(Studio legale G.Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

1.La Corte costituzionale (sentenza n. 22 del 2024, del 22 Febbraio 2024) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, primo comma, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alla parola “espressamente”.

La suddetta disposizione è stata ritenuta illegittima nella parte in cui, nel riconoscere la tutela reintegratoria, nei casi di nullità, previsti dalla legge, del licenziamento di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), l’ha limitata alle nullità sancite “espressamente”.Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata, limitatamente alla parola “espressamente”, consegue che il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra l’espressa sanzione della nullità, sia che ciò non sia testualmente previsto, sempre che risulti prescritto un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.

La Corte di cassazione rimettente, nel sollevare la questione, aveva censurato tale limitazione, in riferimento all’articolo 76 della Costituzione, per violazione del criterio di delega fissato dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act), deducendo che l’esclusione delle nullità, diverse da quelle «espresse», non trovasse rispondenza nella legge di delega, la quale riconosceva la tutela reintegratoria nei casi di “licenziamenti nulli” senza distinzione alcuna.

La Corte costituzionale ha ritenuto fondata tale censura, osservando in particolare che il criterio direttivo, nella parte rilevante in proposito, aveva segnato il perimetro della tutela reintegratoria del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, escludendola, in negativo, per i licenziamenti “economici”, e prevedendola, in positivo, nei casi di licenziamenti nulli, discriminatori e di specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare.

La Corte ha sottolineato che il testuale riferimento ai “licenziamenti nulli”, contenuto nel criterio direttivo, non prevedeva – e non consentiva quindi – la distinzione tra nullità espresse e nullità non espresse, ma contemplava una distinzione soltanto per i licenziamenti disciplinari ingiustificati.

Il legislatore delegato, al contrario, ha introdotto una distinzione non solo per questi ultimi, ma anche nell’ambito dei casi di nullità previsti dalla legge, differenziando secondo il carattere espresso (e quindi testuale), o no, della nullità. Inoltre, prevedendo la tutela reintegratoria solo nei casi di nullità espressa, ha lasciato prive di specifica disciplina le fattispecie “escluse”, ossia quelle di licenziamenti nulli sì, per violazione di norme imperative, ma privi della espressa sanzione della nullità, così dettando una disciplina incompleta e incoerente rispetto al disegno del legislatore delegante.

Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata, limitatamente alla parola “espressamente”, consegue che il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra l’espressa sanzione della nullità, sia che ciò non sia testualmente previsto, sempre che risulti prescritto un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.

2. ” […] CORTE COSTITUZIONALE

[…] SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra L. S. e C. N. srl, con ordinanza del 7 aprile 2023, iscritta al n. 83 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti l’atto di costituzione di L. S., nonché gli atti di intervento di T. spa e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 23 gennaio 2024 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

uditi gli avvocati Sandro Mainardi per T. spa, Marco Lovo per L. S. e l’avvocato dello Stato Roberta Guizzi per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 23 gennaio 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 7 aprile 2023 (reg. ord. n. 83 del 2023) la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), censurato per difformità rispetto al criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro).

1.1.– La Corte rimettente riferisce di dover decidere il ricorso avverso la sentenza di appello che, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, aveva dichiarato la nullità del licenziamento disciplinare/destituzione, comunicato al lavoratore in data 5 ottobre 2018, per violazione degli artt. 53 e 54 dell’Allegato A al regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148 (Coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione), e, previa dichiarazione di estinzione del rapporto di lavoro intercorso tra il ricorrente e la C. N. srl, società esercente il servizio di trasporto pubblico urbano, aveva condannato la datrice di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR), facendo applicazione della tutela economica prevista dall’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.

1.2.– Il giudizio principale risulta promosso da un dipendente che, assunto con mansioni di autista in data successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 (7 marzo 2015), all’esito di una contestazione disciplinare seguita, nonostante le giustificazioni rese, dalla comunicazione dell’opinamento alla destituzione, ai sensi della normativa speciale prevista per gli autoferrotranvieri dall’art. 53, terzo comma, dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, aveva chiesto di essere nuovamente sentito a propria difesa, e che, come previsto in caso di conferma dell’opinamento, sulle sanzioni di competenza del Consiglio di disciplina (d’ora in poi: CdD), si pronunciasse il Consiglio stesso, ai sensi del nono comma dell’art. 53 citato. In assenza dell’istituzione del CdD, l’Azienda aveva comunicato il provvedimento disciplinare di destituzione, tempestivamente impugnato in giudizio al fine di veder accertata la nullità del licenziamento per contrarietà alle norme imperative in materia di procedure per l’irrogazione di sanzioni disciplinari, ovvero perché di natura discriminatoria, con conseguente condanna della società convenuta alla reintegra ed al risarcimento del danno.

1.3.– La Corte d’appello di Firenze – dato atto che nonostante la tempestiva richiesta del lavoratore, ai sensi della normativa speciale per gli autoferrotranvieri, il CdD non era stato costituito; che la Regione non aveva indicato il proprio rappresentante nel CdD; che la sanzione espulsiva era stata adottata dal medesimo amministratore delegato, il quale aveva proceduto alla contestazione disciplinare – aveva configurato la violazione di una forma di garanzia procedurale ulteriore e speciale rispetto a quella di cui all’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), e dichiarato la nullità del procedimento disciplinare e della conseguente sanzione, in quanto la potestà punitiva era stata esercitata dal datore di lavoro ormai privato di tale facoltà in conseguenza dell’obbligatoria devoluzione della decisione in capo al CdD.

La stessa Corte d’appello aveva, tuttavia, escluso che l’ipotesi sottoposta al suo esame rientrasse nella disciplina di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, che riservava la sanzione della reintegra al licenziamento discriminatorio o «riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge», poiché in questo caso, esclusa la discriminazione, la nullità, pur sussistente in conformità dell’univoco orientamento della giurisprudenza di legittimità, non risultava espressa, bensì riconducibile a categorie di ordine generale; optava quindi per la tutela indennitaria ex art. 3 dello stesso decreto legislativo.

1.4.– La sentenza era impugnata in cassazione da entrambe le parti.

