Quell’autunno del 1991 a Maastricht, che vide il rafforzamento della dimensione sociale europea[1].

di Gianni ARRIGO

SOMMARIO. 1.Gennaio 2024: ritorno a Val Duchesse.  2. Le riforme istituzionali europee a cavallo degli anni Novanta nel contesto di crisi e tensioni internazionali. Processi di integrazione e disintegrazione nelle due parti d’Europa divise dalla “cortina di ferro”.  Genesi e sviluppo della dimensione sociale comunitaria. 3. Mercato e diritti sociali prima del Trattato di Maastricht. 3.1. Il “lungo sonno” del diritto sociale europeo e il suo “risveglio” col primo Programma di azione sociale (1974). 3.2. La nozione di “spazio sociale europeo”. 3.3. L’Atto Unico europeo. Il primo ampliamento della dimensione sociale comunitaria. L’avvio dei “dialoghi” di Val Duchesse.3.4. Gli artt. 118-A e 118-B dell’Atto Unico europeo: due concezioni complementari della Politica sociale comunitaria. 4. La fase dell’integrazione sociale differenziata 1989-1991: a) la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (1989). 5. (Segue).La fase dell’integrazione sociale differenziata:1989-1991: b) Il Protocollo e l’Accordo sulla Politica Sociale. La politica sociale “a due vie”.6. Conclusioni. Il passaggio al nuovo secolo tra progetto e disincanto: l’adozione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’incompiuta fase “costituzionale.

1.Gennaio 2024: ritorno a Val Duchesse.  

1.1. Nel presentare, ai primi di Gennaio del 2024, il programma della Presidenza di turno del Consiglio, il Primo ministro belga Alexander De Croo metteva in evidenza, tra le priorità del semestre, il rafforzamento della dimensione sociale. Basandosi sul “Pilastro europeo dei diritti sociali”, De Croo sottolineava la necessità di promuovere una società europea più inclusiva e più giusta per tutti, di favorire l’accesso a una protezione sociale sostenibile e di rafforzare il dialogo sociale a tutti i livelli.

Quest’ultimo tema trovava a fine Gennaio una sede di dibattito nel Vertice sociale tripartito organizzato dalla Commissione[2], alla presenza dei massimi rappresentanti delle istituzioni UE e delle organizzazioni europee dei lavoratori e dei datori di lavoro[3]. È significativo, non solo sul piano simbolico, che il luogo del suddetto Vertice, cioè Val Duchesse, fosse lo stesso in cui quasi quarant’anni prima era stato avviato il “laboratorio” del dialogo sociale europeo su iniziativa del presidente della Commissione, Jacques Delors (infra, par. 3.3.).

I partecipanti al Vertice hanno ribadito l’importanza del dialogo sociale nell’attuale contesto di grandi sfide economiche, sociali e politiche, e a tal fine hanno firmato una “Dichiarazione tripartita per un dialogo sociale europeo fiorente”, che conferma l’impegno delle istituzioni UE a “rafforzare il dialogo sociale a livello dell’UE e ad unire le forze per affrontare le sfide chiave nelle economie e nei mercati del lavoro. L’obiettivo è sostenere imprese fiorenti, posti di lavoro e servizi di qualità, nonché migliori condizioni di lavoro”. “Il dialogo sociale e la contrattazione collettiva”, hanno affermato i partecipanti al Vertice- “contribuiscono a migliorare le condizioni di vita e di lavoro, quali la retribuzione, l’orario di lavoro, le ferie annuali, il congedo parentale, la formazione e le misure in materia di salute e sicurezza. Essi svolgono inoltre un ruolo cruciale per l’adattamento alle nuove circostanze economiche e sociali e per conseguire gli incrementi di produttività necessari per migliorare la competitività delle imprese europee. Tutto ciò contribuisce a garantire l’equità sociale e la democrazia sul lavoro e a rafforzare la prosperità e la resilienza dell’Europa”.

Queste dichiarazioni sono coerenti con la Raccomandazione del Consiglio del 12 giugno 2023[4], sul “rafforzamento del dialogo sociale nell’Unione europea”, secondo cui “il dialogo sociale, compresa la contrattazione collettiva, è uno strumento essenziale e utile per il buon funzionamento dell’economia sociale di mercato, che alimenta la resilienza economica e sociale, la competitività, la stabilità e la crescita e lo sviluppo sostenibili e inclusivi. Il dialogo sociale svolge inoltre un ruolo importante nel plasmare il futuro del lavoro, tenendo conto delle tendenze specifiche della globalizzazione, della tecnologia, della demografia e dei cambiamenti climatici. Gli Stati membri che dispongono di quadri solidi per il dialogo sociale e di un’elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere economie più competitive e resilienti” (considerando 7). Difatti, le parti sociali svolgono un ruolo crescente durante crisi profonde ed intensi cambiamenti “contribuendo ad anticipare, correggere e affrontare, attraverso il dialogo, la negoziazione e l’azione congiunta, le conseguenze occupazionali e sociali delle sfide legate ai cambiamenti tecnologici, all’aumento dell’automazione e alla transizione verde” (considerando 9).

Il contributo del dialogo sociale e della contrattazione collettiva ai vari livelli è ritenuto cruciale, da ultimo, nella tutela dei “lavoratori delle piattaforme digitali”. La tematica è ampia e articolata poiché, per un verso, spazia dalla robotica alle piattaforme tecnologiche, dall’intelligenza artificiale all’impresa digitale; per altro verso, favorisce l’affermarsi di nuovi modelli economici ed organizzativi, destinati ad incidere significativamente su una pluralità di ambiti (mercato del lavoro, occupazione, professionalità, svolgimento del rapporto, rappresentanza e tutele collettive, ecc.). In tale contesto, come peraltro sottolinea il Consiglio nella cit. Raccomandazione del 2023, è necessario rafforzare il ruolo delle Parti sociali affinché adottino norme più aderenti e dunque più efficaci rispetto ad una realtà che ha superato i tratti dell’assoluta novità, marcando invece quelli della sua continua evoluzione. Il dialogo sociale resta un caposaldo del modello sociale europeo[5].

1.2. Le iniziative assunte nel primo semestre del 2024 dalla Commissione europea e dalla Presidenza belga concernenti il rafforzamento della dimensione sociale europea, a (quasi) quarant’anni dagli incontri di Val Duchesse e a (oltre trenta) dai negoziati di Maastricht, con richiami a quanto prodotto in quelle sedi, sollecitano una riflessione sul senso e la portata delle innovazioni nella materia delle Politica sociale europea prodotte in quel breve ma intenso periodo (1985-1991), e quindi sul valore del loro lascito sulle fasi successive dell’ integrazione europea.

A tal fine è utile risalire brevemente il percorso da cui ha tratto origine la dimensione sociale europea, e quello da cui è scaturito il suo ulteriore ampliamento, ricostruendo il quadro normativo ed istituzionale europeo nel quale, tra il 1985 (avvio dei dialoghi di Val Duchesse) e il 1991 (accordo di Maastricht, a conclusione delle Conferenze intergovernative), la Politica sociale iniziò ad assumere un autonomo rilievo istituzionale nell’edificio comunitario, non senza dar conto dei mutamenti del contesto storico e politico, europeo ed internazionale, che in quegli stessi anni esercitarono un’influenza di non poco conto sullo sviluppo dell’integrazione europea e sulla configurazione della sua dimensione sociale.

2. Le riforme istituzionali europee a cavallo degli anni Novanta nel contesto di crisi e tensioni internazionali. Processi di integrazione e disintegrazione nelle due parti d’Europa divise dalla “cortina di ferro”.  Genesi e sviluppo della dimensione sociale comunitaria.

2.1. Alla fine degli anni Settanta la situazione politica sul piano internazionale e su quello europeo si prefigurava carica di incertezze e cambiamenti tali da portare, lungo il successivo decennio, al declino del bipolarismo aprendo un periodo nuovo delle relazioni e delle politiche internazionali.

Giova ricordare anzitutto che gli eventi che ebbero luogo in Polonia a partire dal 1980 (con una significativa anticipazione nel 1976) con la nascita di Solidarność, il sindacato indipendente fondato nell’agosto del 1980 nei cantieri navali “Lenin” di Danzica, furono quelli che maggiormente influirono sul sistema dei rapporti interni al Patto di Varsavia.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta si verificarono altri avvenimenti di notevole portata. Nel 1989 cadde il muro di Berlino, segnando la conclusione della guerra fredda e la fine della logica di contrapposizione dei blocchi occidentale ed orientale. Nel 1990 la Repubblica federale tedesca incorporò la Repubblica democratica tedesca. Nel 1991 si ebbe la dissoluzione dell’Unione Sovietica, in seguito alla quale l’Urss si smembrò in una molteplicità di repubbliche, tra le quali, per importanza, la Russia, la Bielorussia, l’Ucraina, la Moldova, la Georgia ed il Kazakistan, nonché l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, queste ultime destinate ad entrare nell’Unione europea nel 2004. Tra il 1991 e il 1992 anche la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia andò incontro alla dissoluzione, dando vita a vari Stati rimasti a lungo tra loro in conflitto. Alcuni dei nuovi Stati entrarono a far parte dell’Unione europea (Slovenia e Croazia); altri si candidarono ufficialmente ad aderire (Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia).

