Audizione in Senato, il 13.12.2023, del Professor Enzo Cheli (Vice Presidente emerito della Corte costituzionale), sui disegni di legge nn. 935 e 830 (modifiche costituzionali per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri)

1. Vorrei muovere da una prima considerazione. Oggi, a differenza di quanto accadeva fino ad un recente passato, esiste tanto in sede politica quanto nell’opinione pubblica un forte consenso in ordine alla necessità di una riforma costituzionale della nostra forma di governo in grado di rafforzare la stabilità del Governo e rendere più efficace la funzione di indirizzo politico che lo stesso Governo esercita in nome della maggioranza. Non esiste, invece, consenso, ma un forte dissenso in ordine al percorso da seguire per raggiungere questo obbiettivo comune. Scegliere la strada di un intervento come quello espresso nei disegni in esame diretto a sostituire l’attuale forma di governo parlamentare con una forma di ispirazione presidenziale incentrata sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio o rafforzare con adeguati strumenti istituzionali la forma di governo parlamentare di cui disponiamo?

2. Se la forma di governo è, come comunemente si pensa, un abito che va adattato alle caratteristiche del corpo politico che deve regolare, risulta evidente come la scelta di una forma di governo richieda preliminarmente una corretta analisi delle condizioni del sistema politico cui la stessa forma di governo va applicata. E fu proprio l’analisi delle caratteristiche del nostro sistema politico che condusse la Costituente nel dibattito che si svolse nel lontano 1946 sulla scelta della forma di governo del nuovo impianto repubblicano a respingere il modello di governo presidenziale, che era stato proposto dal Partito di azione e dal Partito repubblicano, per adottare, invece, una forma di governo parlamentare ancorché corretto da alcuni strumenti di stabilizzazione del Governo. La scelta maturò in base alla considerazione che il sistema politico emerso nel nostro paese dopo la fine del secondo conflitto mondiale si presentava molto frammentato per la presenza di “molti partiti molto divisi”, così come espressamente rilevava Costantino Mortati nella sua relazione sulla forma di governo. Una condizione questa della frammentazione che il governo presidenziale, accentuando lo scontro tra le forze in campo, avrebbe naturalmente aggravato e che imponeva invece l’adozione di un modello parlamentare in quanto più idoneo a favorire la convivenza, il colloquio e lo scambio tra queste forze.

3. Ora, dagli anni della Costituente molto tempo è passato, ma questo non esclude una certa continuità nelle condizioni strutturali del nostro sistema politico che, ancor oggi, dopo il fallimento della prospettiva bipolare inseguita negli anni 90 del secolo scorso, si trova ancora a fare i conti con la presenza di “molti partiti molto divisi”, cioè con uno stato di forte frammentazione. Situazione che ora, come allora, seguita a sconsigliare, senza un preventivo consolidamento del tessuto politico, un “salto di corsia” verso forme di stampo presidenziale che rischierebbero di aggravare anziché di ridurre l’instabilità governativa

4. Queste considerazioni riguardano ambedue i progetti in esame, ma investono in particolare il progetto governativo, che è stato già oggetto di molte critiche puntuali sia di natura tecnica che politica, critiche che non intendo qui ripetere. Vorrei, invece, in questa sede richiamare le tre anomalie di fondo che questo progetto presenta e che, a mio avviso, lo rendono impraticabile.

La prima anomalia, di natura prevalentemente tecnica, è che questo disegno definisce una forma di governo tutta inedita che non è né parlamentare né presidenziale, ma che assembla elementi diversi tra loro non compatibili al fine di concentrare nelle mani di una sola persona il potere di indirizzo politico del paese relativo all’arco di una intera legislatura. A parte la rigidità del modello che tende a ingessare le scelte per l’intera legislatura contravvenendo alla naturale flessibilità dei processi politici, è evidente come questa forma di governo si fondi sulla coesistenza di due elementi – l’elezione diretta ed il voto di fiducia – che per la loro diversa natura e diversa forza legittimante non sono in grado di coesistere né di operare contestualmente.