La parte ricorrente aveva censurato come erronea l’interpretazione della Corte di merito secondo cui la tutela reintegratoria fosse applicabile soltanto ai casi di nullità espressa, e non a tutti i casi di nullità, anche derivanti, come nella specie, dall’art. 1418 del codice civile, sia sotto il profilo dell’eccesso di delega che della illogicità e incoerenza dell’enfatizzazione dell’avverbio «espressamente»; il datore di lavoro, ricorrente in via incidentale, aveva, invece, dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 53 e 54 dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, perché l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, in fatto sospeso per l’inerzia dell’organo amministrativo (Regione Toscana) nella nomina del proprio rappresentante nel CdD, sarebbe dovuto prevalere sulle garanzie di difesa del lavoratore secondo un criterio di proporzionalità.

1.5.– In termini di rilevanza, la Corte rimettente premette che, secondo un consolidato diritto vivente, nel caso in cui il dipendente autoferrotranviario, a seguito dell’opinamento di destituzione, invochi la pronuncia del CdD, nella persistente vigenza di una disciplina di maggior tutela rispetto a quella generale prevista dallo statuto lavoratori, rimane irrilevante il fatto che gli enti competenti non abbiano esercitato il potere di nomina dei componenti di quell’organo, prevedendo, l’art. 53 dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, una procedura inderogabile articolata in più fasi, ove l’omissione di una sola di esse determina la nullità della sanzione disciplinare che, in relazione al tipo di violazione, rientra nella categoria delle nullità di protezione in quanto fondata sullo scopo di tutela del contraente debole del rapporto.

Tale violazione – prosegue il giudice a quo – non sarebbe assimilabile a quelle procedurali di cui all’art. 18, sesto comma, dello Statuto dei lavoratori, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), poiché l’adozione della sanzione della destituzione da parte del datore di lavoro che, in caso di opzione del lavoratore per l’intervento del CdD, è privato del potere sanzionatorio, deferito ex lege al CdD stesso, costituisce una violazione a monte della procedura, per deviazione dell’esercizio del potere in materia, devoluto ad un organo terzo anziché alla parte datoriale, comparabile a quella di un licenziamento a non domino, riconducibile al regime generale delle nullità, disciplinato dall’art. 1418 e seguenti cod. civ., integrando l’ipotesi di nullità per contrarietà a norma imperativa.

1.6.– Condividendo il presupposto interpretativo della Corte di merito, secondo cui in presenza di una nullità non espressamente prevista dalla legge sarebbe preclusa l’attrazione nell’ambito applicativo dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, il giudice a quo ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, rileva il rimettente che la lettera della legge delegante sembrerebbe comprendere nell’area della reintegrazione tutti i licenziamenti nulli e discriminatori, delegando solo l’individuazione di specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato cui ulteriormente ricollegare il diritto alla reintegrazione; in altri termini, senza prevedere una ulteriore limitazione alle nullità espresse dalla legge, la delega escluderebbe del tutto la possibilità di limitare l’area dei licenziamenti nulli e discriminatori.

In secondo luogo, osserva che la restrizione ai soli casi di nullità espressa – nel senso di sanzione esplicitata in caso di violazione del precetto primario – finirebbe con il forzare da un punto di vista sistematico la coerenza del sistema rispetto al principio generale che ricollega la conseguenza della nullità alla violazione di norme imperative dell’ordinamento civilistico, laddove la differenza tra nullità espressamente previste e nullità da ricollegare a categorie civilistiche generali può risultare il precipitato non di una diversità ontologica o valoriale, ma di peculiari ragioni storiche, sistematiche o di stratificazione normativa, con esiti casuali e non razionali.

Esclude, inoltre, la percorribilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa censurata, in quanto l’avverbio “espressamente” non si presta ad interpretazioni semantiche diverse da quella limitativa dei casi di nullità cui ricollegare la tutela reintegratoria, e richiama, infine, sia i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 125 del 2022, seppure con riferimento ad un diverso profilo e ad una diversa normativa in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con riferimento all’aggettivo “manifesta”, sia l’orientamento consolidato della giurisprudenza costituzionale in tema di verifica sull’eccesso di delega.

1.7.– Su tali premesse, la Corte rimettente dubita della necessaria coerenza tra legge delegante e legge delegata in riferimento ad una distinzione di tutela non prevista nella norma delegante e di individuazione incerta, e ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 Cost., della delimitazione ad opera della norma censurata della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità «espressamente previsti dalla legge», per contrasto con la norma della legge delega che dispone la limitazione del «diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato».

2.– Con atto depositato il 5 luglio 2023, si è costituita in giudizio la parte ricorrente nel giudizio principale, argomentando la rilevanza e la fondatezza della questione di legittimità costituzionale in esame con un richiamo alle considerazioni formulate dal giudice rimettente quanto al mancato rispetto dei limiti alla delega normativa posti dall’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014.

Osserva la parte che l’introduzione dell’avverbio «espressamente», che restringerebbe l’applicazione della tutela reintegratoria ai soli casi in cui la nullità sia individuata come tale da una specifica disposizione di legge, non sarebbe coerente né con i principi e i criteri fissati dalla legge delega, che ha invece esteso la reintegrazione ad ogni fattispecie di licenziamento nullo, senza alcuna esclusione, né con il quadro normativo generale, in quanto una distinzione tra la nullità conseguente alla violazione della norma inderogabile di protezione pur non espressamente prevista, e la nullità espressamente prevista non è indice di una diversa gravità del vizio che dà luogo alla nullità, posto sempre a presidio di valori ritenuti fondamentali dall’ordinamento giuridico.

2.1.– La nullità conseguente alla violazione di una norma inderogabile, come quella che prevede il pronunciamento del CdD regolarmente costituito, è sancita senza bisogno di una previsione specifica in quanto espressamente prevista dall’art. 1418 cod.civ.; la norma delegata sarebbe, quindi, irragionevole, in quanto, senza alcuna fondata giustificazione, comporterebbe una distinzione sul piano delle tutele tra nullità riconducibili ad una disposizione a contenuto generale, quale l’art. 1418 cod.civ., e quelle riconducibili ad una specifica disposizione.

3.– Con atto depositato il 17 luglio 2023, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

La difesa statale rileva, in via preliminare, che l’eccentricità rispetto alla legge delega della limitazione della tutela reintegratoria alle sole nullità testuali non sarebbe dimostrata né dalla circostanza del tutto irrilevante che della tutela cosiddetta reale possano beneficiare anche licenziamenti ingiustificati ma, appunto, non nulli, né da una presunta identità ontologica tra le nullità testuali e quelle virtuali, contraddetta dal fatto che, per definizione, le nullità virtuali non sono riconducibili a una casistica predeterminata, in quanto frutto della mutevole attività ermeneutica dell’interprete, espressione, a sua volta, dei differenti contesti storici e sociali circa la natura imperativa della norma violata.

