(Studio legale  G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)

Corte di cassazione, sezione lavoro, Ordinanza 22 ottobre 2024 n. 27291.

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

“Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass. n 21527/2024 e, in termini conformi, tra le altre, Cass. 29047/2017, Cass. n. 19785/2010)”.

Lavoro. Sanzione disciplinare. Sospensione dal lavoro e dalla retribuzione. Demansionamento.  Risarcimento danno alla salute e danno esistenziale. Inadempimento datoriale. Prova del danno e del nesso di causalità.

“[…] La Corte di Cassazione,

(omissis)

Rilevato che

1. La Corte di appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto integralmente la domanda di S.C. intesa all’accertamento della illegittimità della sanzione disciplinare di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per dieci giorni, del demansionamento sofferto nel periodo dedotto ed alla condanna della datrice di lavoro, Poste Italiane s.p.a., al risarcimento del danno patrimoniale da dequalificazione professionale, del danno alla salute e del danno esistenziale;

2. la statuizione di rigetto della domanda di accertamento della illegittimità della sanzione disciplinare è stata fondata sulla considerazione che le emergenze probatorie deponevano nel senso della sussistenza e rilevanza disciplinare della condotta addebitata – consistente nell’avere il C., nel periodo in cui era reggente dell’U.P.P.A., tollerato che un ex dipendente della società, ormai in pensione, disimpegnasse attività di sportello presso la relativa postazione; ciò in violazione di specifiche disposizioni di servizio alla stregua delle quali era precluso agli estranei l’ingresso nella zona di retrosportelleria degli uffici postali.

Secondo la Corte tale condotta integrava la fattispecie sanzionata dall’art. 55, oltre che dell’art. 51 lettera b), c.c.n.l. Poste Italiane, e si configurava quale violazione del dovere di diligenza, correttezza e lealtà imposto dall’art. 2104 c.c.; 

3. la statuizione di rigetto della domanda risarcitoria connessa al demansionamento è stata fondata sulla considerazione che, ferma restando la denunziata dequalificazione professionale, il lavoratore non aveva allegato e provato, come suo onere, il tipo e l’entità del danno sofferto e il nesso di causalità con l’eventuale inadempimento datoriale;

4. analogamente, doveva essere respinta la domanda di risarcimento del danno alla salute per carenza di prova di detto danno, non desumibile dalle conclusioni attinte dal consulente tecnico d’ufficio di primo grado, stante la genericità delle stesse, l’assenza di esaustivo approfondimento del quadro diagnostico e di adeguato corredo documentale e la preesistenza di patologia psichica;

5. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso S.C. sulla base di quattro motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso; entrambe le parti hanno depositato memoria;

Considerato che

1. con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 434 c.p.c. censurando la sentenza impugnata per il mancato accoglimento della eccezione di inammissibilità dell’appello di Poste Italiane s.p.a.;

2. con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente deduce, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. censurando la sentenza impugnata in ordine alla valutazione della prova; in particolare si duole della maggiore attendibilità conferita alle dichiarazioni rese dai colleghi del C. agli ispettori inviati da Poste Italiane s.p.a., quali allegate al report della società, rispetto a quanto dagli stessi dichiarato in sede testimoniale; evidenzia l’errore in diritto del giudice di appello per avere “leso” il valore della prova testimoniale a fronte di dichiarazione rilasciata dai colleghi a soggetto privo della qualifica di pubblico ufficiale, quale l’ispettore inviato dalla società datrice di lavoro;

3. con il terzo motivo di ricorso deduce, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. in ordine all’onere della prova sul demansionamento, censurando in sintesi la sentenza impugnata per avere escluso le richieste voci di danno in connessione con il demansionamento.

Si duole in particolare del mancato ricorso al ragionamento presuntivo in ordine al pregiudizio sofferto, pregiudizio che assume ricostruibile sulla base delle formulate allegazioni di elementi gravi, precisi e concordanti;

4. con il quarto motivo di ricorso deduce, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 115 c.p.c., censurando la sentenza impugnata in punto di valutazione della prova degli asseriti danni non patrimoniali e specificatamente del danno biologico;

5. il primo motivo di ricorso deve essere respinto.

5.1. premessa la natura non vincolante della formale indicazione nella rubrica del vizio denunziato (Cass. n. 12690/2018, n.14062/2012), che fa riferimento alla violazione e falsa applicazione di norme di diritto di cui all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. laddove le critiche alla sentenza di secondo grado, per come concretamente articolate, delineano un vizio riconducibile all’ambito dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., si rileva che in caso di denunzia di “error in procedendo”, il sindacato del giudice di legittimità investe direttamente l’invalidità denunciata, mediante l’accesso diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, indipendentemente dalla sufficienza e logicità della eventuale motivazione esibita al riguardo, posto che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto (v. tra le altre, Cass. 20716/2018, n. 8069/2016, n. 16164/2015).

Al fine di consentire tale sindacato, tuttavia, non essendo il predetto vizio rilevabile “ex officio”, è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (Cass. n. 2771/2017);

5.2. in applicazione di tale principio la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che, in ipotesi in cui l’appello sia stato dichiarato inammissibile per difetto di specificità, la parte ricorrente ha l’onere di indicare le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. n. 22880/2017, n. 20405/2006);

5.3. parte ricorrente non ha assolto agli oneri prescritti per la valida censura della decisione. Invero, la sentenza impugnata ha affermato l’ammissibilità dell’appello sul rilievo che esso conteneva l’indicazione delle modifiche richieste nonché specifici argomenti critici nei confronti del percorso motivazionale della sentenza di primo grado.