Se i fatti di Berlino rappresentano l’elemento simbolicamente più rappresentativo dell’affrancazione dei Paesi dell’Europa centro-orientale dall’Urss, è utile ricordare che la disgregazione del blocco comunista e della stessa Unione Sovietica fu la conseguenza di un complesso di situazioni probabilmente iniziato con il processo di “ristrutturazione” avviato da Gorbaciov nel 1985[6], e culminato nel tentato golpe del 19 Agosto 1991 (contro Gorbaciov) che, seppur fallito, accelerò la dissoluzione del Pcus e dell’Urss indipendentemente dalla volontà dei suoi autori[7].

Contrariamente a quanto avvenne con la scomparsa di altri regimi, la disintegrazione dell’Unione Sovietica non fu dovuta ad una sconfitta militare ma alla congiunzione di una serie di fattori, politici, economici e sociali, di diversa forza e valore, senza i quali difficilmente avrebbe potuto aver luogo la “desatellizzazione” nei Paesi dell’Europa centrale ed orientale. Tra il 1989 e il 1991 Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Rdt, Romania, Bulgaria e -come già detto- Estonia, Lettonia e Lituania, insieme ad altri ex Stati satellite, si proclamarono progressivamente Stati indipendenti e sovrani, alcuni attraverso movimenti rivoluzionari, altri mediante transizioni pacifiche ed elezioni democratiche.

Il Patto di Varsavia fu sciolto formalmente il 1° Aprile del 1991, mentre il Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica) cessò di esistere il 28 Giugno dello stesso anno.

Alla fine di dicembre del 1991 si estinse giuridicamente l’Unione Sovietica.

La disintegrazione dell’Urss è senza dubbio l’avvenimento più importante avvenuto nella società internazionale di fine secolo. Sono notevoli le sue conseguenze sul piano del diritto internazionale e del diritto europeo. Quanto alle conseguenze su quest’ultimo, la dis-integrazione dell’Urss, insieme alla dissoluzione della Jugoslavia, ha notevolmente influito sull’integrazione europea, sia sul piano della sua configurazione territoriale, in ragione delle successive adesioni di vari Paesi appartenenti a quei blocchi, sia sul piano politico istituzionale, con ricadute sulla Politica sociale, per l’impulso che i fenomeni suddetti hanno dato all’accelerazione delle riforme politico-istituzionali della Comunità/Unione.

Nel 1992 anche la Cecoslovacchia si divise in Repubblica Ceca e Slovacchia.

L’esistenza di governi giunti al potere tramite libere elezioni democratiche determinò una reciproca attrazione tra la Comunità/Unione e molti di questi Stati, con un fenomeno di integrazione che si accompagnava e controbilanciava la dis-integrazione in atto nell’Unione Sovietica e nella Jugoslavia.

2.2. Fra il 1981 e il 1986, con l’ingresso di Grecia, Portogallo e Spagna, la Comunità era divenuta un ente di 12 Stati membri. La Comunità era chiamata a ridisegnare le proprie strutture istituzionali, politiche ed economiche e ripensare il suo ruolo internazionale, in modo da affrontare le sfide poste dallo scenario interno ed esterno, in continuo e rapido mutamento.

L’Atto Unico Europeo (1986) segnò l’avvio formale e concreto di questa fase in un contesto caratterizzato da problemi strutturali nel funzionamento dell’Europa comunitaria. L’Atto Unico Europeo (Aue) doveva condurre non solo al completamento del mercato comune ma anche al miglioramento del sistema istituzionale e al consolidamento della coesione economica e sociale.

In particolare, l’Aue conteneva le disposizioni istituzionali necessarie per realizzare rapidamente il Mercato unico europeo, una delle finalità indicate dagli stessi Trattati delle origini. Inoltre indicava (all’art. 20) la necessità di creare una moneta unica europea, e (all’art. 30) la necessità di rafforzare le embrionali disposizioni in materia di Cooperazione politica europea (poi sostituita con la  “Politica estera e di sicurezza comune”, del Trattato di Maastricht), mediante un’ulteriore riforma da adottarsi di lì a cinque anni. Sulla base dei due cit. articoli, in particolare l’art. 20, il Consiglio europeo di Hannover (27 e 28 giugno 1988)costituì il “comitato Delors”, composto dallo stesso Jacques Delors, all’epoca presidente della Commissione europea, dal vicepresidente della Commissione, dai governatori delle banche centrali dei dodici Stati membri e da tre esperti indipendenti, con l’incarico di preparare l’Unione economica e monetaria.

In materia sociale, l’Aue si limitava a introdurre nuovi settori con voto a maggioranza qualificata, tra cui la salute e la sicurezza sul lavoro; riconduceva alle competenze comunitarie la coesione economica e sociale e creava una forma embrionale di Dialogo sociale (infra, 3.3.).

Negli anni seguenti gli Stati membri non si impegnarono a realizzare l’obiettivo della (futura) Politica estera e di sicurezza comune, iniziando, nel 1989, a discutere sula necessità di una nuova Conferenza intergovernativa per negoziare l’applicazione dell’art. 20 (sulla base dei risultati del “comitato Delors”) e dell’art. 30 dell’Aue, nonché le disposizioni istituzionali accessorie. Fu invece il Parlamento europeo nato dalle elezioni del giugno 1989 a sollecitare un’effettiva riforma politica delle Comunità, alla luce degli avvenimenti in corso nell’Europa centro orientale e nella stessa Unione Sovietica[8].

Importante furono in questa fase le iniziative della Commissione europea, durante i due mandati di Presidenza di Jacques Delors. A partire dal 1985, nel primo mandato di Delors, la Commissione ha posto le basi dello sviluppo dell’integrazione europea, in una fase storica a dir poco problematica, dai lineamenti in continua trasformazione, che avrebbero trovato una definizione più chiara dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, e con i negoziati di Maastricht, nel 1991, durante il secondo quinquennio di Presidenza di Delors.

Una (ri)lettura delle iniziative politiche e normative assunte dalla Commissione tra il 1985 ed i primi anni Novanta (tra cui l’avvio degli incontri di Val Duchesse, nel 1985, per coinvolgere le parti sociali nello sviluppo del mercato interno). mette in luce la volontà della Commissione di creare una forte “dimensione sociale” all’interno del disegno politico, economico e monetario. Da qui l’importanza di concetti come solidarietà, benessere, qualità della vita, pur all’interno di un contesto volto alla competizione e alla liberalizzazione dei mercati. In vari documenti della Commissione risalenti a quel decennio, si parla di “difesa del modello europeo”, un modello che intendeva certamente tutelare l’iniziativa privata e la libera concorrenza, ma che trovava nell’estensione dei diritti dei lavoratori, nella cura delle fasce più fragili della popolazione e nella difesa del bene pubblico un carattere distintivo.

La necessità di garantire un nucleo di diritti minimi ai lavoratori di una Comunità sempre più ampia e alla ricerca di maggiore integrazione condusse i Capi di stato e di governo di 11 Stati membri (i Dodici tranne il Regno Unito) ad approvare, al Consiglio Europeo di Strasburgo del 1989 (8-9 Dicembre, un mese esatto dalla caduta del Muro), la Carta Comunitaria dei Diritti Sociali Fondamentali dei Lavoratori (d’ora in avanti Carta comunitaria; infra, par. XX). La Carta comunitaria, approvata sotto forma di Dichiarazione, fissava i principi fondamentali nell’ambito del mercato del lavoro, delle pari opportunità, della salute dei lavoratori e sicurezza del luogo di lavoro. Essa era priva di valore giuridico autonomo e non modificava le competenze della Comunità in ambito sociale.

Ispirata a varie fonti internazionali, come la Carta sociale del Consiglio d’Europa e le Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro, la Carta Comunitaria si presentava come un pilastro della dimensione sociale dell’edificio europeo, innovando gli obiettivi del trattato di Roma, come rivisto dall’Aue. Redatta in forma di Dichiarazione solenne, la Carta sanciva i principi fondamentali del modello europeo di diritto del lavoro e, più in generale, del ruolo del lavoro nella società europea. Essa stabiliva una piattaforma di diritti sociali, da garantire ed attuare, a seconda dei casi, a livello di Stati membri o della Comunità europea, nell’ambito delle sue competenze. Tuttavia, affinché essa potesse incidere a fondo sulla realtà sociale, occorreva il coinvolgimento attivo delle parti sociali[9].

Benché priva di efficacia diretta, la Carta comunitaria è divenuta rapidamente un riferimento per le azioni di politica sociale della Comunità, contribuendo a stimolare un dibattito che, mettendo in luce le principali lacune della dimensione sociale comunitaria, ha posto le premesse di importanti sviluppi negli anni successivi. La sua rilevanza è stata del resto confermata non solo dalla firma del Regno Unito, dopo la vittoria elettorale laburista del 1997, ma soprattutto dal fatto che i principi in essa contenuti sono sati ripresi dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata congiuntamente da Consiglio, Parlamento europeo e Commissione a margine del Vertice di Nizza del dicembre 2000 (infra, 6.2.).

2.3. Come anticipato, è nel mutato e mutevole contesto internazionale ed europeo che, nel dicembre del 1990, presero avvio le due Conferenze intergovernative per la revisione dei trattati comunitari, le quali si conclusero un anno dopo, nella notte fra il 10 e l’11 dicembre 1991, quando i Dodici Stati membri raggiunsero l’accordo sul Trattato. Il quale fu ufficialmente firmato, sempre a Maastricht, il 7 febbraio 1992[10]. “Giusto in tempo !”, si poteva dire: il primo marzo del 1992 partiva infatti l’assedio di Serajevo. Il Novecento europeo si chiudeva là dove era cominciato, nel luogo da cui era partita la tragedia del primo conflitto mondiale. Il futuro rischiava di assomigliare al passato.