3.1.– Quanto alla rilevanza, osserva che la remittente non avrebbe esplorato una lettura interpretativa del criterio di delega in termini di endiadi, essendo plausibile sostenere che il legislatore delegante, nel riferirsi ai licenziamenti nulli e discriminatori, abbia inteso presidiare con la tutela in forma specifica i licenziamenti nulli in quanto discriminatori; tale lettura interpretativa sarebbe validata dalla considerazione che la legge delega ha separato l’area delle nullità da quella dell’illegittimità del licenziamento, con la conseguenza che l’area di operatività del licenziamento nullo non possa più ricomprendere quello risultato illegittimo per vizi procedurali, dovendo escludersi la riconducibilità alle nullità ex art. 1418, primo comma, cod. civ., dei vizi sull’erronea individuazione dell’organo interno alla pubblica amministrazione per mezzo del quale il potere disciplinare può essere esercitato, nonché sul mancato rispetto delle regole che stabiliscono le modalità di costituzione e di funzionamento di quell’organo (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 novembre 2022, n. 33619).

3.2.– Richiamata la giurisprudenza costituzionale in tema di violazione della legge delega, la difesa statale, a sostegno della non fondatezza della questione, osserva che la disposizione censurata sarebbe certamente riconducibile all’ambito della delega di cui alla legge n. 183 del 2014, quale coerente sviluppo e completamento dei principi e dei criteri direttivi impartiti con la stessa, avuto riguardo alla complessiva ratio dell’intervento riformatore, ispirato alla necessità di coniugare la disciplina del licenziamento e le tutele da accordare al lavoratore che risulti illegittimamente licenziato con le dinamiche del mercato del lavoro e, quindi, l’incentivazione alle assunzioni.

Avuto riguardo alla finalità della normativa di delega, la previsione dell’accesso alla tutela reintegratoria nei soli casi di nullità del licenziamento previsto dalla legge non ne costituirebbe una violazione, bensì una logica evoluzione, in quanto, l’estensione della tutela reale alle fattispecie in cui la nullità del licenziamento è rimessa alla valutazione dell’interprete circa il carattere imperativo della norma che si assume violata, frusterebbe l’obiettivo del contingentamento delle ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro fissato riconoscendo un elemento di disfunzione nella mancanza di flessibilità in uscita dall’impresa.

4.– Nel giudizio è, altresì, intervenuta la T. spa, eccependo l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione e di rilevanza.

L’interveniente, società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, avente ad oggetto la gestione del trasporto pubblico locale nella Provincia di P., contesta il presupposto della perdurante operatività dei CdD e, quindi, della nullità del procedimento disciplinare e del licenziamento/destituzione del lavoratore autoferrotranviere comminato dal datore di lavoro senza l’intervento di tale organo; a suo giudizio, sussistendo una competenza legislativa delle regioni in materia di “tramvie e linee automobilistiche di interesse regionale”, l’ordinanza di rimessione avrebbe omesso di individuare la legislazione regionale in base alla quale tali organismi potevano ritenersi ancora sussistenti.

5.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, la T. spa ha depositato una memoria illustrativa per ribadire le proprie conclusioni.

5.1.– All’udienza pubblica del 23 gennaio 2024, la Corte, con ordinanza letta contestualmente, ha dichiarato l’inammissibilità dell’intervento del terzo.

All’esito della discussione, le parti costituite hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 7 aprile 2023 (reg. ord. n. 83 del 2023), la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 Cost., dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, censurato per difformità rispetto al criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014.

1.1.– La questione è sollevata nell’ambito del giudizio di impugnazione della sentenza della Corte d’appello di Firenze che, rilevata la nullità del licenziamento disciplinare-destituzione, comunicato al lavoratore per violazione degli artt. 53 e 54 dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, aveva dichiarato estinto il rapporto di lavoro intercorso con una società esercente il servizio di trasporto pubblico urbano, e condannato la datrice di lavoro al pagamento dell’indennità prevista dall’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.

Il giudice a quo condivide il duplice presupposto interpretativo della Corte di merito, secondo cui è affetto da nullità il provvedimento disciplinare adottato a carico degli autoferrotranvieri in violazione della procedura prevista dall’art. 53 dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, e in presenza di una nullità non espressamente prevista dalla legge sarebbe preclusa l’attrazione nell’ambito applicativo dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015; dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale norma, in riferimento all’art. 76 Cost., denunciando un vizio di eccesso di delega rispetto al disposto di cui all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014.

1.2.– In particolare, la Corte rimettente censura la norma nella parte in cui, nell’individuare il regime sanzionatorio per i licenziamenti nulli, limita la tutela reintegratoria ai casi di nullità «espressamente previsti dalla legge», in ciò violando l’art. 76 Cost., per contrasto con l’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 che, demandando al Governo la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, dispone la limitazione del «diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato», senza una ulteriore limitazione ai casi di nullità “espressamente” prevista.

2.– In via preliminare, va ribadito quanto affermato, in ordine all’inammissibilità dell’intervento del terzo, nell’ordinanza di cui è stata data lettura in udienza, allegata alla presente pronuncia.

L’intervento di T. spa è inammissibile in quanto fondato sulla semplice analogia della sua posizione sostanziale; detta società non è, pertanto, portatrice di un interesse specifico direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale, che ne legittimi l’intervento nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (ex plurimis,sentenze n. 130 del 2023 e n. 106 del 2019; ordinanza n. 191 del 2021).

3.– La questione, come prospettata, non presenta profili di inammissibilità.

3.1.– Quanto alla rilevanza, gli elementi descrittivi in merito al procedimento principale e le argomentazioni a sostegno del presupposto interpretativo risultano sufficienti, al metro della loro non implausibilità, a suffragare l’applicabilità ratione temporis della disposizione censurata (ex plurimis, sentenze n. 160 e n. 139 del 2023, n. 192 del 2022, n. 152 e n. 59 del 2021 e n. 85 del 2020). In particolare, la Corte rimettente ha dato atto che il licenziamento è stato intimato ad un autoferrotranviere, assunto dopo il 7 marzo 2015, e perciò ricadente nell’ambito della disciplina posta dal d.lgs. n. 23 del 2015, all’esito di un procedimento viziato dalla violazione dell’art. 53, settimo e ottavo comma, dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, perché adottato dal datore di lavoro anziché dal Consiglio di disciplina (CdD), sebbene il lavoratore avesse fatto tempestiva richiesta dell’intervento di tale organo terzo dopo il provvedimento di «opinamento».

