(Studio legale G.Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici).

Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 26 gennaio 2024 n. 2516.

Licenziamento per motivi disciplinari. Attività lavorativa durante il periodo di malattia. Valutazione gravità e proporzionalità. Presunzione dell’inesistenza della malattia.

Durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.

Quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti posti a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, primo comma, nn. 1), 2), 3), 4), c.p.c.

“[…] Fatti di causa.

1. La Corte d’Appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Latina del 18/12/2018 di rigetto dell’impugnativa di L.F. del licenziamento intimatogli dalla società R.A.T. il 5/11/2010 per motivi disciplinari (aver prestato attività lavorativa per due giorni presso attività commerciale della coniuge, durante periodo di assenza per malattia di una settimana, attività accertata tramite agenzia investigativa).

2. Avverso la predetta sentenza L.F. propone ricorso per cassazione con 5 motivi, illustrati da memoria, cui resiste la società con controricorso.

3. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo, parte ricorrente deduce (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 2, legge n. 300/1970:

sostiene che la Corte di merito ha erroneamente affermato che la lettera di contestazione non si riferiva solo all’incompatibilità tra attività svolta e malattia certificata, ma anche al ritardo della guarigione, ponendo così a base della decisione un fatto non contestato né allegato come motivo di licenziamento.

2. Con il secondo motivo deduce (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.) violazione degli artt. 99, 112 e 115 c.p.c.:

sostiene che la Corte di merito ha erroneamente posto a base della decisione il fatto, non appartenente al processo, del potenziale ritardo nella guarigione, superando i limiti contrassegnati dal tenore della lettera di licenziamento, così realizzando un error in procedendo per vizio di extra-petizione o ultra-petizione determinante nullità della sentenza.

3. Con il terzo motivo deduce (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. c.c. sull’interpretazione degli atti negoziali unilaterali: sostiene che la Corte di merito ha erroneamente proceduto ad interpretazione extra-testuale della lettera di licenziamento, in violazione della regola della priorità dell’interpretazione letterale, che non consente di attribuire alle espressioni della parte significati diversi dal senso proprio delle parole utilizzate secondo il fine da questa perseguito.

4. Con il quarto motivo, parte ricorrente censura la sentenza impugnata (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.) per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., che vietano al giudice di ricorrere a scienza privata o ad opinioni personali, così realizzandosi un error in procedendo determinante nullità della sentenza.

5. Con il quinto motivo deduce (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.) vizio di motivazione per omesso esame di fatto decisivo e controverso, per avere il giudice omesso di considerare che l’esito della CTU, cui ha dichiarato di aderire, ha correlato l’ipotesi del ritardo nella guarigione a due requisiti di necessaria compresenza; “molteplici episodi” e “periodi ripetuti”, affermando, invece, solo l’esistenza del primo fatto storico, trascurando il rilievo dell’inesistenza del secondo.

6. Il primo e il terzo motivo, da trattare insieme perché entrambi riguardanti la (denunciata non) corrispondenza tra contestazione dell’addebito e prova della giusta causa di recesso, non sono ammissibili.

7. L’interpretazione degli atti negoziali (ai quali è da assimilare ai fini ermeneutici la lettera di licenziamento quale atto unilaterale recettizio) implica un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, che, come tale, può essere denunciato in sede di legittimità solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per vizio motivazionale, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti; si è, in particolare, precisato come la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non si può limitare a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assume violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, denunciare in sede di legittimità il fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 21858/2023, n. 19089/2018, n. 28319/2017, n. 15471/2017, n. 25270/2011, n. 15890/2007, n. 9245/2007).

8. Inoltre, l’interpretazione degli atti negoziali – che è riservata al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove rispettosa dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e sorretta da motivazione immune da vizi – va condotta sulla scorta di due fondamentali elementi che si integrano a vicenda, e cioè il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto, nell’ambito non già di una priorità di uno dei due criteri, ma in quello di un razionale gradualismo dei mezzi d’interpretazione, i quali debbono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale (cfr. Cass. n. 8088/2023, n. 701/2021, n. 11666/2022, n. 33425/2022).

