(Studio legale G.Patrizi,G.Arrigo,G.Dobici)
Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza 6 agosto 2024, n. 22161.
Riguardo ai rischi collegati allo stress lavoro-correlato che il datore di lavoro è tenuto a prevenire, l’art. 2087 cod. civ. è generale fonte di un obbligo in base al quale è compito del datore di lavoro la valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato”.
“[…] La Corte di Cassazione,
(omissis)
Fatto
1. A.A., dipendente del Comune di Pachino con qualifica di istruttore amministrativo ed inquadramento nella categoria C1, aveva agito innanzi al Tribunale di Siracusa per ottenere la condanna del Comune al risarcimento del danno per la forzata inattività cui era stata costretta nel periodo dal 20 aprile 2010 al giugno 2012.
2. Il Tribunale, rilevata dagli esiti istruttori la privazione delle mansioni lamentata e ritenuto che tale condizione avesse determinato, come accertato dalla c.t.u. medico-legale, un “disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti” con un danno biologico temporaneo del 15% dal tempo della sua insorgenza, aveva condannato il Comune al pagamento di un risarcimento liquidato in Euro 10.492,35.
3. La sentenza era riformata dalla Corte d’Appello di Catania che, pronunciando sull’impugnazione del Comune di Pachino, rigettava la domanda risarcitoria originariamente proposta.
Riteneva la Corte territoriale che fosse da confermare la pronuncia di prime cure quanto all’an della richiesta risarcitoria condividendo la valutazione delle risultanze istruttorie come espressa dal Tribunale.
Sosteneva, invece, che non sussistesse alcuna correlazione cronologica tra la sintomatologia presentata dalla lavoratrice e gli episodi denunciati.
Rilevava che le risultanze della documentazione prodotta dalla A.A. ed in particolare una richiesta di accertamenti del servizio psichiatrico del febbraio 2010 ed altro documento consistente in una prescrizione farmacologica dell’aprile 2010 con l’indicazione della diagnosi “depressione ansiosa” escludessero irrimediabilmente la riconducibilità causale del danno lamentato all’inadempimento datoriale che la stessa ricorrente aveva collocato con l’inizio di una “situazione di protratta conflittualità nell’ambiente di lavoro iniziata nell’aprile 2010” ed in particolare con un momento ben preciso individuato nell’ordine di servizio n. 16 del 21/4/2010.
4. Avverso tale decisione A.A. ha proposto ricorso con tre motivi.
5. Il Comune di Pachino ha resistito con controricorso.
6. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Diritto
1. Va preliminarmente respinta l’eccezione, sollevata dal Comune controricorrente, di improcedibilità del ricorso per deposito dello stesso oltre i termini di cui all’art. 369 cod. proc. civ.
La sentenza impugnata è stata depositata il 23 aprile 2019 (il termine semestrale per impugnare scadeva il 23 ottobre 2019).
La notifica del ricorso (richiesta a mezzo posta in data 15 ottobre 2019) è avvenuta in data 29 ottobre 2019 (stante la temporanea assenza del destinatario è stato immesso rituale avviso nella cassetta in data 23 ottobre 2019 ed il plico è stato ritirato presso l’ufficio postale entro i dieci giorni successivi e cioè il 29 ottobre 2019).
Come già affermato da questa Corte (ex multis Cass. 17 luglio 20023, n. 11201; Cass. 26 giugno 2007, n. 14742; Cass. 3 dicembre 2015, n. 24639), in ipotesi di notificazione a mezzo del servizio postale del ricorso per cassazione, il termine di venti giorni dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto, previsto dall’art. 369 cod. proc. civ. a pena di improcedibilità, decorre dalla data di consegna del plico al destinatario.
Nello specifico, dunque, dal suddetto 29 ottobre 2019 iniziava a decorrere il termine di 20 giorni per il deposito in cancelleria (termine che quindi scadeva il 18 novembre 2019, lunedì).
Il deposito del controricorso in cancelleria è avvenuto in data 6 novembre 2019 e l’iscrizione a ruolo il successivo 11 novembre 2019 (e dunque entro il suddetto termine).
2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 52 D.Lgs. n. 165/2001 in materia di assegnazione delle mansioni nel pubblico impiego e art. 2013 cod. civ. ed ancora violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 81/2008, degli artt. 2043, 2087, 1218, 1223 e 2697 cod. civ. in materia di risarcimento del danno e onere della prova e tutela della salute dei lavoratori e dei luoghi di lavoro”.
