra l’altro, le disposizioni di cui all’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, secondo cui con il Servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico rapporto di lavoro.
La persistente vigenza della norma è confermata dall’art. 3-quater del d.l. n. 127 del 2021, conv. legge n. 161 del 2021 che ha previsto al comma 1: “Fino al 31 dicembre 2025, agli operatori delle professioni sanitarie di cui all’articolo 1 della legge 1° febbraio 2006, n. 43, appartenenti al personale del comparto sanità, al di fuori dell’orario di servizio non si applicano le incompatibilità di cui all’ articolo 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, e all’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. (…)”
L’art. 53, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, statuisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’Amministrazione di appartenenza e, in caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza (Cass., S.U., n. 32199 del 2021).
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., S.U., n. 25639 del 2020) si tratta di una normativa volta a garantire l’obbligo di esclusività che ha primario rilievo nel rapporto di impiego pubblico in quanto trova il proprio fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost. con il quale, nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, si è inteso rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sottraendo tutti coloro che svolgono un’attività lavorativa “alle dipendenze” delle Pubbliche Amministrazioni dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività (cfr., Cass. n. 8846 del 2023; n. 12626 del 2020; n. 11949 del 2019; n. 3467 del 2019; n. 427 del 2019; n. 20880 del 2018; n. 28975 del 2017; n. 28797 del 2017; n. 8722 del 2017).
Il carattere retribuito dell’attività extraistituzionale, tuttavia se rileva ai fini del recupero delle somme erogate, non condiziona la necessità di richiedere l’autorizzazione al datore di lavoro.
Peraltro, l’autorizzazione da parte dell’Amministrazione di appartenenza non può essere conferita per “facta concludentia”, avuto riguardo alla sequenza procedimentale prevista dal legislatore (Cass., n. 29348 del 2022).
5.1. Pertanto, vanno affermati i seguenti principi di diritto:
L’accettazione di cariche sociali in una società cooperativa, nella specie Presidente del Consiglio di amministrazione di una “società cooperativa sociale”, non incorre nella incompatibilità assoluta di cui all’art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957, in ragione della deroga prevista dall’art. 61 del medesimo d.P.R. Ciò, tuttavia, non esclude che il lavoratore debba chiedere l’autorizzazione allo svolgimento dell’incarico extraistituzionale al datore di lavoro.
Trova applicazione l’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, che costituisce disciplina volta a garantire l’obbligo di esclusività che ha primario rilievo nel rapporto di impiego pubblico in quanto trova il proprio fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost. con il quale, nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, si è inteso rafforzare il principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
Il lavoratore pubblico contrattualizzato concorre all’attuazione della disciplina sulla incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi, e la norma di riferimento per quest’ultimo, va individuata nell’art. 53, comma 7, che prende in esame le conseguenze per il lavoratore della mancanza di autorizzazione a svolgere l’incarico extraistituzionale. Il carattere gratuito dell’attività non esclude la necessità della valutazione di compatibilità e dunque dell’autorizzazione, come stabilito dall’art. 53, comma 7, per gli incarichi retribuiti.
In particolare, quanto al Comparto sanità, va rilevato che l’art. 53 richiama l’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, che tra l’altro stabilisce: “(…) Il rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale è altresì incompatibile con l’esercizio di altre attività o con la titolarità o con la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con lo stesso”.
La mancanza della comunicazione al datore di lavoro, ai fini della valutazione di compatibilità funzionale all’autorizzazione, dell’incarico extraistituzionale consistente nella carica sociale di Presidente del Consiglio di amministrazione di una società cooperativa sociale dà luogo a responsabilità disciplinare.
6. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro: violazione e falsa applicazione dell’art. 8, comma 4, del CCNQ del 04.12.2017 – travisamento dei fatti – insufficienza e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui è stata ritenuta sussistente e rilevante la presunta assenza del 14 febbraio 2018, in assenza di legittimo mutamento dell’orario lavorativo.
Prospetta il lavoratore che la Corte di Appello di Ancona avrebbe ritenuto erroneamente sussistente e dimostrata l’assenza dal lavoro del lavoratore il giorno 14 febbraio 2018.