9. Tali principi generali operano precipuamente anche in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, in cui la valutazione della gravità e proporzionalità della condotta rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, con la quale viene riempita di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.; questa Corte non può sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento di concetti giuridici indeterminati, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, e tale sindacato sulla ragionevolezza non è quindi relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazionel’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n.13534/2019, e giurisprudenza ivi richiamata; cfr. anche Cass. n. 985/2017, n. 88/2023; v. anche, Cass. n. 14063/2019, n. 16784/2020, n. 17321/2020, n. 26043/2023).

10. Da tali principi non si è discostata la sentenza impugnata che, da un lato, ha osservato che il comportamento del dipendente che presti attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia può costituire giustificato motivo di recesso ove integrante una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, tanto nel caso in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, quanto nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante (e non ex post come pretende parte ricorrente), in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. Appunto sulla base della potenziale idoneità dell’attività lavorativa svolta a favore di terzi dal dipendente durante il periodo di malattia oggetto di contestazione, la Corte di merito ha fondato il proprio giudizio di sussunzione del comportamento concreto, quale risultante anche dagli accertamenti peritali svolti nel procedimento dinanzi al Tribunale, nella clausola generale di cui all’art. 2119 c.c.

11. Il secondo motivo, che per certi versi prospetta le medesime questioni sotto il profilo della nullità procedimentale, non è fondato.

12. La dedotta nullità procedimentale non è invero ravvisabile nello svolgimento di CTU per verificare se lo svolgimento di attività lavorativa durante il periodo di malattia, contestato come in violazione degli obblighi di diligenza e buona fede nonché di rendersi reperibile nella fascia oraria di controllo, fosse effettivamente incompatibile con tali obblighi o se fosse invece irrilevante e non lesivo di tali canoni; ciò nell’ambito del principio, operante in materia di licenziamento disciplinare, di necessaria correlazione dell’addebito con la sanzione (cfr. Cass. n. 3079/2020).

13. Poiché, come detto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (Cass. n. 26496/2018, 10416/2017), è del tutto funzionale all’accertamento dell’effettiva violazione dei predetti obblighi l’approfondimento medico-legale finalizzato alla valutazione dell’attività svolta in favore di terzi in relazione alla patologia giustificante l’assenza dal lavoro presso il datore, per così dire, principale. Detto accertamento è risultato nel senso dell’incompatibilità in concreto dell’attività in favore di terzi svolta con i doveri del dipendente nei termini valutativi ex ante come esposti. La questione oggetto di accertamento medico risulta pertanto del tutto rientrante nell’ambito delle domande ed eccezioni svolte dalle parti e senza sconfinamenti esterni a petitum e causa petendi devoluti nel doppio grado di merito.

14. Parimenti infondato risulta il parallelo quarto motivo.

15. Parte ricorrente denuncia la nullità dei passaggi motivazionali della sentenza che, seguendo gli esiti della consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado e dei successivi chiarimenti, hanno qualificato l’attività svolta in costanza di malattia come potenzialmente idonea a ritardare la guarigione, in quanto ripetuta nel periodo di malattia; hanno considerato tale potenzialità, con valutazione ex ante, pregiudizievole e in violazione dei doveri generali incombenti sul dipendente; ritenuto, in base a tali accertamenti, fondato l’addebito disciplinare a base del licenziamento. Rispetto a tale ragionamento parte ricorrente finisce con il contrapporre il proprio dissenso motivazionale, non rientrante nel paradigma della denunciata nullità, attesa la congruenza tra gli accertamenti svolti e le conclusioni giuridiche tratte dai giudici di merito.

16. Il quinto motivo è inammissibile.

17. La Corte d’Appello di Roma ha confermato integralmente le statuizioni di primo grado, così realizzandosi ipotesi di cd. doppia conforme rilevante ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. (ora 360, comma 4, c.p.c.) e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., nel senso che, quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti posti a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, primo comma, nn. 1), 2), 3), 4), c.p.c.; il ricorrente per cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo riformulato applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012), deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774/2016; conf. Cass. n. 20994/2019, n. 8320/2021, n. 5947/2023), tenendo conto che ricorre l’ipotesi di «doppia conforme», con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (v. Cass. n. 29715/2018, n. 7724/2022, n. 5934/2023, n. 26934/2023).

18. Il ricorso deve pertanto essere respinto.

19. In ragione della soccombenza parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione in favore di parte controricorrente delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

20. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per l’impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso […]”