Sostiene che Corte d’Appello, dopo aver accertato una situazione di forzata inattività (mobbing), non ha dato alcuna rilevanza al mancato assolvimento da parte del Comune della prova di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia della dipendente non era ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
Assume che la Corte territoriale non ha valutato ai fini della prova del danno e del nesso di causalità le condizioni di lavoro e dell’ambiente lavorativo che la ricorrente è stata costretta a subire per oltre due anni, ambiente insalubre e privo di ogni norma di sicurezza che le ha causato un infortunio sul lavoro, non dando alcuna rilevanza al nesso di causalità fra tali condizioni di lavoro e l’infortunio subito in data 22.9.2011 per mancanza di dispositivi antiscivolo sulle scale di accesso all’ufficio.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043, 2087, 1218, 1223, 1226 e 2697 cod. civ. in materia di risarcimento del danno ed onere della prova ed ancora violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.
Sostiene che ha errato la Corte d’Appello nel non riconoscere il nesso di causalità tra la condotta vessatoria del Comune ed il danno non patrimoniale subito dalla ricorrente, per come riconosciuto dalla sentenza di primo grado e degli esiti della c.t.u. medica fatti propri dal suddetto decidente.
Assume che il ragionamento della Corte territoriale non è supportato da idonea valutazione medico/legale.
Sostiene che anche l’esistenza, di una presunta precedente patologia non basterebbe da sola ad escludere il nesso di causalità con i danni denunziati dalla ricorrente alla luce della complessa vicenda giuridica del suo perdurare e dei successivi certificati medici prodotti del 13 marzo 2012 (alleg. 13 del fascicolo di primo grado) e del 7 agosto 2012. (alleg. 4 del fascicolo del reclamo).
Rileva che la Corte d’Appello non ha valutato se le evenienze lavorative non avessero comunque peggiorato il quadro clinico della ricorrente e/o fossero stati concausa, tenuto conto della diagnosi medica accertata in primo grado.
4. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. sulla condanna alle spese omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 co. 1 n. 5 cod. proc. civ.
Sostiene che abbia errato la Corte di Appello nel condannare la ricorrente alle spese del giudizio di primo e secondo grado, compensandole soltanto in ragione di un terzo.
Assume che tale condanna al pagamento delle spese del giudizio dal sapore quasi punitivo della lavoratrice non è conforme anche ai principi sanciti dalla recente pronunzia della Corte Costituzionale con la sentenza n. 77 del 19 aprile 2018.
5. Sono fondati, per quanto di ragione, i primi due motivi di ricorso.
6. È ormai pacifico, per effetto del giudicato interno, che, nel periodo oggetto di causa, vi sia stata “l’illegittimità della condotta dell’amministrazione di mantenere l’odierna appellante in una situazione non solo di forzata inattività ma anche di isolamento lavorativo” (v. sentenza impugnata, pag. 4).
Non vi è dubbio, allora, che da parte dell’Amministrazione sia stato un comportamento violativo dell’art. 2087 cod. civ., norma che postula la rilevanza di quei doveri del datore di lavoro nei confronti dei suoi subordinati che vanno oltre il mero rispetto delle norme di sicurezza prescritte esplicitamente essendo estesi all’obbligo generale di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato.
Ed infatti il comportamento del datore di lavoro che lasci in condizione di forzata inattività il dipendente, pur se non caratterizzato da uno specifico intento persecutorio ed anche in mancanza di conseguenze sulla retribuzione, può determinare un pregiudizio sulla vita professionale e personale dell’interessato, suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa.
Questa Corte ha, in particolare, affermato, riguardo ai rischi collegati allo stress lavoro-correlato che il datore di lavoro è tenuto a prevenire, che il suddetto art. 2087 cod. civ. è generale fonte di un obbligo in base al quale è compito del datore di lavoro la valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004…”. Accordo sottoscritto dalle parti sociali a livello comunitario sullo “stress da lavoro”, definito come uno “stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali” che, in caso di “esposizione prolungata”, può “causare problemi di salute” (par. 3) e che, pertanto, investe la “responsabilità dei datori di lavoro… obbligati per legge a tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori” (par. 5) – v. ex plurimis Cass. 15 novembre 2022, n. 33639 -.
In questa prospettiva di progressiva rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori si alimenta l’obbligazione di sicurezza gravante sul datore di lavoro.
7. Tanto precisato in termini generali, altro dato inconfutabile emergente dagli atti, è che la ricorrente, come accertato dal c.t.u. nominato dal Tribunale, “è risultata essere stata affetta da disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti; la suddetta condizione, documentata dall’aprile 2010, è compatibile, sul piano eziopatogenetico, con una situazione di protratta conflittualità nell’ambiente di lavoro iniziata nell’aprile del 2010” – v. sentenza impugnata pag. 5 -.