3.2.– In merito alla nullità del provvedimento impugnato è sufficiente dare conto del diritto vivente secondo cui, nella perdurante vigenza della disposizione che prevede i Consigli di disciplina «per la generalità delle aziende di trasporto» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 17 giugno 2015, n. 12490 e 16 gennaio 2017, n. 855; ordinanza 14 maggio 2019, n. 12770), nel caso in cui il dipendente autoferrotranviario, a seguito dell’opinamento di destituzione, abbia invocato la pronuncia del CdD, rimane irrilevante il fatto che gli enti competenti non abbiano esercitato il potere di nomina dei componenti di quell’organo – posto il persistente vigore delle disposizioni dettate dal regio decreto indicato in materia disciplinare quale disciplina maggiormente garantista rispetto a quella prevista dallo statuto dei lavoratori.

Il giudice a quo ha ribadito che la richiesta di intervento del CdD, oltre a costituire un momento di ulteriore garanzia per il lavoratore, determina la mancanza di legittimazione all’esercizio del potere di recesso in capo al datore di lavoro e il suo trasferimento ad un organo collegiale esterno e terzo. La violazione di tale disposizione, che si è ritenuto avere natura inderogabile, in quanto costituisce una prescrizione di validità dell’atto (e non già di comportamento) e si fonda su un evidente scopo di tutela del lavoratore dipendente, determina la nullità della sanzione disciplinare, la quale rientra nella categoria delle nullità di protezione, dovendo annoverarsi il citato art. 53 tra le norme imperative di cui all’art. 1418, primo comma, cod. civ. (da ultimo, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanze 7 marzo 2023, n. 6765; 6 marzo 2023, n. 6555 e 9 novembre 2021, n. 32681).

Questa stessa Corte ha ritenuto tuttora vigente la speciale disciplina dei licenziamenti del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione posta dal r.d. n. 148 del 1931 (sentenza n. 188 del 2020).

In presenza di una costante e consolidata giurisprudenza di legittimità, tanto più quando sia attinente ad un presupposto di rilevanza della questione e non già direttamente alla disposizione censurata, la norma espressa dal diritto vivente è assunta come tale da questa Corte senza che rilevino eventuali dubbi in ordine all’esattezza dell’interpretazione.

Occorre quindi muovere dal presupposto che nel giudizio principale ricorre, secondo il diritto vivente, una fattispecie di licenziamento nullo per violazione di norme imperative (art. 53 e 54 citati), senza che in esse sia prevista “espressamente” la nullità dell’atto (il licenziamento) come conseguenza di tale violazione.

Non emerge – e non rileva – invece la complessa ricostruzione normativa che ha condotto alla formazione di questo diritto vivente e che ha visto ripetuti interventi delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 13 gennaio 2005, n. 460 e 27 luglio 2016, n. 15540).

3.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente ha diffusamente motivato in ordine alle ragioni per le quali, a suo giudizio, la norma censurata sia suscettibile del sollevato dubbio di legittimità costituzionale; chiara anche, nel petitum dell’ordinanza di rimessione, l’indicazione sul tipo di intervento richiesto, limitato alla caducazione dell’avverbio “espressamente”, dal cui inserimento nella disposizione censurata sarebbe derivato l’eccesso di delega.

4.– Preliminarmente all’esame del merito giova richiamare, in sintesi, il quadro normativo di riferimento, in cui si colloca la tutela rappresentata dalla reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, la cui area di applicazione ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 è stata limitata dalla disposizione censurata nella misura in cui l’avverbio “espressamente”, in essa presente, ha operato una selezione restrittiva delle ipotesi di licenziamento nullo.

Tale tutela fortemente innovativa, introdotta – condizionatamente al ricorrere di un livello occupazionale minimo del datore di lavoro – dall’art. 18 dello statuto lavoratori, ha avuto una fase di iniziale espansione.

Questa Corte, a proposito del licenziamento disciplinare del 1982 intimato senza la tutela dell’apposita procedura, ha riconosciuto forza espansiva alle disposizioni contenute nell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 ritenendole suscettibili di assicurare la tutela reale del posto di lavoro anche nei casi in cui l’invalidità del licenziamento non dipendeva da una delle ragioni specificamente risultanti dal combinato disposto dello stesso art. 18 e dell’art. 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) (sentenza n. 204 del 1982; successivamente, sentenza n. 17 del 1987).

La riforma del 1990 (legge 11 maggio 1990, n. 108, recante «Disciplina dei licenziamenti individuali») ha consolidato l’ampiezza della tutela reintegratoria nei confronti dei licenziamenti illegittimi: sia nulli, sia discriminatori, sia ingiustificati (in quanto privi di giusta causa o di giustificato motivo).

Successivamente, il regime della tutela reintegratoria ha visto via via ridursi l’ampiezza del suo ambito applicativo.

4.1.– Il punto di svolta è rappresentato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), che ha novellato l’art. 18 statuto lavoratori, differenziando plurimi regimi di tutela, reintegratoria e indennitaria, nei confronti del licenziamento individuale illegittimo, così superando l’iniziale carattere unitario della tutela reintegratoria per i licenziamenti individuali e collettivi.

Fermo restando il tradizionale limite occupazionale, il legislatore del 2012 ha ritenuto di riservare la tutela della reintegrazione ai licenziamenti la cui illegittimità è conseguenza di una violazione, in senso lato, “più grave”, prevedendo per gli altri una compensazione indennitaria. Si è così introdotto un criterio di graduazione e di differenziazione che ha modificato radicalmente la logica precedente della reintegrazione quale conseguenza unica del licenziamento illegittimo nelle realtà occupazionali non piccole.

Successivamente, «in un contesto riformatore finanche più ampio che ha toccato plurimi aspetti della materia del lavoro (il cosiddetto Jobs Act: legge n. 183 del 2014), a questa disciplina, novellata nel 2012, si è affiancata – senza sostituirla – la regolamentazione di quello che, nelle intenzioni del legislatore, era un nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – cosiddetto a tutele crescenti – che si sovrappone a quello ordinario precedente» (sentenza n. 7 del 2024).

Pertanto, in attuazione della legge delega n. 183 del 2014, il d.lgs. n. 23 del 2015 ha stabilito un distinto regime di tutela, nel caso di licenziamento illegittimo, per i lavoratori assunti con il contratto di lavoro a tutele crescenti, quindi necessariamente in data successiva alla sua entrata in vigore (7 marzo 2015).

