di Gustav Ida
Poco più di un anno fa, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in un messaggio al convegno (o, se si preferisce, “convention”) della Dc a Saint Vincent, così disse: “Abbiamo sulle nostre spalle una responsabilità storica: consolidare la democrazia dell’alternanza e accompagnare finalmente l’Italia, con la riforma costituzionale che questo Governo intende portare avanti, nella Terza Repubblica”.
Occorre ricordare che l’Italia, nonostante gli annunci, i proclami, le promesse e i maldestri tentativi di riforma, è ancora nella Prima Repubblica. I termini Seconda e Terza sono giuridicamente scorretti, perché, per la Seconda, si considera come elemento di discontinuità la trasformazione (solo) politica avvenuta durante il biennio 1992-1994, che però non si risolse in un cambiamento costituzionale ma solo in un mutamento del sistema elettorale. Ciò accadde dopo ii referendum per la preferenza unica e per il maggioritario e, in seguito all’inchiesta “mani Pulite”, dopo una vera e propria crisi del sistema politico ed economico.
Quanto all’espressione “terza Repubblica”, giova riportare le considerazioni espresse nel 1994 da Temistocle Martines sulla formula “seconda Repubblica”, ancora oggi attuali:
“Con tali espressioni si indicano, nel linguaggio corrente, la Repubblica così com’era venuta ad ordinarsi negli anni trascorsi (prima) e la Repubblica come dovrebbe ordinarsi (o come, secondo alcuni, è già ordinata) dopo il referendum sulla legge elettorale del Senato ed il conseguente mutamento della classe politica al potere in seguito alle elezioni del 1994 (seconda).
La seconda Repubblica si dovrebbe distinguere (o si distinguerebbe già) dalla prima perché tende ad eliminare i gravi difetti della prima, dalla instabilità politica al consociativismo, dalla corruzione alla partitocrazia ed allo statalismo, ed a stabilire nuove regole politiche e giuridiche per un efficiente governo dello Stato […].
Non sta a noi, almeno in questa sede, valutare se il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica sia effettivamente avvenuto, se la catarsi è in corso o se c’è già stata. Ci limitiamo pertanto ad osservare che parlare oggi di seconda Repubblica è, sotto il profilo giuridico, errato, perché, sino a quando non si procederà ad incisive modifiche della Costituzione vigente o, ancor di più, ad approvare una nuova Costituzione, non si può (come l’esperienza francese ampiamente dimostra) assegnare un numero ordinale al termine Repubblica. Non siamo insomma, sino adesso, né nella prima né nella seconda Repubblica; siamo nella Repubblica voluta dal popolo con il referendum istituzionale del 1946, il cui ordinamento è disciplinato dalla Costituzione del 1947”[1].
Insomma, la “Prima Repubblica” è l’unica che abbiamo. Il suo assetto istituzionale di democrazia parlamentare ha dimostrato di essere flessibile e adattabile, di saper affrontare le sfide superandole mantenendo intatti i suoi principi ideali e i suoi cardini istituzionali. L’edificio costituzionale repubblicano non è sostanzialmente cambiato malgrado i profondi cambiamenti intervenuti nel sistema partitico italiano.
[1] “A futura memoria”, in T. Martines, Opere, III, Ordinamento della Repubblica, Giuffrè, Milano 2000, p. 290.
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