L’affermazione è netta e rispetto ad essa la Corte territoriale è pervenuta a conclusioni invero opposte rispetto a quelle raggiunte dal giudice di prime cure, apoditticamente e genericamente valorizzando atti di parte ed emergenze probatorie differenti da quelli favorevolmente considerati dal Tribunale, senza invero indicare argomento alcuno idoneo a rendere comprensibile l’iter logico-giuridico seguito, omettendo in particolare di spiegare quali ragioni l’abbiano indotta a privilegiare questi ultimi in luogo dei primi.
8. Come questa Corte ha già avuto più volte modo di porre in rilievo, il giudice, allorquando non abbia le cognizioni tecnico-scientifiche necessarie ed idonee a ricostruire e comprendere la fattispecie concreta in esame nella sua meccanicistica determinazione ed evoluzione, pur essendo peritus peritorum deve fare invero ricorso a una consulenza tecnica di tipo percipiente, quale fonte oggettiva di prova (cfr. Cass. 22 febbraio 2016, n. 3428; Cass. 30 settembre 2014, n. 20548; Cass., 27 agosto 2014, n. 18307; Cass. 26 febbraio 2013, n. 4792; Cass. 13 marzo 2009, n. 6155; Cass. 19 gennaio 2006, n. 1020), sulla base delle cui risultanze è tenuto a dare atto dei risultati conseguiti e di quelli viceversa non conseguiti o non conseguibili, in ogni caso argomentando su basi tecnico-scientifiche e logiche (cfr. Cass. 26 febbraio 2013, n. 4792; Cass., 13 marzo 2009, n. 6155; Cass., 19 gennaio 2006, n. 1020).
Si è al riguardo precisato che il giudice può anche disattendere le risultanze della disposta c.t.u. percipiente, ma solo motivando in ordine agli elementi di valutazione adottati e agli elementi probatori utilizzati per addivenire all’assunta decisione (cfr. Cass. 3 marzo 2011, n. 5148), specificando le ragioni per cui ha ritenuto di discostarsi dalle conclusioni dell’ausiliare (cfr. Cass. 26 agosto 2013, n. 19572; Cass. 7 agosto 2014, n. 17747; e, da ultimo, Cass. 11 gennaio 2021, n. 200).
Orbene, nell’impugnata sentenza la Corte di merito non ha fatto buon governo del suindicato principio. In particolare, a fronte dell’affermazione del consulente tecnico d’ufficio secondo cui la riscontrata condizione di disturbo dell’adattamento, documentata dall’aprile 2010, “è compatibile, sul piano eziopatogenetico, con una situazione di protratta conflittualità nell’ambiente di lavoro iniziata nell’aprile del 2010”, non è dato rinvenire alcuna esplicitazione riguardo al diverso criterio logico che nel caso ha presieduto alla formazione del proprio convincimento né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr., Cass. 14 febbraio 2020, n. 3819).
La valorizzazione dell’esistenza di un documento datato febbraio 2010, consistente in una richiesta di accertamenti ematochimici a firma del responsabile del servizio psichiatrico di diagnosi e cura del presidio ospedaliero di A e di un secondo documento, datato 10 aprile 2010, rilasciato dal medesimo servizio psichiatrico, consistente in una prescrizione farmacologica con l’indicazione della diagnosi “depressione ansiosa”, non è tale da idoneamente contrastare l’esito della valutazione medico-legale e l’oggettivo riscontro di un disturbo dell’adattamento ricollegabile alla situazione lavorativa.
Non vi è stata alcuna precisa valutazione di diagnosi a confronto né alcuna indicazione di quale sarebbe stata la causa della malattia diversa dall’ambiente di lavoro.
Né vi è stata alcuna considerazione, eventualmente sulla base di un supplemento di consulenza tecnica, di quanto la condizione lavorativa possa avere eventualmente inciso su un pur pregresso stato patologico.
Sul punto va ricordato che, come affermato da questa Corte di legittimità (Cass. 9 novembre 2022, n. 33080), rileva l’apporto eziologico anche della dose cd. correlata ovvero del permanere della esposizione ai fattori di rischio (dunque della condotta inadempiente ex art. 2087 cod. civ.) successiva all’eziopatogenesi della malattia.
È stato, in particolare, precisato che questo approccio coglie meglio il complesso fenomeno causale, dando rilevanza anche alle condotte inadempienti rispetto agli obblighi di sicurezza di cui agli artt. 2087 cod. civ. successive alla genesi della patologia delle quali va verificata l’incidenza eziologica come fattore di aggravamento o accelerazione.
9. Da tanto consegue che il primo ed il secondo motivo vanno accolti nei termini di cui alla motivazione che precede (assorbito il terzo motivo).
La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d’Appello di Catania che, in diversa composizione procederà ad un nuovo esame e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
10. Non sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Catania, in diversa composizione […]”.
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