Di quell’importante prodotto negoziale dava conto un comunicato della Presidenza del Consiglio europeo, redatto nelle prime ore dell’11 dicembre 1991, così concepito: “Consiglio europeo. Maastricht, 9 e 10 dicembre 1991. Conclusioni della Presidenza: Le Conferenze intergovernative sull’Unione politica e sull’Unione economica e monetaria, riunite a livello di Capi di Stato e di Governo, sono pervenute ad un accordo sul progetto di trattato concernente l’Unione europea, basato sui testi relativi all’Unione politica e all’Unione economica e monetaria. L’ultima stesura e l’armonizzazione dei testi dal punto di vista giuridico dovrà essere completata in vista della firma del trattato agli inizi di febbraio del 1992. Con particolare riferimento alla politica sociale il Consiglio europeo conferma che le attuali disposizioni del trattato possono essere considerate un ‘acquis communautaire’. Il Consiglio europeo nota che undici Stati membri desiderano continuare sulla via tracciata dalla Carta sociale del 1989[11]. A tal fine è stato convenuto di allegare al trattato un protocollo concernente la politica sociale che impegnerà le istituzioni della Comunità a prendere e attuare le necessarie decisioni adattando le procedure decisionali ai fini dell’applicazione da parte di undici Stati membri” […][12].

È quasi superfluo ricordare che il contesto in cui vedeva la luce il Trattato di Maastricht era diverso da quello in cui, negli anni Cinquanta, erano nate le prime Organizzazioni sovranazionali europee, le quali oltretutto si erano sviluppate, per quasi quarant’anni, nel rappacificato letto dell’Europa occidentale, beneficiando, grazie anche al surreale  fallimento della Comunità Europea della Difesa (1954), della copertura politica e della protezione militare degli Stati Uniti (attraverso la loro leadership della NATO) e -diremmo cinicamente- della divisione della Germania.

Tra il 1989 e il 1991 l’originario impianto istituzionale delle Comunità mostrava la sua inadeguatezza rispetto a quanto si andava configurando: con la caduta del muro di Berlino s’imponeva il problema dell’unificazione tedesca e con la fine della “Guerra Fredda” e la dis-integrazione dell’Unione Sovietica si formalizzava la tensione di vari ex “Stati satelliti” verso l’integrazione politico-economica rappresentata dalla Comunità/Unione europea, la quale doveva pertanto ripensare il suo ruolo e la sua struttura: per garantire il funzionamento di un ente aperto a nuovi membri, con interessi socio-politici disomogenei, era indispensabile una riforma dei meccanismi istituzionali e decisionali.

Il Trattato di Maastricht fu il punto di svolta. Per la prima volta, nella preparazione di un Trattato, si riconobbe che il progetto di integrazione aveva un carattere politico e non esclusivamente economico. Per la prima volta si parlò di “unione politica”, tant’è che lo stesso nome di “Comunità Economica Europea” fu mutato in quello di “Unione Europea”, per documentare il cambio di prospettiva. Per la prima volta si convenne che il processo di integrazione doveva interessare settori e materie e definire poteri non strettamente legati al mercato comune[13]. D’altra parte, come anticipato, l’impatto demografico, economico e sociale dell’imminente processo d’allargamento rendeva urgente adottare riforme capaci di garantire la trasparenza democratica e l’efficacia governativa delle istituzioni europee.

I Dodici stati firmatari, su ispirazione del Presidente della Commissione, Jacques Delors, posero dunque mano al riassetto del sistema istituzionale comunitario, puntando a: a)  intensificare il livello di integrazione sul piano politico, con le norme sulla cittadinanza europea ed il rafforzamento del Parlamento europeo; b) sul piano economico, aprendo al processo di convergenza preliminare per dar vita alla moneta unica[14]; e, c) sul piano sociale, con innovazioni delle competenze e dei poteri, tali da riequilibrare i rapporti tra libertà economiche e diritti sociali e del lavoro (su cui infra, par. 3 e s). 

Per intendere la portata innovativa delle decisioni assunte a Maastricht in tema di diritti sociali e del lavoro,  è opportuno ricostruire brevemente il quadro normativo precedente il Trattato di Maastricht.  

3. Mercato e diritti sociali prima del Trattato di Maastricht.

3.1. Il “lungo sonno” del diritto sociale europeo e il suo “risveglio” col primo Programma di azione sociale (1974). 

Come noto, il Trattato del 1957 affidò alla Comunità economica europea il compito di promuovere un “miglioramento sempre più rapido del tenore di vita” degli europei, da realizzarsi mediante l’instaurazione di un mercato comune[15]. Nelle intenzioni dei Padri fondatori sarebbe stato il “buon funzionamento” del mercato, assicurato dall’azione comunitaria, a creare le condizioni (di benessere economico, innanzitutto) tali da permettere agli Stati membri, all’interno dei propri ordinamenti nazionali, di rafforzare le politiche sociali.

II compromesso politico-istituzionale e l’ottimismo liberale che stavano alla base dei trattati istitutivi delle prime Comunità condizionarono per anni l’evoluzione della Politica sociale. Dopo il Regolamento che disciplinava le modalità d’intervento del Fondo sociale europeo (1960), il diritto sociale comunitario dormì il sonno beato degli infanti per circa tre lustri, destandosi alle prime luci degli anni Settanta. Alla Conferenza dei Capi di Stato e di Governo di Parigi (ottobre 1972), che fu il primo Vertice dopo la fine del periodo transitorio (1957-1970), i governi nazionali furono concordi nell’affermare che “un’azione vigorosa” nel campo sociale era importante quanto la realizzazione dell’Unione economica e monetaria. A tal fine autorizzarono un primo “programma d’azione sociale” che il Consiglio adottò il 21 gennaio 1974. A partire da questo atto la dimensione sociale assunse un rilievo crescente, soprattutto nella seconda metà degli anni Settanta, alla ricerca di un punto di equilibrio tra le esigenze del mercato e la tutela dei diritti sociali.

In seguito, il “progresso sociale” comunitario incontrò un periodo di stasi, interrotto nel 1986 con la firma dell’Atto Unico europeo (infra, 2.3).

3.2. La nozione di “spazio sociale europeo”. II “Programma sociale” del 1974 dischiudeva una prima nozione di “spazio sociale europeo” (poi sviluppata, nel 1981, col “Memorandum” francese) basata su due linee guida: a) l’interdipendenza funzionale tra “economico” e “sociale”; b) la necessità di fondare la politica comunitaria sul consenso sociale. A tal fine il “Programma sociale” concepiva la concertazione tra parti sociali e istituzioni comunitarie come metodo (e non ancora come obiettivo, come dirà il Trattato qualche lustro dopo) utile alla graduale armonizzazione delle politiche del lavoro nazionali.

Il Consiglio s’impegnava ad adottare in una prima fase (1974-76) le “misure necessarie” al raggiungimento di tre obiettivi prioritari: a) “la realizzazione del pieno e miglior impiego nella Comunità”; b) “il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che ne consenta la parificazione nel progresso; c) una crescente partecipazione delle parti sociali alle decisioni economiche e sociali della Comunità e dei lavoratori alla vita delle imprese”.

Alle istituzioni comunitarie spettava il compito di conseguire due obiettivi prioritari (l’occupazione e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro) e sviluppare due metodi di intervento (la parificazione nel progresso e la partecipazione dei lavoratori). Il Consiglio avrebbe prestato maggiore attenzione alla Politica sociale, ritenuta essenziale per l’integrazione europea nel suo complesso e non solo per eliminare gli ostacoli alla concorrenza. A tal fine venivano rafforzato il potere d’iniziativa legislativa della Commissione in materia sociale, e la Comunità s’impegnava a intervenire direttamente nelle materie dell’occupazione, delle condizioni di lavoro e della sicurezza sociale, fino allora precluse a qualsiasi provvedimento, anche non legislativo, dell’ente Comunità.

Il “Programma sociale” prevedeva inoltre azioni più incisive a favore di categorie sociali sfavorite (come le persone con disabilità), a favore di persone discriminate in base al sesso[16], nonché progetti-pilota per la lotta contro la povertà.

La Comunità veniva legittimata ad azioni più efficaci in materia sociale, grazie al consenso di tutti gli Stati membri per il ricorso alle basi giuridiche generali (artt. 100 e 235, Cee), grazie ad un’interpretazione estensiva di queste, in tal modo superando la diatriba sui limiti delle competenze sociali della Comunità e condizionando positivamente la successiva legislazione sociale comunitaria, anche se al prezzo di deliberazioni unanimi nel Consiglio.

Dal 1975 al 1980 l’adozione di direttive in materia di lavoro, specie in tema di tutela di dipendenti di imprese interessate da crisi e trasformazioni organizzative e produttive, o soggette a procedure concorsuali (cfr. le direttive nn. 75/129; 77/187 e 80/987), divenne più agevole, laddove compatibile con il “raggiungimento di uno degli scopi del Trattato” (secondo i cit. artt. 100 e 235).