La seconda anomalia, di natura prevalentemente politica, riguarda lo scompenso che questo disegno determina nell’equilibrio che deve reggere nelle forme di governo il rapporto tra gli organi costituzionali, dal momento che in questo disegno viene differenziato il livello di legittimazione del Presidente del Consiglio dal livello di legittimazione del Capo dello Stato, che oltre a perdere per questo la sua posizione di vero Capo dello Stato, vede trasformati i suoi poteri fondamentali di nomina del Presidente del Consiglio e di scioglimento delle Camere da liberi in vincolati.

Emerge, infine, in questo progetto una terza anomalia che a me appare la più grave e che spiega anche l’assenza di questo modello nel quadro delle democrazie moderne. Questa assenza si spiega con il fatto che questo modello si presenta estraneo e contrario ad uno dei principi basilari del costituzionalismo moderno, liberale o democratico che sia, concernente l’impianto del potere esecutivo. Questo principio, come è noto, impone che nella forma di governo parlamentare il potere esecutivo dipenda fin dalla sua formazione dal potere legislativo attraverso la fiducia, mentre nella forma di governo presidenziale l’investitura popolare diretta del vertice del potere esecutivo è consentita a condizione di trovare una compensazione rigorosa nel rispetto del principio di separazione dei poteri. Separazione che non si riscontra nel disegno in esame dove il Parlamento fin dal momento della sua elezione (contestuale con quella del Presidente del Consiglio) risulta strettamente legato al vertice del Governo, che attraverso l’esercizio del potere di scioglimento esercita anche un controllo sulla durata e sugli svolgimenti della legislatura. Risulta così capovolto quel principio supremo che in una democrazia com’è la nostra colloca il Parlamento sopra il Governo e comunque esclude, anche nella forma di governo presidenziale, che il potere legislativo possa dipendere dal potere esecutivo. L’inversione del rapporto tra Parlamento e Governo intacca, nel nostro caso, le stesse basi di quella “democrazia rappresentativa” che viene definita nell’art. 1 della nostra carta costituzionale e di conseguenza va a incidere in quella “forma repubblicana” che la stessa costituzione, nell’art. 139, sottrae a revisione costituzionale.

Se questa, come si afferma, è solo la “riforma delle riforme” molti degli elementi ora richiamati indurrebbero a pensare che si tratti di un primo passo verso una svolta diametralmente opposta alla storia e allo spirito che animò il nostro impianto repubblicano al momento della sua nascita.

5. Imboccare la strada parlamentare così da ammodernare e rinforzare la forma di governo che già utilizziamo non significa, d’altro canto, ridurre le possibilità di una seria stabilizzazione del Governo e di un serio rafforzamento della sua funzione. Queste possibilità, nelle condizioni date, si possono ragionevolmente perseguire sia ricorrendo a soluzioni che hanno già ben operato in altri ordinamenti (Spagna e Germania), come la sfiducia costruttiva, sia utilizzando quegli strumenti che da tempo vengono suggeriti dalla scienza costituzionale come la fiducia separata concessa al Presidente del Consiglio insieme al potere di nomina e revoca dei ministri o come l’elezione parlamentare dello stesso Presidente secondo il modello del cancellierato tedesco che è pur sempre una variante del governo parlamentare. Linea che, ai fini di un corretto equilibrio tra potere legislativo e potere esecutivo, si potrebbe completare con un miglioramento anche della funzionalità delle Camere (profilo del tutto assente nel progetto in esame) trasformando il nostro bicameralismo da paritario in differenziato e ampliando, per le funzioni maggiori, il ricorso al Parlamento in seduta comune.

6. L’ultima osservazione che vorrei fare è che le cause prime dell’instabilità dei governi e delle difficoltà che si registrano nell’esercizio della forma di indirizzo politico da parte della maggioranza vanno ricercate non tanto in difetti della macchina costituzionale, bensì nella fragilità del tessuto politico sottostante e nel grado di dissonanza che oggi si registra tra corpo sociale e istituzioni governanti. L’osservazione vale in particolare per l’attuale realtà italiana e induce a cogliere il limite delle “grandi riforme” costituzionali ove le stesse non vengano completate da riforme della politica, da attuare anche attraverso leggi ordinarie, che, nel nostro caso, dovrebbero in primo luogo riguardare tanto la legge elettorale, specialmente ai fini di un necessario riavvicinamento dei cittadini al voto, quanto la disciplina ormai obsoleta dei partiti per una migliore definizione sia del loro funzionamento che del loro finanziamento.

Vi ringrazio.