Senza entrare nel dettaglio di questa disciplina, si ha che la tutela reintegratoria è stata ulteriormente ridimensionata nel caso di licenziamento per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo ed è del tutto eliminata in ipotesi di licenziamento “economico”, ossia per giustificato motivo oggettivo o collettivo (ancora sentenza n. 7 del 2024). Però, in linea di continuità con la legge n. 92 del 2012, anche il legislatore del 2015 ha mantenuto, ai fini dell’applicabilità della tutela reintegratoria, la distinta previsione del «licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale», secondo la ripartizione chiaramente enunciata nella rubrica dell’art. 2 del decreto legislativo stesso.

4.2.– In particolare, il licenziamento discriminatorio – in quanto tale nullo – è stato inizialmente previsto dall’art. 4 della legge n. 604 del 1966, come quello «determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali […] indipendentemente dalla motivazione adottata».

In seguito la legge n. 108 del 1990 ha esteso tale fattispecie stabilendo (all’art. 3) che «[i]l licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dall’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti».

4.3.– La fattispecie del licenziamento discriminatorio e quella parallela del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo (artt. 1 e 3 della legge 15 n. 604 del 1966) non hanno, però, schermato del tutto quella del licenziamento nullo sia in specifici casi stabiliti dalla legge (come nelle ipotesi di licenziamento a causa di matrimonio o in periodo di gravidanza e puerperio), sia in generale per contrarietà a norme imperative in ragione della previsione dell’art. 1418, primo comma, cod. civ., che opera come clausola di chiusura «salvo che la legge disponga diversamente».

La giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 22 maggio 2018, n. 12568 e 29 marzo 1980, n. 2072) ha ritenuto che il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, sia nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, secondo comma, cod. civ. «in combinata lettura con l’art. 1418 stesso codice».

Quando in passato si è formato un diritto vivente (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 21 agosto 1990, n. 8535) secondo cui, nonostante l’esplicito divieto di licenziamento intimato alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e puerperio, originariamente stabilito dall’art. 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), il recesso datoriale doveva ritenersi meramente inefficace in ragione della mancanza (all’epoca) di una espressa previsione di nullità del recesso, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui prevedeva la temporanea inefficacia anziché la nullità del licenziamento (sentenza n. 61 del 1991).

Parimenti la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 26 novembre 2015, n. 24157) ha ritenuto, con riferimento al lavoro pubblico contrattualizzato, che la garanzia procedimentale posta dall’art. 55-bis, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) integri una norma imperativa, la cui violazione è causa di nullità del licenziamento, mancando una legge che disponga diversamente (art. 1418, primo comma, cod. civ.). Solo successivamente, la piena operatività dell’art. 1418, primo comma, cod. civ. è stata (parzialmente) derogata dall’art. 13, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e), e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l), m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», che ha aggiunto il comma 9-ter all’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001; disposizione questa che ora stabilisce che la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare non determina l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, sempre che non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, sicché – ha poi ritenuto la giurisprudenza (Cass., sez. lavoro, sentenza n. 33619 del 2022) – il carattere imperativo di questa disciplina non è più da solo idoneo a determinare, ex art. 1418, primo comma, cod. civ., la nullità della sanzione, proprio perché «la legge dispon[e] diversamente».

4.4.– Il licenziamento nullo, come fattispecie di carattere generale, si rinviene, declinato in termini maggiormente puntuali, nella legge n. 92 del 2012, la quale, novellando l’art. 18 statuto lavoratori, l’ha collocato in cima alla piramide della gravità delle violazioni che comportano la illegittimità del recesso datoriale, raggruppandole nella disciplina unitaria di cui ai primi tre commi di tale disposizione.

Vi sono elencate le ipotesi di: licenziamento discriminatorio, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 108 del 1990; licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio, ai sensi dell’art. 35 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246); licenziamento legato alla genitorialità, in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’art. 54, commi 1, 6, 7 e 9, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), e successive modificazioni; licenziamento per motivo illecito determinante, ai sensi dell’art. 1345 cod. civ.; licenziamento inefficace intimato in forma orale.

Infine, con una norma di chiusura, è prevista ogni altra ipotesi di licenziamento «riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge».

4.5.– Nel contesto riformatore del d.lgs. n. 23 del 2015, la disciplina del licenziamento nullo è regolata dall’art. 2, che già nella rubrica tiene distinti il licenziamento discriminatorio e quello nullo, e che nel suo comma 1 stabilisce: «Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto».

La fattispecie unitaria, ampia e onnicomprensiva di cui all’art. 18 statuto lavoratori, come novellato dalla legge n. 92 del 2012, in tal modo si sdoppia: da un lato, il licenziamento “espressamente” nullo; dall’altro, il licenziamento nullo, ma senza l’espressa (e quindi testuale) previsione della nullità.

4.6.– Da questa normativa, progressivamente mutata nel corso degli anni, emerge che la fattispecie del licenziamento discriminatorio e quella del licenziamento nullo sono state tenute distinte, sicché non può seguirsi l’ipotesi interpretativa avanzata dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui il riferimento al “licenziamento nullo e discriminatorio” costituirebbe un’endiadi e starebbe a significare un’unica fattispecie: quella del “licenziamento nullo perché discriminatorio”. Del resto, anche il legislatore delegato (delega esercitata con il d.lgs. n. 23 del 2015) ha tenuto distinte le fattispecie, prevedendo sia il licenziamento discriminatorio, sia quello nullo, pur limitando quest’ultimo all’ipotesi in cui ricorra anche l’espressa (e quindi testuale) previsione della nullità come conseguenza della violazione di norme imperative.

Né la fattispecie generale del licenziamento nullo per violazione di norme imperative è revocata in dubbio dalla possibile previsione, rientrante nella discrezionalità del legislatore, di specifiche ipotesi di nullità di protezione conseguenti alla violazione di prescrizioni procedimentali di garanzia per il lavoratore, sottratte al regime della tutela reintegratoria in quanto integranti ipotesi in cui «la legge dispon[e] diversamente» (ex art. 1418, primo comma, cod. civ.). Tale è, in particolare, la violazione della procedura di cui all’art. 7 statuto lavoratori nel regime di tutela sia della legge n. 92 del 2012, sia del d.lgs. n. 23 del 2015. Più recentemente, tale è stata qualificata, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 75 del 2017, anche la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001. Invece – secondo il diritto vivente sopra richiamato – non risulta una norma di legge che disponga diversamente quanto alla violazione degli artt. 53 e 54 dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, ritenute norme imperative tuttora vigenti e rilevanti nel giudizio a quo.