Non meno importante fu la legislazione in materia di non discriminazione retributiva tra uomini e donne, che finalmente obbligava i legislatori nazionali a rendere effettivo il principio enunciato all’art. 119 del Trattato CEE[17]. La Politica sociale veniva pertanto “promossa” a fattore positivo dell’integrazione nella parte in cui contribuiva a realizzare gli obiettivi stessi del Trattato, come segnalavano i considerando di varie direttive adottate in quegli “anni d’oro” del diritto del lavoro comunitario. Un tale mutamento di prospettiva consolidava l’opinione secondo cui la tutela delle condizioni di lavoro non era il prodotto fatale e automatico del “buon funzionamento del mercato comune”. Funzionale a questa prospettiva era la tesi secondo cui il “ravvicinamento” delle legislazioni sociali nazionali avrebbe influenzato positivamente l’opera di armonizzazione normativa, connaturata ai caratteri di specificità della Comunità/Unione quale ordinamento giuridico complesso che s’integra negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, innescando un processo di assimilazione costante dei rispettivi complessi normativi.

3.3. L’Atto Unico europeo. Il primo ampliamento della dimensione sociale comunitaria. L’avvio dei “dialoghi” di Val Duchesse. L’Atto Unico europeo (Aue), entrato in vigore il primo luglio del 1987, recepì in alcune parti la crescente sensibilità verso le politiche sociali che si andava manifestando in ambito europeo. Con l’Aue avveniva una prima sostanziale correzione di rotta del diritto originario della Comunità nell’ambito della politica sociale, che il Trattato di Roma aveva superficialmente toccato. Con l’introduzione di una politica comunitaria di coesione economica e sociale si tentava di compensare gli effetti della realizzazione del mercato interno sugli Stati membri meno sviluppati, oltreché ridurre il divario tra le diverse regioni europee.

Testimoni del mutamento di rotta furono in particolare gli artt. 118-A e 118B del Trattato CE. Da un lato, il nuovo art. 118-A  autorizzava il Consiglio ad adottare a maggioranza qualificata, nel quadro della procedura di cooperazione, prescrizioni minime al fine di promuovere “il miglioramento (…) dell’ambiente di lavoro, per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori”. Dall’altro lato, l’art. 118-B, sulla scia delle descritte attribuzioni, assegnava alla Commissione il compito di sviluppare il dialogo sociale a livello europeo. In tal modo l’art. 118-B attenuava l’apatia delle autorità comunitarie verso il ruolo delle Parti sociali europee, dischiudendo l’uscio alla loro collaborazione nella formazione del diritto sociale comunitario, ancorché con strumenti prodotti in forma autonoma e su base volontaria. La Commissione, secondo l’art. 118-B, doveva “sforzarsi”, e quindi utilizzare pienamente i suoi poteri, per “sviluppare a livello europeo un dialogo tra le parti sociali”, capace di “sfociare in relazioni convenzionali”, qualora le Parti stesse lo ritenessero “opportuno”.

L’art. 118-B, pur con i limiti del lessico comunitario[18], conferiva rilievo istituzionale alle riunioni tra le Parti sociali e la Commissione, di fatto avviate nel 1985 dal Presidente della Commissione Jacques Delors e consolidate con la “storica” riunione di Palais d’Egmont, il 12 Gennaio 1989[19].

Alla “dimensione consultiva” del dialogo sociale europeo, riconosciuta dal Trattato CECA e dal Trattato CEE, si affiancò dunque quella negoziale. Gli incontri organizzati dalla Commissione nel propizio castello di Val Duchesse[20], tra rappresentanti di alto livello delle parti sociali europee, UNICE (oggi BusinessEurope), CEEP e CES  -in connessione con la creazione del mercato interno, accompagnata da una maggiore liberalizzazione, da più liberi processi di privatizzazione e da una crescente mobilità transfrontaliera dei lavoratori- produssero dei “pareri comuni”[21] di un certo rilievo, segnatamente sulle prospettive di un mercato del lavoro europeo e sull’istruzione e la formazione, impegnandosi altresì “ad utilizzare i canali appropriati per estendere il dialogo sociale a tutti i livelli”[22].

Da qui l’impiego del verbo “sviluppare”, volendo con ciò significare che il cammino delle relazioni industriali a livello europeo era stata già da tempo avviato e che non era più il caso di usare termini che disconoscessero quel dato di fatto. Era del resto incontestabile che gli incontri di Val Duchesse avessero condotto le Parti sociali europee a sottoscrivere dei Pareri comuni, intesi come “comuni dichiarazioni di intenti” o “atti valutativi” adottati da organizzazioni sindacali europee (peraltro non provviste di mandato a negoziare), atti che, pur non vincolando le organizzazioni sindacali nazionali, tuttavia ad esse si rivolgevano perché ne tenessero conto, per quindi proseguire ai vari livelli delle relazioni industriali l’esperienza negoziale acquisita a livello europeo.

Agli scrittori euroscettici l’art.118-B appariva così generico e indeterminato nel suo ambito soggettivo e materiale (soprattutto nella sua “maccheronica” traduzione italiana, che, come anticipato, parlava di “relazioni convenzionali”[23]), da sembrare una petizione di principio. In realtà quella formulazione non era un artificio retorico ma semmai la traduzione del difficile progresso della Politica sociale comunitaria, alla cui definizione e al cui “sviluppo” avrebbero dovuto contribuire tutti i soggetti interessati alla sua evoluzione, in particolare le Parti sociali ai vari livelli. In un tale contesto andava a collocarsi il Dialogo sociale, nell’aspettativa di tramutarsi (come avverrà dopo Maastricht) da meccanismo consultivo a procedura di attivo coinvolgimento delle Parti sociali nel processo di determinazione delle fonti, procedura che le successive scritture del Trattato disciplineranno con poche, essenziali disposizioni.

Secondo la Commissione, in base all’esperienza che si andava acquisendo nel “laboratorio” di Val Duchesse, il Dialogo sociale poggiava su due fattori dinamici: a) l’evoluzione dei comportamenti delle Parti sociali e dei governi, in ambito comunitario e nazionale, con l’obiettivo di dare risposte efficaci alle trasformazioni indotte dal grande mercato interno; b) l’avvio di un sistema di relazioni sindacali di livello europeo capace di suscitare utili sinergie tra competenze della Comunità e competenze degli Stati membri in materia sociale[24], sfruttando le potenziali risorse delle competenze sussidiarie. Questo secondo aspetto era ritenuto essenziale per integrare le fonti comunitarie del diritto del lavoro con “elementi del dialogo sociale”[25].

In quanto “norma di organizzazione”[26], l’art. 118-B “impegnava” la Commissione ad attivarsi affinché le Parti sociali, oltre a dialogare tra loro e con la Commissione, stipulassero anche dei contratti collettivi di ambito comunitario, senza tuttavia porre uno specifico obbligo in capo alla Commissione e senza legittimare recta via il contratto collettivo comunitario come fonte normativa “concorrente” con gli atti normativi tipici dell’ordinamento comunitario[27].

L’art. 118-B riconosceva solo in via indiretta la contrattazione collettiva in ambito comunitario: incaricava la Commissione, nell’ambito della potestà discrezionale di cui disponeva, di integrare le ordinarie attività di cooperazione con le parti sociali con un sostegno all’autonomia collettiva, capace di sfociare in liberi contratti collettivi europei, senza automatiche implicazioni sul piano istituzionale.

Tuttavia, l’art. 118-B, pur delineando un ambito di azione della Commissione meno generico di quello a suo tempo individuato dall’art. 118, 2° comma, del Trattato Cee  (secondo cui “la Commissione opera a stretto contatto con gli Stati membri mediante studi e pareri e organizzando consultazioni, sia per i problemi che si presentano sul piano nazionale, che per quelli che interessano le organizzazioni internazionali”), non poteva certo ientrare nel merito di questioni fondamentali in tema di contrattazione collettiva, come l’efficacia degli accordi, la selezione delle Organizzazioni stipulanti e la definizione dei criteri di rappresentatività sindacale.

Proprio in ragione della formulazione dell’art. 118-B, sembrava improbabile che la Commissione potesse intervenire a “disciplinare con un proprio regolamento una procedura per lo svolgimento del dialogo sociale che individuasse e selezionasse i suoi soggetti, determinando i criteri di rappresentatività e prevedendo addirittura la verifica del loro possesso in caso di contestazione, nonché la garanzia di un sistema di pubblicità volto a dare certezza agli accordi conclusi”[28].

3.4. Gli artt. 118-A e 118-B dell’Atto Unico europeo: due concezioni complementari della Politica sociale comunitaria.

L’art. 118-A (insieme ai novellati artt. 100 e 110-A), da un lato, e l’art. 118-B, dall’altro, rappresentavano  due concezioni diverse, ma complementari, della ‘politica del lavoro’ della Comunità: a) la prima, favorevole a discipline indifferenziate tramite armonizzazione normativa, mediante direttive, appariva più adatta a eliminare differenze di trattamento tra i vari diritti nazionali, proprio in ragione dell’efficacia diretta delle direttive; questa legislazione avrebbe dovuto caratterizzarsi, ove possibile, come regolazione di base fatta di principi e di prescrizioni minime da svilupparsi negli ordinamenti interni “nel senso del progresso”; b) la seconda, favorevole a norme di fonte collettiva, era ritenuta più adatta a soddisfare le diversità delle prassi e tradizioni nazionali, soprattutto in determinate materie.