Tale accertamento non è validamente contrastato dall’odierno atto di impugnazione mancando la indispensabile trascrizione degli atti di riferimento; parte ricorrente non ha trascritto o esposto per riassunto il contenuto della sentenza di primo grado né ha trascritto nelle parti rilevanti il contenuto dell’atto di gravame onde consentire, sulla base del solo esame del ricorso per cassazione, come prescritto (Cass. n. 12761/2004, Sez. Un. n. 26002/2003, Cass. n. 4743/2001), la verifica di eventuali ragioni di inammissibilità del gravame sotto il profilo della pertinenza e specificità delle censure formulate alla decisione di promo grado e della loro reale ed effettiva idoneità a costruire un tessuto argomentativo idoneo a contrastare quello posto a fondamento della statuizione impugnata;

6. il secondo motivo di ricorso è anch’esso da respingere.

Il giudice di appello non è incorso nella violazione dell’art. 116 c.p.c. in quanto non ha mostrato di attribuire alcuna fede privilegiata a quanto riportato nella relazione ispettiva ma si è limitato alla complessiva valutazione del materiale istruttorio che ha liberamente apprezzato all’esito di un vaglio critico delle emergenze in atti, come consentito.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti, con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente; l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. , tra le altre, Cass. n. 7007/2015, Cass. n. 7921/2011, Cass. n. 15693/2004), fermo restando che il giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 16467/2017, Cass. n. 1111/2014, Cass. n. 42/2009);

6.1. alla luce di quanto ora osservato deve escludersi la dedotta violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. configurabile solo allorché il giudice apprezzi liberamente una prova legale, oppure si ritenga vincolato da una prova liberamente apprezzabile (Cass., Sez. Un., n. 11892/2016, Cass. n. 13960/2014, Cass. n. 26965/2007), situazioni queste non sussistenti nel caso in esame, dovendo altresì rilevarsi, quale concorrente profilo di inammissibilità del motivo, la genericità della censura articolata sia in relazione alla prova orale che in relazione alla prova documentale, in merito alle quali, viceversa, il giudice di appello ha ampiamente argomentato;

7. il terzo motivo di ricorso è infondato.

La sentenza impugnata, correttamente evocato l’orientamento del giudice di legittimità circa la possibilità di ricostruire in via presuntiva il pregiudizio connesso al demansionamento (sentenza, pag. 13 e sg.), ha ritenuto che, pur risultando provato il venir meno dei compiti di direzione in capo all’odierno ricorrente, questi, in concreto, non aveva svolto alcuna allegazione in ordine alla natura, alle singole voci e alle caratteristiche degli asseriti pregiudizi; in ragione di ciò ha concluso che difettavano anche gli specifici elementi di valutazione fondanti la prova per presunzioni.

 Tanto premesso, non si ravvisa la denunziata violazione di norma di diritto sotto il profilo del contrasto della sentenza impugnata con l’indirizzo giurisprudenziale richiamato in ricorso circa la possibilità di utilizzo del ragionamento presuntivo ai fini ricostruttivi del pregiudizio sofferto, posto che il giudice di appello ha espressamente verificato al percorribilità del ricorso al ragionamento presuntivo e ritenuto all’esito di tale verifica la carenza di allegazioni in fatto idonee a consentire in via induttiva la ricostruzione del pregiudizio sofferto;

7.1. l’ apprezzamento del giudice di merito circa il ricorso alla presunzione quale mezzo di prova e la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sono incensurabili in sede di legittimità, l’unico sindacato in proposito riservato al giudice di cassazione essendo quello sulla coerenza della relativa motivazione (Cass. n. 17596/2003) mentre le censure articolate si risolvono in una valutazione meramente contrappositiva a quella del giudice di seconde cure circa la sussistenza dei concreti presupposti per inferire in via presuntiva la sussistenza in concreto delle dedotte voci di danno;

8. il quarto motivo presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.

Invero le censure che investono la negazione dei presupposti per il riconoscimento del danno alla salute sono inammissibili in quanto non si confrontano specificamente con le argomentazioni della sentenza impugnata la quale ha in particolare evidenziato l’assenza di esaustivo approfondimento del quadro diagnostico, di adeguato corredo documentale e la preesistenza di patologia psichica nell’interessato; le doglianze di parte ricorrente si sostanziano, infatti, nella enunciazione di una serie di principi tratti dalla giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che non risultano tuttavia calati nella concreta fattispecie quale ricostruita dal giudice di appello.

E’ da respingere nel merito la censura articolata in punto di corretta distribuzione dell’onere della prova, alla luce del condivisibile insegnamento della SC secondo la quale << in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale>> (Cass. n 21527/2024 e, in termini conformi, tra le altre, Cass. 29047/2017, Cass. n. 19785/2010).

9. al rigetto del ricorso consegue la condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese processuali ed pagamento, nella sussistenza dei relativi presupposti processuali, dell’ulteriore importo del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma quater d.p.r. n. 115/2002;

P.Q.M.

Rigetta il ricorso […]”.