5.– Tanto premesso, la questione oggetto di scrutinio investe l’avverbio «espressamente», contenuto nella disposizione censurata e non già nel criterio direttivo della legge di delega, e la sua funzione selettiva rispetto alle nullità cui troverebbe applicazione la disciplina della reintegrazione. La Corte rimettente parte dal presupposto interpretativo che tale inserimento escluda dall’ambito applicativo della norma censurata tutte le ipotesi in cui, pur ricorrendo la violazione di una norma imperativa, la nullità non sia testualmente prevista come conseguenza della stessa.

Tale interpretazione va condivisa: il carattere espresso della nullità non può significare altro che la disposizione che sancisce – o dalla quale può farsi derivare – un divieto di licenziamento deve anche prevedere, come conseguenza della sua violazione, la sanzione della nullità; ciò che avviene nelle ipotesi del licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio o in violazione dei divieti di licenziamento in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ma non in una serie di altre ipotesi in cui opera solo la violazione del divieto posto da una norma imperativa ex art. 1418, primo comma, cod. civ., in assenza dell’espressa previsione della nullità. Il licenziamento resta nullo, ma non è soggetto alla tutela reintegratoria dell’art. 2, comma 1, censurato dal giudice a quo.

In giurisprudenza (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 marzo 2022, n. 8472) e in dottrina si distingue tra nullità testuali (quelle che prevedono espressamente la sanzione della nullità, quale conseguenza della violazione di una norma imperativa) e nullità virtuali (quelle che, pur in mancanza di tal espressa previsione, derivano comunque dalla contrarietà a norme imperative ai sensi del primo comma dell’art. 1418 cod. civ. «salvo che la legge disponga diversamente»). Queste ultime richiedono all’interprete di accertare se il legislatore, con la prescrizione di norme imperative, abbia anche inteso far discendere, dalla contrarietà dell’atto negoziale ad esse, la sua nullità.

In questo sistema di nullità, testuali e virtuali, si iscrive la disposizione censurata, nella quale quindi l’avverbio “espressamente” assume un peso particolare perché svolge una funzione selettiva di limitazione alle nullità testuali con esclusione di quelle virtuali.

Del resto, una diversa lettura della norma in senso inclusivo di tutte le nullità previste dalla legge, pur sostenuta da una parte della dottrina, renderebbe inutiliter datum l’avverbio “espressamente”; si tratterebbe di un’inammissibile interpretatio abrogans.

6.– La questione – sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. – è fondata.

6.1.– Secondo il criterio direttivo fissato dall’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 «il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro», «[a]llo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva».

In particolare, la lettera c) del medesimo comma consentiva la «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».

Il criterio direttivo, nella parte che rileva ai fini della presente questione, segna i confini della tutela reintegratoria del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo delineando, in negativo, un ambito di esclusione, che vede la tutela solo indennitaria per i licenziamenti economici che risultino illegittimi, e, in positivo, uno di inclusione, riservato distintamente ai licenziamenti nulli e discriminatori e ad alcune specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.

6.2.– L’eccesso di delega denunciato dal giudice a quo investe la limitazione (contenuta nella norma censurata) del diritto alla reintegrazione ai soli licenziamenti viziati da una nullità «espressamente» prevista; l’effetto di neutralizzazione di tutte le nullità diverse da quelle testuali, prodotto dall’avverbio censurato, non trova rispondenza – secondo la Corte rimettente – nella legge di delega e ne viola il criterio direttivo nella parte in cui esso prescrive la tutela reintegratoria in caso di licenziamento nullo tout court, al pari del licenziamento discriminatorio e diversamente dal licenziamento disciplinare, per il quale invece il legislatore delegato avrebbe dovuto individuare specifiche ipotesi di tutela reintegratoria ed altre di tutela indennitaria (ciò che poi ha fatto nei commi 1 e 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015).

7.– La sollevata questione di legittimità costituzionale chiama in causa, quindi, i limiti della delegazione legislativa, la cui possibilità è sì prevista in Costituzione, ma come deroga del canone opposto secondo cui, in generale, «[l]’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo» (art. 76) e «[i]l Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria» (art. 77, primo comma); ciò in coerenza con il precetto costituzionale che assegna alle due Camere, collettivamente, l’esercizio della funzione legislativa (art. 70) e con il tradizionale principio della separazione dei poteri (principio “ordinamentale”: sentenza n. 98 del 2023).

Ma le Camere stesse, nel rispetto della procedura normale di esame e approvazione diretta (art. 72, quarto comma, Cost.), possono prevedere una delegazione legislativa entro limiti ben precisi: per un «tempo limitato» e sempre che ricorrano due condizioni: a) devono essere determinati i «princìpi e criteri direttivi»; b) devono essere definiti gli «oggetti» (art. 76 Cost.).

Di queste condizioni la giurisprudenza costituzionale ha dato un’interpretazione flessibile, consapevole dell’esistenza di settori dell’ordinamento che, per la complessità dei rapporti e la tecnicità e interconnessione delle regole, mal si prestano ad un esame ed approvazione diretta delle Camere. L’area della codificazione è quella elettiva della delegazione legislativa ad ampio spettro ed infatti a seguito di legge di delega sono stati approvati vari codici.

In questi casi i principi e criteri direttivi della legge di delega tracciano gli obiettivi ed esprimono le linee di fondo delle scelte del legislatore delegante. Ampi quindi sono il potere e l’«attività di “riempimento” normativo» conferiti al legislatore delegato (sentenza n. 166 del 2023). Ricorrente è l’affermazione, nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo» (sentenze n. 133 del 2021 e n. 212 del 2018).

Ampia è spesso anche la delega al Governo ad adottare uno o più decreti legislativi al fine di adeguare il quadro normativo nazionale alle disposizioni europee (sentenza n. 260 del 2021).

Ma, all’opposto, la legge di delega può contenere principi e criteri direttivi molto puntuali e specifici, di tal che il potere di riempimento del legislatore delegato si riduce notevolmente fino talora a restringersi quasi ad un’opera di sostanziale trasposizione, in disposizioni di legge, di regole già contenute nella legge di delega (come nella fattispecie di cui alla sentenza n. 166 del 2023, che ha affermato che la legge di delega può anche contenere una «norma compiuta, integrativa non più, e non solo, di un principio o criterio direttivo, ma di una vera e propria regula iuris [che] nella sua portata vale a ridurre, in modo corrispondente, i margini di discrezionalità ed il cosiddetto potere di riempimento del legislatore delegato»).