La Commissione ha tentato di conciliare tra loro queste diverse concezioni della regolazione normativa del lavoro, ritenendo che l’Europa sociale dovesse aspirare alla coesione giuridica e non all’uniformazione degli ordinamenti sociali nazionali, tenendo in giusta considerazione la diversità dei sistemi giuridici oltre che le prassi e le tradizioni nazionali, anche al fine di scongiurare il rischio di una competizione al ribasso dei sistemi sociali nazionali[29]. Per governare le tensioni tra le diverse concezioni della Politica sociale comunitaria, la Commissione si è mossa lungo le seguenti direttrici: a) costruire lo Spazio sociale europeo sulla base di obiettivi “realistici e convergenti”, sostenuti dal consenso degli Stati membri e delle parti sociali; b) non disciplinare al livello comunitario quel che poteva essere regolato al livello nazionale, di settore o d’impresa (sussidiarietà verticale); c) favorire una “ripartizione giudiziosa” del potere normativo tra la fonte legislativa e quella contrattuale (sussidiarietà orizzontale); d) costruire uno “zoccolo di diritti sociali fondamentali”[30].

4. La fase dell’integrazione sociale differenziata 1989-1991: a) la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (1989).

Come anticipato, le basi giuridiche in materia sociale introdotte dall’Aue legittimavano l’adozione di provvedimenti in “settori” sociali cruciali per la tutela delle condizioni di lavoro, provvedimenti adottabili con procedure di deliberazione a maggioranza qualificata, superando in tal modo il ricatto del veto da parte dei Paesi meno sensibili all’armonizzazione normativa “in una prospettiva di progresso” (secondo l’art. 118-A, par. 1). S’intensificavano intanto le attività di armonizzazione, coordinamento e convergenza dei sistemi nelle materie già di competenza della Comunità (libera circolazione delle persone, sicurezza sociale, parità tra lavoratori e lavoratici, formazione professionale). Queste politiche tuttavia, pur significative, non erano ritenute dal PE e dal Comitato economico e sociale, capaci di mitigare i negativi effetti sociali del grande mercato interno. Di queste posizioni prendeva atto il Consiglio europeo, che nel maggio del 1987 (sotto la Presidenza belga) rilanciava in un Memorandum la proposta, già avanzata su iniziativa della Francia in un analogo Memorandum del 1981, di dotare il sistema giuridico comunitario di un corpo di diritti sociali fondamentali che costituisse uno “zoccolo di diritti” comune a tutti gli Stati membri e vincolante le autorità nazionali. Il Memorandum belga non metteva in dubbio che i sistemi economici degli Stati membri, e quello della Comunità nel suo insieme, dovessero adattarsi alla realtà della concorrenza internazionale. Quel che invece metteva in dubbio era che tale adattamento (adaptabilité, nella versione francese) dovesse consistere “in una deregolamentazione sociale generale” prescindendo dal rispetto di alcuni diritti fondamentali.  Ad ogni buon conto, era necessario adottare nuovi metodi e nuove “misure” nel quadro della strategia di cooperazione per la crescita e l’occupazione definita dalla Commissione.

I redattori del Memorandum del 1981 erano consapevoli che alcuni Stati membri erano contrari all’adozione di un corpo di diritti e norme sociali giuridicamente vincolanti, manifestando invece una preferenza per regole di fonte collettiva. A tal fine, i redattori del suddetto Memorandum proponevano che gli Stati raggiungessero un accordo su uno “zoccolo di diritti sociali fondamentali”, che le Parti sociali avrebbero poi a loro volta assunto come “base duratura e comune sulla quale costruire la negoziazione collettiva”: un corpus di principi sociali fondamentali, insomma, ispirato ad analoghi principi enunciati da Organizzazioni internazionali come l’OIL e il Consiglio d’Europa, capace di resistere agli effetti della maggiore concorrenza e della più incisiva competitività suscitate dal grande mercato interno, e di contribuire alla creazione di uno “spazio giuridico” omogeneo nel territorio della Comunità.

La proposta (del Memorandum) di dotare l’ordinamento comunitario di un insieme organico di diritti sociali prevedeva l’adozione di un atto normativo (una direttiva-quadro), da approvare necessariamente col voto unanime degli Stati membri nel Consiglio, in quanto disciplinante materie fondate su basi giuridiche diverse e implicanti procedure decisionali differenti. La Commissione ed alcuni Stati membri si erano peraltro già espressi a favore dell’adozione di una “Carta dei diritti sociali”, in tal senso sostenuti dal PE e dal Comitato economico e sociale, oltre che da deliberazioni della Confederazione sindacale europea. Sennonché questa proposta fu bocciata dal veto del governo britannico, che in quell’occasione volle farsi interprete del dissenso delle associazioni datoriali nazionali e dell’Unice[31], in ciò sostenuto anche dai Paesi contrari a norme vincolanti in materia sociale. Di conseguenza, la proposta in questione non poté essere approvata come “atto normativo” comunitario.

Ciò malgrado, al Consiglio europeo di Strasburgo (8-9 dicembre 1989) undici Stati membri (cioè il “resto” della Comunità europea, come avrebbe detto Mrs. Thatcher) decisero di firmare la “Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali del lavoratori” adottandola come “dichiarazione solenne”, priva degli effetti giuridici che l’art. 189[32] del Trattato attribuiva agli atti normativi tipici.

Se le istituzioni comuni mostravano un apprezzabile dinamismo nel riconoscimento dei diritti sociali, alcuni Stati membri confermavano invece la loro ritrosia, che si traduceva nella paralisi di ogni decisione del Consiglio in materia, disattendendo le sollecitazioni del Parlamento europeo, a cominciare da quella contenuta nel “Progetto Spinelli” il cui art. 4, al co. 3 assegnava all’Unione un termine di cinque anni per deliberare sia l’adesione ai Patti di New York sia l’adozione di una propria Dichiarazione dei diritti fondamentali, comprensiva dei diritti sociali, come l’adesione ad entrambi i citati Patti lasciava intendere.

Il 12 aprile 1989 il PE votò una Risoluzione recante l’adozione di una “Dichiarazione dei diritti e delle libertà fondamentali”[33], che benché priva di valore normativo, aveva il merito di evidenziare l‘importanza dei diritti fondamentali dell’individuo nell’ambito della Comunità. La Dichiarazione incorporava i diritti civili e politici riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito CEDU), come il diritto di circolazione, di riunione, di associazione, di accesso alla giustizia e così via. Accanto a questi la Dichiarazione riconosceva alcuni diritti economici e sociali che non erano menzionati nella CEDU, aggiungendo anche il diritto all’elettorato attivo e passivo ed il diritto di petizione al Parlamento europeo.

Ad integrare l’opera di definizione di un catalogo dei diritti sociali e del lavoro intervenne infine il Consiglio che, come già anticipato, il 9 dicembre 1989 si pronunciò per l’adozione della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, la cui vicenda genetica si rivelò complessa, anche a causa dell’opting-out  [34] che il Regno Unito volle esercitare verso la Carta (e che revocò nel 1998).

Come già ricordato, l’opposizione del RU non riguardava soltanto il riconoscimento di diritti sociali a livello comunitario, ma, almeno fino alla fine degli anni Novanta, la più generale attribuzione alla Comunità di competenze in materia di politiche sociali. Ciò spiega perché a Maastricht (come si dirà di qui ad un momento) fu necessario far rifluire una parte del Capitolo sociale destinato al Trattato in un Protocollo ad esso allegato (il n. 14: “Accordo sulla politica sociale”), rispetto al quale il RU decise di non aderire. Si aggiunga che il RU contestava il fatto che il cit. art. 118-A del Trattato CE potesse costituire la base giuridica dell’attribuzione al Consiglio di decisioni in materia di Politica sociale concernenti l’organizzazione dell’orario di lavoro (e tuttavia soccombendo nella causa C-84/94, Regno Unito c. Consiglio).

La Carta comunitaria, insieme alla cit. Dichiarazione, rappresentava comunque un precedente di assoluto rilievo politico. Essa enunciava i principi generali e i valori su cui si basava il “modello europeo” di diritto del lavoro. Essa aveva (ed ha) per oggetto: la libera circolazione dei lavoratori, l’occupazione e le retribuzioni, il miglioramento delle condizioni di lavoro, la protezione sociale, la libertà d’associazione e la contrattazione collettiva, la formazione professionale, la parità di trattamento tra uomini e donne, l’informazione, la consultazione e la partecipazione dei lavoratori, la protezione della sicurezza e sicurezza sul luogo di lavoro, la protezione dei bambini, degli adolescenti, degli anziani e delle persone disabili.

I diritti sociali enunciati nella Carta comunitaria costituivano una base di principi comuni a tutti gli Stati membri dell’Unione postulando la garanzia in ambito europeo di uno zoccolo di diritti fondamentali, inteso come elemento qualificante dell’Europa sociale. La Carta comunitaria segnava un punto di svolta nella parte in cui prevedeva il diritto di aderire o non aderire ad organizzazioni sindacali (punto 5), il diritto alla contrattazione collettiva nell’ambito del dialogo sociale con particolare riferimento al livello “interprofessionale e settoriale” (punto 6), e laddove stabiliva, principi in materia di informazione e consultazione  (punti 17 e 18). I contratti collettivi venivano considerati strumenti di attuazione della Carta (punto 27), e veniva ad essi riconosciuta, seppur implicitamente, una funzione normativa, ovviamente condizionata dall’efficacia soggettiva da essi posseduta nei singoli ordinamenti[35]. Le organizzazioni sindacali, in quanto portatrici di interessi generali, venivano in tal modo ammesse a partecipare ai processi normativi, seppure senza l’indicazione di alcun elemento essenziale quanto a criteri di rappresentatività, democrazia interna, tutela della libertà negativa (in ragione della riserva statale di competenza sul diritto di associazione).