Sin dal ricorso introduttivo di primo grado aveva dedotto che detta richiesta di prestazione lavorativa, in quella giornata, fosse illegittima in quanto non concordata tra datore e lavoratore, ai sensi dell’art. 8, comma 4, del contratto collettivo quadro del 4 dicembre 2017.
7. Il motivo non è fondato.
L’Accordo quadro prevede all’art. 8, comma 1: “I distacchi sindacali riconosciuti in favore di ciascuna associazione sindacale possono essere fruiti in modo frazionato (…)”.
Il comma 3 del medesimo art. 8, a sua volta prevede; “(…) i distacchi attivati in favore di dipendenti, anche con qualifica dirigenziale, titolari di rapporto di lavoro a tempo pieno, possono essere utilizzati con articolazione della prestazione lavorativa ridotta (…).
Il comma 4, che viene qui in rilievo, stabilisce: “La prestazione lavorativa, nei casi di cui al comma 3, deve essere definita previo accordo tra l’amministrazione ed il dipendente (…)”.
Dunque, l’articolazione della prestazione lavorativa deve essere definita mediante accordo tra l’Amministrazione ed il dipendente, all’interno del rapporto individuale di lavoro, come già conformato quanto alla complessiva prestazione lavorativa in ragione del riconoscimento del distacco sindacale in favore dell’Associazione sindacale.
La previsione dell’accordo ha la funzione, nell’ottica del rispetto del principio di correttezza e buona fede a cui si devono ispirare le relazioni sindacali (Cass., n. 6909 del 2024, 20227 del 2007), di consentire di coniugare le esigenze organizzative del datore di lavoro, quanto alla distribuzione dell’orario di lavoro, con l’esercizio delle prerogative sindacali.
La previsione contrattuale tende ad evitare l’adozione da parte datoriale di soluzioni non giustificate da esigenze organizzative o funzionali ad ostacolare di riflesso l’esercizio delle attività sindacali del lavoratore. Una variazione oraria che non risponde alle esigenze dell’Azienda è senza dubbio contraria alla buona fede e alla correttezza. Questa Corte ha già affermato che il cambio dell’orario di lavoro deve essere effettuato senza discriminazione e vessazione, nel rispetto di principi di buona fede e correttezza (Cass., n. 31349 del 2021).
Nella specie viene in rilievo la modifica di quanto già concordato, con riguardo ad una giornata lavorativa.
La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei principi sopra enunciati e con accertamento di fatto – non rivedibile in sede di legittimità – ha rilevato che il datore di lavoro aveva avviato l’interlocuzione alla quale il lavoratore non aveva poi dato corso.
Né il lavoratore ha rappresentato la violazione dei criteri di correttezza e buona fede per la non conferenza della modifica a ragioni organizzative del datore di lavoro, o ricadute sull’esercizio delle prerogative sindacali.
8. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro: violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del d.P.R. n.62/2013 – travisamento dei fatti – insufficienza e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui è stato ritenuto legittimo il provvedimento espulsivo per violazione dei principi generali di comportamento del dipendente pubblico; violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 cod. civ. e dell’art. 2119 cod. civ. – travisamento dei fatti – insufficienza e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui è stato ritenuto legittimo il provvedimento espulsivo senza adeguata e giusta proporzionalità tra sanzione e comportamento.
La Corte di Appello, pur riconoscendo la parziale fondatezza delle giustificazioni e delle contestazioni del lavoratore circa la rilevanza del debito orario ai fini dell’adozione del provvedimento disciplinare, effettuava considerazioni con cui integrava ex post la giusta causa di licenziamento.
9. Il motivo non è fondato.
In tema di licenziamento per giusta causa, anche in materia di pubblico impiego contrattualizzato, è da escludere qualunque sorta di automatismo a seguito dell’accertamento dell’illecito disciplinare, sussistendo l’obbligo per il giudice di valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta (Cass. 18858 del 2016).
La Corte d’Appello con la statuizione censurata ha effettuato il dovuto controllo di proporzionalità della sanzione in relazione alle giustificazioni addotte dal lavoratore.
10. Il ricorso deve essere rigettato.
11. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge […]”.
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