Parimenti la verifica che la normativa delegata si sia contenuta nel limite degli «oggetti» fissati dalla legge di delega dipende dal grado, più o meno circoscritto, della loro definizione, che potrebbe anche essere assai puntuale.

In tali evenienze lo scrutinio di questa Corte, nel verificare la conformità ai «principi e criteri direttivi» e il rispetto dei limiti degli «oggetti» della delega, è molto stretto.

In definitiva, la delega legislativa «può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega» (sentenza n. 142 del 2020; nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 170 del 2019; n. 198 e n. 182 del 2018).

Nella giurisprudenza recente di questa Corte un criterio di delega molto puntuale è stato ritenuto violato – con conseguente pronuncia di illegittimità costituzionale della censurata disposizione del decreto legislativo – in materia di dispensa dal servizio dei magistrati onorari (sentenza n. 166 del 2023), di omessi versamenti di ritenute dovute sulla base della dichiarazione annuale del sostituto d’imposta (sentenza n. 175 del 2022) e di utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti (sentenza n. 105 del 2022).

8.– Tenendo conto, quindi, del grado di specificità dei principi e criteri direttivi e della maggiore o minore ampiezza dell’oggetto della delega, la loro interpretazione deve muovere, innanzi tutto, dalla “lettera” del testo normativo, a cui si affianca l’interpretazione sistematica sulla base della ratio legis, che è quella che emerge dal contesto complessivo della legge di delega e dalle finalità che essa persegue (sentenza n. 7 del 2024).

Il controllo sul superamento dei limiti posti dalla legge di delega va, infatti, operato partendo dal dato letterale per poi procedere ad una indagine sistematica e teleologica per verificare se l’attività del legislatore delegato, nell’esercizio del margine di discrezionalità che gli compete nell’attuazione della legge di delega, si sia inserito in modo coerente nel complessivo quadro normativo, rispettando la ratio della norma delegante (sentenze n. 250 e n. 59 del 2016; n. 146 e n. 98 del 2015; n. 119 del 2013) e mantenendosi comunque nell’alveo delle scelte di fondo operate dalla stessa (sentenza n. 278 del 2016).

È infatti costante l’affermazione secondo cui «per valutare se il legislatore abbia ecceduto [i] margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega per verificare se la norma delegata sia stata con questa coerente» (sentenza n. 153 del 2014 e, nello stesso senso, tra le altre, sentenze n. 175 del 2022; n. 231 e n. 174 del 2021; n. 184 del 2013; n. 272 del 2012 e n. 230 del 2010; inoltre, con riferimento alla materia penale, sentenza n. 105 del 2022).

Tra l’elemento letterale e quello funzionale-teleologico esiste un rapporto inversamente proporzionale: meno preciso e univoco è il primo, più rilevante risulta il secondo.

La verifica di conformità della norma delegata a quella delegante richiede lo svolgimento di un duplice processo ermeneutico che, condotto in parallelo, tocca, da una parte, la legge di delegazione e, dall’altra, le disposizioni emanate dal legislatore delegato, da interpretare nel significato compatibile con la delega stessa.

In sintesi, per definire il contenuto di questa, si deve tenere conto del complessivo contesto normativo in cui si inseriscono i principi e criteri direttivi della legge di delega e delle finalità che la ispirano; ciò che non solo rappresenta la base e il limite delle norme delegate, ma offre anche criteri di interpretazione della loro portata (ex plurimis, sentenze n. 166 del 2023; n. 133 del 2021; n. 84 del 2017; n. 250 del 2016; n. 194 del 2015 e n. 153 del 2014).

9.– Ed allora, muovendo innanzi tutto dall’interpretazione della legge di delega, rileva che nella “lettera” dell’indicato criterio direttivo manchi del tutto la distinzione tra nullità «espressamente» previste e nullità conseguenti sì alla violazione di norme imperative, ma senza l’espressa loro previsione come conseguenza di tale violazione. Il prescritto mantenimento del diritto alla reintegrazione è contemplato per i «licenziamenti nulli» tout court, laddove una eventuale distinzione, inedita – come si è visto sopra nel richiamare il quadro normativo di riferimento – rispetto alla disciplina previgente dei licenziamenti individuali, avrebbe richiesto una previsione (questa sì) espressa.

In secondo luogo, il senso letterale dell’espressione contenuta nell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 risulta ancora più univoco se posto in correlazione con la successiva limitazione a «specifiche fattispecie» riferita esclusivamente al «licenziamento disciplinare ingiustificato»; quindi il criterio direttivo ha previsto sì una distinzione, ma solo per il licenziamento disciplinare (per giustificato motivo soggettivo). Se il legislatore delegante avesse voluto una qualche distinzione anche tra le nullità l’avrebbe parimenti prevista, come per il licenziamento disciplinare.

La distinzione tra nullità espresse e nullità che tali non sono, non è, dunque, riconducibile al criterio di delega nella sua portata testuale.

10.– Considerazioni convergenti sovvengono anche dal punto di vista dell’interpretazione sistematica: la limitazione alla nullità testuale appare eccentrica rispetto all’impianto della delega che mira ad introdurre per le «nuove assunzioni» una disciplina generale dei licenziamenti di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, a copertura integrale per tutte le ipotesi di invalidità.

Per i contratti a tutele crescenti la legge delega prevede da un lato la possibilità di escludere la reintegrazione per i licenziamenti economici e dall’altro quella di limitare la reintegrazione ai licenziamenti nulli, discriminatori e a specifiche ipotesi di licenziamenti disciplinari ingiustificati; tale assetto risulta adeguato rispetto all’obiettivo del legislatore, nell’ottica di ricomprendere nella nuova disciplina tutta la possibile casistica di licenziamenti illegittimi, con una netta demarcazione tra le ipotesi di nullità, sempre meritevoli della più grave sanzione in forma specifica, e quelle di illegittimità sanzionate in termini esclusivamente monetari.

10.1.– Al contrario, il legislatore delegato, con la limitazione dell’ambito applicativo dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 ai licenziamenti per i quali la nullità è espressamente prevista, ha dettato una disciplina la cui incompletezza conferma la sua incoerenza rispetto al disegno del legislatore delegante.