Sullo sfondo stava un’esigenza di “funzionalizzazione” dell’autonomia collettiva, costituendo la contrattazione collettiva uno strumento più duttile e adattabile della norma di legge, al fine di adeguare il sistema produttivo alle variabili economiche[36].

Complesso è stato il dibattito sulla forza giuridica della Carta comunitaria. Punto di partenza era il rilievo che la Carta non potesse considerarsi un’elencazione di principi morali priva di conseguenze, considerando che i valori che essa esprimeva erano unanimemente condivisi all’interno degli Stati membri e che la loro proclamazione in un documento scritto, solenne ed ufficiale, benché all’inizio non condiviso dal Governo britannico, costituiva un passo decisivo nella direzione di creare nei lavoratori (e nei cittadini) dell’UE la consapevolezza di una comune identità sociale, più chiara rispetto a precedenti testi e documenti superando l’originario silenzio dei Trattati in tema di diritti sociali fondamentali. Questo risultato non veniva perseguito mediante l’adozione di una nuova tutela comunitaria dei diritti sociali fondamentali ma attraverso la “normalizzazione” e la formalizzazione di una realtà già radicata nella cultura giuridica dell’Unione europea, dando un valore unitario alla sparsa legislazione comunitaria intervenuta su tali diritti e alla giurisprudenza pretoria della Corte di Giustizia sugli stessi temi.

Benché priva di valore normativo, la Carta comunitaria ha esercitato nel corso degli anni Novanta una “forza attrattiva” sull’attività della Commissione, a partire dal “Programma sociale” del 1989 (contenente varie proposte di direttiva basate sugli artt. 110-A e 118-A, da approvare con deliberazioni a maggioranza qualificata), aderendo ad una interpretazione sistematico-evolutiva del Trattato favorevole al “progresso sociale”.

Procedendo sulla via della Carta comunitaria, subito dopo la firma del Trattato di Maastricht, la Commissione ha inteso coinvolgere le Parti sociali, attraverso i moduli della “sussidiarietà orizzontale”, tanto nella produzione di “leggi europee” quanto nella recezione delle direttive negli ordinamenti interni, ciò al fine di garantire un’attuazione più efficace del diritto derivato.

Alla Carta comunitaria ha fatto espresso riferimento il Trattato di Lisbona. L’art. 151 del TFUE afferma infatti che “l’Unione e gli Stati membri”, nell’adottare provvedimenti in materia sociale, devono “tener presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989”. Ai diritti affermati “dalle carte sociali adottate dall’Unione”, e quindi anche alla Carta comunitaria, fa a sua volta riferimento il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (infra par. 6.2.).

5. (Segue).La fase dell’integrazione sociale differenziata:1989-1991: b) Il Protocollo e l’Accordo sulla Politica Sociale. La politica sociale “a due vie”.

5.1. Come già anticipato, nella Conferenza intergovernativa del 1991 il governo conservatore britannico confermava la sua opposizione alla costruzione di un autentico spazio sociale europeo. Di conseguenza poneva il veto alle proposte della Commissione -sostenute dal PE e dalle precedenti Presidenze di turno- di ampliare le competenze comunitarie in materia sociale e di estendere le procedure di deliberazione a maggioranza, e bocciava anche la prospettiva di un ruolo più incisivo della contrattazione collettiva e del dialogo sociale in ambito comunitario. Di converso, la Commissione e vari Stati membri (tra cui l’Italia) ritenevano necessario eliminare lo “squilibrio” tra Europa economica ed Europa sociale, divenuto “intollerabile” (com’ebbe a dire il presidente della Commissione, Jacques Delors) nella prospettiva di un’integrazione europea necessariamente più avanzata sul piano economico e politico e aperta ai Paesi dell’Europa centro-orientale[37].  i cui ordinamenti denunciavano un grave deficit nelle tutele individuali e collettive dei lavoratori. Il veto britannico costrinse gli altri Stati a ripiegare su una soluzione di compromesso (presentata da Delors e dal primo ministro olandese Lubbers). In un Protocollo sulla Politica sociale (Pps) allegato al Trattato, i dodici Stati membri constatavano che undici Stati (i dodici Stati membri meno il RU) desideravano proseguire sulla via tracciata dalla Carta comunitaria; che questi undici Stati avevano raggiunto a tal fine un accordo sulla Politica sociale (Aps); che tale accordo era allegato al Protocollo; che il Protocollo e l’Accordo lasciavano impregiudicate le disposizioni del Trattato, segnatamente quelle sulla politica sociale che costituivano parte integrante dell’acquis comunitario. Tutto ciò “constatato”, i dodici Stati membri convenivano di “autorizzare detti undici Stati membri a fare ricorso alle istituzioni; alle procedure e ai meccanismi del trattato allo scopo di prendere tra loro ed applicare, per quanto li riguarda, gli atti e le misure necessarie per rendere effettivo il suddetto accordo”[38].

L’Aps era la trasposizione quasi letterale di una Dichiarazione comune sottoscritta nell’ambito del Dialogo sociale da Ces, Unice e Ceep (il 31 ottobre 1991) a conclusione di un difficile negoziato avviato su iniziativa della Commissione nel febbraio di quello stesso anno, con l’obiettivo di portare all’atto finale della Conferenza intergovernativa una posizione comune delle Parti sociali favorevole al rafforzamento del Dialogo sociale ed al riconoscimento del contratto collettivo come fonte normativa in ambito comunitario. Nella Dichiarazione comune, firmata anche dalla Confederation of British Industry, che presumibilmente confidava nel veto del Premier Major al prossimo Consiglio europeo di Maastricht, trovavano (momentaneo) accordo due posizioni “storicamente” divergenti: quella dell’Unice (oggi Business Europe), contraria ad un’evoluzione istituzionale della Politica sociale e favorevole invece alla”via negoziale” piuttosto che all’intervento legislativo, e quella della Confederazione europea dei sindacati (CES) che, nel suo Congresso di Lussemburgo (maggio 1991), si era dichiarata invece favorevole ad una più incisiva attività normativa delle istituzioni (con particolare riferimento ai diritti fondamentali dei lavoratori), ritenuta “necessaria per rafforzare il dialogo sociale e costruire un autentico spazio sociale europeo”.

5.2. L’Aps vincolava al suo rispetto tutti gli Stati membri (tranne il RU, grazie ad un’apposita clausola di esenzione) riconoscendo alle Parti sociali un ruolo più puntuale nella definizione delle politiche sociali europee. Come anticipato, l’Aps assorbiva quasi integralmente l’accordo stipulato da Ces, Unice e Ceep il 31 ottobre del 1991[39].

L’Aps recava innovazioni di rilievo nella Politica sociale. In primo luogo, ispirandosi alla Carta comunitaria, conferiva alla Comunità europea nuove competenze sociali, prevedendo anche procedure di deliberazione a maggioranza qualificata, seppur con riferimento agli undici Stati firmatari. In secondo luogo, abilitava l’autonomia collettiva a concorrere alla formazione di direttive comunitarie in materia sociale e alla trasposizione degli atti normativi comunitari negli ordinamenti interni (artt. 3 e 4). Il RU, non partecipando alle deliberazioni del Consiglio sulle proposte presentate dalla Commissione in base all’Aps, non era obbligato a recepire le direttive adottate “a undici” Stati con le speciali procedure su menzionate e non doveva sopportare i corrispondenti oneri finanziari ed amministrativi.

L’evoluzione della Politica sociale, e con essa l’applicazione del diritto comunitario del lavoro, procedeva quindi in modo differenziato col “salvacondotto” del Protocollo e dell’Accordo sulla politica sociale. Questa necessaria soluzione di compromesso consentiva di evitare una pericolosa impasse dell’Europa sociale, pur suscitando questioni giuridiche ed istituzionali di non poco conto[40]. L’applicazione differenziata della Politica (e della legislazione) sociale comunitaria non era peraltro un fatto inedito nel diritto comunitario, che nel suo percorso evolutivo era inciso da clausole di esenzione e moduli di “cooperazione rafforzata”.

Il Pps legittimava una politica legislativa “a due vie”: a) una “a dodici” Stati, valida dunque per tutti gli Stati membri, fondata sulle poche basi giuridiche del Trattato (ma nel rispetto dell’acquis comunitario) e attivata mediante direttive emanate per lo più con deliberazioni all’unanimità; b) l’altra (“a undici” Stati), valida per tutti i Paesi della Comunità tranne il RU, fondata su uno spettro più ampio di basi giuridiche, con una più estesa previsione di procedure di voto a maggioranza qualificata, ed attivata da meccanismi di reciproca integrazione e rinvio tra fonte legislativa e fonte collettiva[41]. Il limite più evidente del ricorso a questo metodo, stava nel fatto che esso si inseriva in un sistema giuridico, come quello sociale e del lavoro europeo, ancora povero di principi comuni e intessuto di tensioni verso la competizione dei modelli e la differenziazione delle tutele tra i vari Paesi, a scapito della coerenza dei modelli e della coesione giuridica necessarie a rafforzare il modello sociale europeo.

5.3. Malgrado le posizioni critiche e le opposizioni politiche cui s’è fatto cenno, il Trattato di Maastricht ha rappresentato un importante snodo istituzionale, rilevante nella politica sociale, se solo si pensa all’ampliamento delle competenze comunitarie in tale materia. Giova ricordare che gli Undici Stati membri firmatari dell’Accordo sulla Politica sociale allegato al menzionato Protocollo n. 14 si ritenevano vincolati da questa fonte, come se si trattasse di norme del Trattato CE. L’Accordo sulla politica sociale ampliava il campo dell’azione comunitaria in ambito sociale inserendo tra i “settori” l’informazione e la consultazione dei lavoratori, la parità uomo-donna, l’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro: in questi settori, e soprattutto nell’ambito della fissazione delle condizioni di lavoro, il Consiglio deliberava a maggioranza qualificata degli Stati firmatari; in tutti gli altri settori (ad esempio le condizioni di lavoro dei cittadini dei paesi terzi) era invece richiesta l’unanimità. Restavano esclusi la retribuzione e il diritto sindacale. Quanto, invece, al riconoscimento dei diritti sociali, fatte salve le norme sull’istruzione e la sanità (articoli 16 e 129), il Trattato si limitava a richiamare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. F, comma 2), in tal modo denunciando una diversità di  approccio rispetto ai diritti di libertà.

6. Conclusioni. Il passaggio al nuovo secolo tra progetto e disincanto: l’adozione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’incompiuta fase “costituzionale.

6.1.L’evoluzione della Politica sociale nella seconda metà degli anni Novanta avvenne sotto il segno del Tory sconfitto dal New Labour di Tony Blair alle elezioni politiche del maggio 1997, e poi sotto il segno dei gemelli francesi Chirac (presidente della Repubblica) e Jospin (primo ministro), che ambivano a restituire alla Francia un ruolo di primo piano nel governo della Comunità/Unione. Con l’avvento del New Labour, il governo britannico mutò il negativo atteggiamento verso la politica comunitaria convertendosi -almeno in una prima fase- in un attore collaborativo anche nella Politica sociale. Grazie alla revoca da parte del RU dell’opting out in materia sociale, che il Governo britannico aveva ottenuto a Maastricht, fu  possibile formalizzare nel Trattato di Amsterdam (e poi in quello di Nizza) le innovazioni introdotte solo per undici Stati con il Protocollo e l’Accordo sulla politica sociale, estendendole a tutti gli Stati membri, conferendo in tal modo al legislatore comunitario il potere di adottare nuove direttive per la tutela dei lavoratori e dei cittadini europei.

In particolare, il Trattato di Amsterdam intervenne nella materia dei diritti sociali fondamentali e dell’occupazione, con un Titolo apposito; in particolare, conferì una formale competenza concorrente alla Comunità su un ampio spettro di materie, molte delle quali attribuite in precedenza alla competenza degli Stati membri. Le innovazioni introdotte, lette inizialmente come poco rilevanti se non addirittura negative[42], si rivelarono invece importanti per lo sviluppo della dimensione sociale dell’UE (soprattutto alla luce del programmato allargamento della Unione europea a vari Paesi dell’Europa centro-orientale[43]) grazie anche all’estensione delle procedure deliberative a maggioranza qualificata nel Consiglio e ad un (primo) rafforzamento dei poteri PE nel processo decisionale[44]. Tuttavia, la trasposizione quasi integrale dell’Accordo sulla politica sociale nel Trattato, senza le addizioni e le compensazioni necessarie a coordinarne il testo con quello complessivo del Trattato, produsse lacune e antinomie che sono sopravvissute nei trattati di Nizza e di Lisbona, sommandosi alle precedenti.

6.2. Il secondo semestre del 2000 era considerato una tappa fondamentale dell’integrazione europea. Di ciò era consapevole il governo francese, che subentrava nella presidenza di turno con la cennata ambizione di leadership nell’Unione. La Francia sosteneva il processo di riforme istituzionali avviato al Consiglio di Amsterdam, nella prospettiva dell’adesione di nuovi dodici Stati all’UE. A tal fine si adoperava per l’approvazione di una Carta europea dei diritti fondamentali, intesa come parte del processo costituzionale dell’UE[45], alla cui stesura era già intenta un’apposita Convenzione. La Carta, presentata al Vertice di Biarritz nell’ottobre del 2000, fu firmata due mesi dopo (al Consiglio di Nizza)[46] da tutti gli Stati membri, anche se come Dichiarazione solenne. Quanto alle riforme istituzionali, concernenti in particolare il maggior ruolo del PE nel processo decisionale e il minor peso delle deliberazioni all’unanimità, il Consiglio europeo non produsse risultati soddisfacenti. Fu solo approvata una Dichiarazione che annunciava una prossima Conferenza intergovernativa per la riforma dei trattati, da far precedere da “un largo dibattito fra tutte le parti interessate” per proseguire verso il processo costituente dell’Unione, “benedetto” dalla Dichiarazione di Laeken (dicembre 2001).

L’epilogo della fase costituente è noto; in seguito alla mancata ratifica del Trattato costituzionale del 2004, e dopo un “periodo di riflessione” necessario ad individuare idonee soluzioni dell’Eurocrisi, gli Stati membri concordarono un nuovo testo di Trattato che, approvato al Consiglio di Lisbona (dicembre 2007), fu ratificato solo due anni dopo.

6.3. Le modifiche delle disposizioni sociali del Trattato introdotte a Maastricht con il saggio espediente dell’Accordo sulla Politica sociale (Aps) hanno consentito l’adozione di vari provvedimenti in materia di lavoro. Oltre alle direttive (che modificano precedenti atti legislativi) sulla tutela dei lavoratori interessati da trasformazioni e crisi d’impresa, e le numerose direttive in materia di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro, giova qui ricordare le direttive frutto del dialogo sociale in quanto recettive di accordi quadro in ambito europeo. Il riferimento è in particolare alla Dir. n. 96/34, “concernente l’accordo quadro sul congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES); alla Dir. n. 97/81 “relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES”, e alla Dir. n. 99/70 “relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinate”. Di uguale interesse ed importanza sono, in questa fase, le direttive anti discriminatorie, queste ultime adottate sulla base dell’incorporazione dell’Aps nel Trattato di Amsterdam. Oltre alle direttive che attuano il principio della parità di trattamento tra uomini e donne, sul piano delle condizioni di lavoro in generale e non solo su quello retributive e previdenziale, meritano un cenno particolare la Dir. n. 2000/43, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, e la Dir. n. 2000/78, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; trattasi di provvedimenti di grande rilevanza costruiti con struttura e contenuti simili, salvo che per la specificazione dei motivi discriminatori vietati e sanzionati.


[1] Saggio destinato al Liber Amicorum  Giuseppe Casale.

Il tema del Dialogo sociale è caro a Giuseppe Casale, per molti anni “Chief of the Social Dialogue, Labour Legislation and Labour Administration Branch”, presso  l’ILO, a Ginevra. Importante è stata, con rifermento al processo di allargamento dell’UE, l’attività svolta dal 1995 al 2000 da Giuseppe Casale presso l’Ufficio ILO di  Budapest, nell’ambito dell’assistenza tecnica ai Paesi dell’Europa  centro-orientale  candidati ad entrare nell’UE.

[2] La Presidente della Commissione aveva annunciato il Vertice nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2023, sottolineando che “il futuro dell’Europa sarà costruito con e dalle nostre parti sociali“. Del resto, il dialogo sociale è un elemento integrante del modello sociale europeo, sancito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, oltre che un principio chiave del Pilastro europeo dei diritti sociali. Un anno prima, il 25 gennaio 2023, la Commissione aveva indirizzato una “Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni”, dal titolo “rafforzare il dialogo sociale nell’unione europea: sfruttarne appieno il potenziale per gestire transizioni eque” [COM(2023) 40 final]. A iniziativa della Commissione aveva fatto seguito la Raccomandazione del Consiglio, del 12 giugno 2023, “sul rafforzamento del dialogo sociale nell’Unione europea” (C/2023/1389).

[3] Segnatamente: la Presidente della Commissione, il Primo Ministro belga, il Vice-Presidente della Commissione Schinas, il Commissario UE per il Lavoro e i diritti sociali, i Rappresentanti di CES, Business Europe, SME United (Unione Europea dell’artigianato e delle piccole imprese) e SGI Europe (Centro europeo dei datori di lavoro e delle imprese o organizzazioni che offrono servizi di interesse generale).

[4] Cit. in nota 1.

[5] Il concetto di modello sociale europeo, che comprende la garanzia, “per quanto imperfetta e sottoposta nel presente a pressioni limitative provenienti dalle dinamiche di mercato, dei diritti sociali –dalla salute e dall’istruzione pubblica, sino ai diritti del lavoro [l’uso del plurale fa ritenere compresi anche i diritti collettivi e pertanto il ruolo centrale dell’autonomia collettiva, così come riconosciuto dalla Carta di Nizza]–, continua a denotare la realtà dell’Unione Europea, marcandone una radicale differenza rispetto a quanto accade altrove (cfr. G. Arrigo, Diritto del lavoro dell’Unione europea. Parte generale. PM Edizioni, 2018, p. 173).