Sono rimasti privi di regime sanzionatorio le fattispecie di licenziamenti nulli privi della espressa (e testuale) previsione della nullità, i quali per un verso, non avendo natura “economica”, non possono rientrare tra quelli per i quali la reintegra può essere esclusa, ma, per altro verso, in ragione della disposizione censurata, non appartengono a quelli per i quali questa tutela va mantenuta, senza che ad essi possa alternativamente applicarsi la tutela indennitaria, di cui al successivo art. 3, che riguarda le diverse fattispecie dei licenziamenti privi di giustificato motivo, soggettivo e oggettivo, o dell’art. 4, che opera in relazione ai soli vizi formali e procedurali riconducibili al requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma secondo, della legge n. 604 del 1966 o alla procedura di cui all’art. 7 statuto lavoratori.

Secondo il criterio direttivo, il legislatore delegato non poteva procedere ad alcuna “specificazione” nell’ambito della fattispecie del licenziamento nullo. Invece ha distinto le ipotesi di nullità espressa rispetto a quelle di nullità non espressa, ma, nel contemplare la tutela reintegratoria per le prime, nulla ha invece previsto per le seconde. Laddove il legislatore delegato è stato facoltizzato a distinguere, individuando specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare, lo ha fatto prevedendo due distinti regimi di tutela: quella reintegratoria dell’art. 3, comma 2, e quella indennitaria dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015. Invece, in caso di licenziamento nullo perché in violazione di una norma imperativa, che però non preveda espressamente la nullità dell’atto, manca l’individuazione della tutela per questa fattispecie esclusa dal regime della reintegrazione.

Oltre al caso oggetto del giudizio principale, tra le ulteriori ipotesi in cui manca un’espressa previsione della nullità, significative sono quelle del licenziamento in periodo di comporto per malattia (in violazione dell’art. 2110 cod. civ.); del licenziamento per motivo illecito ex art. 1345 cod. civ., quale quello ritorsivo del dipendente (il cosiddetto whistleblower), che segnala illeciti commessi dal datore di lavoro (art. 2, comma 2-quater, della legge 30 novembre 2017, n. 179, recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato»); del licenziamento intimato in violazione del “blocco” dei licenziamenti economici durante il periodo emergenziale, disposto dall’art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27, e successive proroghe; del licenziamento intimato in contrasto con l’art. 4, comma 1, della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge); del licenziamento in violazione del diritto alla conservazione del posto di cui all’art. 124, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

Più in generale, anche fuori dalle tematiche giuslavoristiche, la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 15 marzo 2022, n. 8472 e 12 dicembre 2014, n. 26242) ha individuato i caratteri della violazione di norme imperative che si riconducono al medesimo regime sanzionatorio della nullità.

10.2.– Non è senza rilievo, infine, l’inedito ribaltamento della regola civilistica dell’art. 1418, primo comma, cod. civ., che prevede la nullità come sanzione della violazione di norme imperative e la esclude qualora si rinvenga una legge che disponga diversamente; qui la previsione “diversa” serve, all’opposto, a derogare alla nullità che consegue alla violazione di norme imperative.

10.3.– In sintesi, l’eccesso di delega per violazione del sopra richiamato criterio direttivo trova riscontro sia nell’univoca “lettera” di quest’ultimo, che ammette distinzioni per i licenziamenti disciplinari, ma non anche per quelli nulli, sia nell’interpretazione sistematica per la contraddittorietà di una distinzione che non si accompagni, diversamente che per i licenziamenti disciplinari, alla previsione del tipo di tutela applicabile alla fattispecie esclusa dal regime della reintegrazione.

11.– Conclusivamente, si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alla parola «espressamente».

Per effetto di tale pronuncia il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l’espressa (e testuale) sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, pur rinvenendosi il carattere imperativo della prescrizione violata e comunque «salvo che la legge disponga diversamente». Occorre, però, pur sempre che la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.

12.– Va, infine, ribadito che «[s]petta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari» (sentenza n. 150 del 2020).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alla parola «espressamente».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2024.

[…] Allegato:

Ordinanza Emessa All’udienza Del 23 Gennaio 2024

ORDINANZA

Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con ordinanza del 7 aprile 2023, iscritta al n. 83 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Rilevato che, con atto depositato il 12 luglio 2023, nel giudizio è intervenuta la T. spa che non riveste la qualità di parte del giudizio principale;

che l’interveniente, società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, concessionaria per il trasporto pubblico locale nella Provincia di P., deduce l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, per difetto di motivazione e di rilevanza, perché sarebbe fondata sull’erroneo presupposto della perdurante operatività dei consigli di disciplina e, quindi, della nullità del procedimento disciplinare e del licenziamento/destituzione del lavoratore autoferrotranviere comminata dal datore di lavoro senza l’intervento di tale organo;

che la T. spa, con la memoria depositata in prossimità dell’udienza, precisa di non avere interesse a contrastare l’accoglimento della questione sollevata dal rimettente per eccesso di delega, ma solo a contestare la tesi della sopravvivenza dei consigli di disciplina.

Considerato che l’interveniente suddetta non è parte del giudizio principale;

che l’art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale stabilisce che, nei giudizi in via incidentale, «[p]ossono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio»;

che, come ribadito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 159 del 2019 e n. 237 del 2013; ordinanze allegate alle sentenze n. 130 del 2023, n. 158 del 2020, n. 206 del 2019 e n. 16 del 2017), la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di regola, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative);

che in questo ambito è ammesso soltanto l’intervento di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura;

che, quindi, l’intervento è ammissibile solo nell’ipotesi in cui l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente non derivi, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla norma censurata, dalla pronuncia sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma sia conseguenza immediata e diretta dell’effetto che la pronuncia di questa Corte produrrebbe sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo (ordinanze allegate alle sentenze n. 130 del 2023, n. 210 del 2021, n. 158 e n. 30 del 2020, n. 206 e n. 253 del 2019; sentenze n. 180 del 2021 e n. 46 del 2021);

che, alla luce di tali premesse, la T. spa, rinvenendo la ragione fondante del proprio intervento nella semplice analogia della sua posizione sostanziale in una regione diversa da quella della parte convenuta nel giudizio principale, non può ritenersi portatrice di un interesse specifico direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale, che ne legittimi l’intervento nel giudizio costituzionale incidentale (sentenza n. 130 del 2023 e n. 106 del 2019; ordinanza n. 191 del 2021);

che l’intervento va pertanto dichiarato inammissibile.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile l’intervento in giudizio della T. spa.[…]”