[6] Glasnost, perestrojka e uskorenie, dovevano, secondo Gorbaciov, rendere l’Unione Sovietica più trasparente, moderna e competitiva, per avvicinarsi al mercato e alla comunità internazionale,

[7] Le cause della crisi del sistema sovietico venivano da lontano e risiedevano  sia nell’ambito economico sia in quello politico e sociale. La disintegrazione dell’URSS fu in realtà il prodotto di un deterioramento dei meccanismi economici in una cornice di progressiva messa in discussione del sistema politico vigente, rafforzata dal clima di timide riforme rese possibili dalla perestroika e dalla politica di trasparenza informativa frutto della glasnost. Il fallito colpo di stato aveva tuttavia accelerato in qualche modo la disgregazione dell’Unione Sovietica. Gli stati baltici avevano già dichiarato l’indipendenza e Boris El’zin, all’epoca presidente della Repubblica Russa, col favore del momento spingeva per l’istituzione di una Federazione russa indipendente. Il29 agosto 1991 sospese l’attività del Partito Comunista. L’8 dicembre 1991 il presidente ucraino L. Kravciuk, insieme al presidente russo B. El’zin e a quello bielorusso S. Šuškevič, firmavano una dichiarazione con la quale si prendeva atto che “l’Unione sovietica quale soggetto di diritto internazionale e quale realtà geopolitica” aveva cessato di esistere. Il 26 dicembre, Eltsin e i capi di stato delle altre Repubbliche sovietiche si riunirono ad Almaty, in Kazakistan, per completare la separazione, sancendo di fatto la fine dell’Urss. Il 25 dicembre Gorbaciov si dimise e dichiarò abolito l’ufficio della presidenza Infine, il 26 dicembre, il Soviet Supremo riconobbe formalmente la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

[8] Parlamento Europeo, Risoluzione del 23 novembre 1989.

[9] Così J.Delors, nelle pagine introduttive alla “Carta Comunitaria dei Diritti Sociali Fondamentali dei Lavoratori”, Commissione delle comunità europee, Lussemburgo, 1990., p. 3.

[10] Ma entrato in vigore, per talune difficoltà sopravvenute nel corso delle procedure nazionali di ratifica, solo il 1° novembre del 1993.

[11] Il riferimento era in realtà non alla “Carta sociale del Consiglio d’Europa”, ma alla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori.

[12] Su cui  infra, par. 5.

[13] Cfr.. G.Garavini, Dopo gli Imperi. L’integrazione europea nello scontro NordSud,  Firenze, Le Monnier, 2009, p. 359; S. Fabbrini, Integrazione europea e interesse nazionale, Gnosis, XIX, no.2, 2013, p. 60.

[14] Se una virtù del Trattato di Maastricht è stata l’integrazione monetaria, il suo grande vizio è stato il dogmatismo dei parametri (contrastato da Guido Carli, allora principale negoziatore per l’Italia). Il risultato è stata l’istituzionalizzazione di un’Eurozona basata sulla centralizzazione amministrativa, “taglia unica per misure diverse”. Sul punto si v, ex plurimis,  G.Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, 1993; F. Saitto, Per una critica della “Costituzione economica” nel prisma delle trasformazioni della democrazia rappresentativa, in DPCE online, n. 1/2020, 385 ss;.

[15] Cfr. gli articoli 2 e 117.2 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea.

[16]Oggi: discriminazioni per motivi di sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere. 

[17]Come noto, la discriminazione salariale “in base al sesso”, insieme a quella basata sulla nazionalità, ha costituito il primo nucleo del diritto antidiscriminatorio europeo.

[18] In base all’art.118B, aggiunto all’art.118-A, nell’AUE,  la Commissione aveva il compito di “sviluppare a livello europeo un dialogo tra le parti sociali” che poteva “sfociare, se esse” lo ritenevano “opportuno, in relazioni convenzionali”. A sua volta, l’art. 118 menzionava solo incidentalmente “il diritto sindacale e le trattative collettive tra datori di lavoro e lavoratori” su cui la Commissione doveva “promuovere una stretta collaborazione tra gli Stati membri”, finalizzata peraltro a “studi e pareri” (previa consultazione del CESE) e a “consultazioni, sia per i problemi che si presentano sul piano sociale, che per quelli che interessano le organizzazioni internazionali”.

[19]Commissione delle Comunità Europee, 14 dicembre 1993, Comunicazione al Consiglio e al PE sull’attuazione del Protocollo sulla politica sociale [COM (93) 600 final].

[20] Il castello di Val Duchesse (a Bruxelles) aveva ospitato i negoziati per la costruzione dell’Europa e, nel 1956, la Conferenza intergovernativa (guidata da Henri Spaak) che preparò il Trattato CEE e il trattato Euratom..

[21] Cfr. Commissione, Dialogo sociale europeo. I Pareri comuni, Collana documenti, 1991.

[22] Si v. la “Dichiarazione comune dei segretari europei dell’Unice, del Ceep e della Ces”, in Commissione, ibidem.. 

[23] In seguito corretta in “relazioni contrattuali”: si v. l’art. 155,1, TFUE.

[24] Come dirà la Commissione dopo Maastricht; cfr. Commissione, Comunicazione al Consiglio sul principio di sussidiarietà,1992, p. 9 [SEC (92) def]).

[25]E.Vogel-Polsky, J.Vogel, “L’Europe sociale: Illusion, Alibi ou Réalité?”. ,Editions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles, 1991, p. 133.

[26]G.Arrigo, op.cit., p. 163.

[27]G. Caire,“L’espace social européenen Europe: le défi social”, EditionsCiaco, Bruxelles, 1989, p. 2.

[28] Cfr., sul punto, F. Guarriello, “Commento all’art. 118B”, in “Commentario breve alle leggi sul lavoro” (diretto da Grandi, Pera), Cedam, Padova, p. 197 e ss.

[29] L.Bellardi,  “Concertazione e contrattazione. Soggetti, poteri e dinamiche regolative”, Cacucci, Bari, 1999, p. 101.

[30] A..Ojeda Avilés, “Subsidiariedad y competencias concurrentes en el Derecho Social Comunitario”, Relaciones Laborales, I, 1994, p. 1377 e s..

[31] Oggi Business Europe (Confederation of European Business).

[32] Ora art. 288, TFUE.

[33]Parlamento europeo, Risoluzione recante l’adozione della Dichiarazione dei diritti e delle liberta fondamentali,  12 Aprile 1989, doc. A 2-3/89.

[34] Con tale termine s’intende la non applicabilità a determinati Stati di una specifica serie di norme del diritto dell’Unione, che usualmente vengono indicate in protocolli ad hoc. Queste esenzioni hanno attenuato il carattere inizialmente proprio delle regole comunitarie di essere applicate in modo uniforme. Ciò si è reso necessario per venire incontro a particolari esigenze che nei negoziati per gli allargamenti è stato chiesto e ottenuto di vedere soddisfatte da parte di alcuni membri, denominati per l’appunto “Stati opting-out”.

[35] Si v. G. Fontana, Libertà sindacale in Italia e in Europa. Dai principi ai conflitti, in “Biblioteca 20 Maggio”,1/2010,  p. 246.

[36]  Ibidem

[37] J. Delors, “Le nouveau concert européen”, Paris, Éditions Odile Jacob,1992.

[38] Protocollo (n. 14) sulla Politica sociale. “Le Alte Parti Contraenti, constatando che undici Stati membri, ossia il Regno del Belgio, il Regno di Danimarca, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica ellenica, Il Regno di Spagna, la Repubblica francese, l’Irlanda, la Repubblica italiana, il Granducato del Lussemburgo, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica portoghese, desiderano proseguire sulla via tracciata dalla Carta sociale del 1989 ; che essi hanno raggiunto tra loro un accordo a tal fine ; che tale accordo è allegato al presente protocollo; che il presente protocollo e il suddetto accordo lasciano impregiudicate le disposizioni del trattato, segnatamente quelle che trattano della politica sociale che costituiscono parte integrante dell’acquis communautaire…, 1 ) Convengono di autorizzare detti undici Stati membri a fare ricorso alle istituzioni, alle procedure e ai meccanismi del trattato allo scopo di prendere tra loro ed applicare, per quanto li riguarda, gli atti e le decisioni necessarie per rendere effettivo il suddetto accordo”.

[39] Questo accordo, stipulato a latere della Conferenza intergovernativa del 1991 e ad essa indirizzato, mirava ad una più stretta partecipazione delle Organizzazioni sindacali alle decisioni sulla “Politica sociale”..

[40]T.Treu, “L’Europa sociale: dall’ Atto unico a Maastricht”, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 10/1991, p. 9 e s.; Id., “Il diritto del lavoro e le armonizzazioni difficili”, in Lavoro e Diritto, 1993, p. 7 e s.

[41]M. D’Antona, “Armonizzazione del diritto del lavoro e federalismo nell’Unione Europea”, in Rivista trimestrale  di diritto e procedura civile, n. 3/1994, p. 695 e ss.

[42] Si v. R. Blanplain., Il Trattato di Amsterdam e oltre: la fine del modello sociale europeo?, in Diritto delle Relazioni Industriali, p. 18 e s..

[43] G.Casale, Social Dialogue in Central and Eastern Europe”, ILO, Budapest, 1999; Id. Tripartism and Social Dialogue, ILO, Budapest, 1997..

[44]M. Roccella, “Tutela del lavoro e ragioni di mercato nella giurisprudenza recente della Corte di Giustizia”, Giornale di dir. del lavoro e di rel. industriali, 1999, p. 33 e ss..

[45] B.Veneziani, The need for fundamental social rights, in “Manifesto Social Europe”  (a cura di Mückenberger), Etui, Bruxelles, 2001, p. 177 e s..

[46] Insieme all’accordo sulla Carta di Nizza fu raggiunto quello sullo Statuto di Società europea (SE)- comprensivo della Dir. n. 2001/86, sul coinvolgimento dei lavoratori nella SE-, il cui progetto originario risaliva ai primi anni Settanta.