Pronuncia della Corte costituzionale, del 9 Luglio 2020

20 Luglio 2020

SULL’ISCRIZIONE ANAGRAFICA DEI RICHIEDENTI ASILO[1].

 

“Irragionevole precludere L’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo”. Pronuncia della Corte costituzionale, del 9 Luglio 2020, sul primo “decreto sicurezza”.

1. IL 9 LUGLIO 2020 la Corte Costituzionale ha esaminato le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Milano, Ancona e Salerno relative alla norma che preclude l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, introdotta dal primo “decreto sicurezza”, il D.L. n.113/2018, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito in legge con L. 1° Dicembre 2018, n. 132

In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte ha fatto sapere che la disposizione censurata non è stata ritenuta dalla Corte in contrasto con l’articolo 77 della Costituzione sui requisiti di necessità e di urgenza dei decreti legge. Tuttavia, la Corte ne ha dichiarato l’incostituzionalità per violazione dell’articolo 3 della Costituzione sotto un duplice profilo: a) per irrazionalità intrinseca, poiché la norma censurata non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza; b) per irragionevole disparità di trattamento, perché rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi che siano anche ad essi garantiti.

2. ISCRIZIONE ANAGRAFICA.

L’art.13,D.L.n. 113/2018, modificando l’art.4 D.lgs. 142/2015, ha stabilito che il permesso di soggiorno per richiesta della protezione internazionale “non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”. Tuttavia la norma non pone alcun esplicito divieto ma si limita ad escludere che il particolare tipo di permesso di soggiorno motivato dalla richiesta di asilo possa essere documento utile per formalizzare la domanda di residenza. La giurisprudenza formatasi sul punto è orientata nel senso di ritenere ancora possibile per i richiedenti la protezione internazionale l’iscrizione anagrafica.

 3. ART. 13. Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica

Al decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) all’articolo 4:

1) al comma 1, è aggiunto,  in  fine,  il  seguente  periodo:  “Il permesso di soggiorno  costituisce  documento  di  riconoscimento  ai sensi  dell’articolo  1,  comma  1,  lettera  c),  del  decreto   del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”;

2) dopo il comma 1, è inserito il seguente:

 “1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non  costituisce titolo  per  l’iscrizione  anagrafica  ai  sensi  del   decreto   del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223,  e  dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”;

b) all’articolo 5:

1) il comma 3 è sostituito dal seguente:

“3. L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e  a  quelli comunque erogati sul territorio  ai  sensi  delle  norme  vigenti  è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1  e 2”;

2)  al  comma  4,  le  parole  “un  luogo  di  residenza”  sono sostituite dalle seguenti: «”n luogo di domicilio”;

c) l’articolo 5-bis è abrogato.

4. RIFERIMENTI NORMATIVI ESSENZIALI

-Art. 4, commi 1 e 1-bis  del  D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, come mod. dalla presente legge:

“Art.  4  (Documentazione). 

  1. Al  richiedente  è rilasciato un permesso di  soggiorno  per  richiesta  asilo valido nel territorio nazionale per sei  mesi,  rinnovabile  fino alla decisione della domanda o comunque per  il  tempo in cui è autorizzato a rimanere nel  territorio  nazionale  ai sensi  dell’art.  35-bis,  commi  3  e  4,  del decreto  legislativo  28  gennaio  2008,  n.  25.  Il  permesso   di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai  sensi  dell’art.  1,  comma  1,  lettera  c),  del   decreto   del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. 

1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma  1  non  costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del  decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989,  n.  223, e dell’art. 6, comma 7,  del  decreto  legislativo  25  luglio 1998, n. 286”.

-Per completezza d’informazione si  riporta  il  testo dell’art. 1, comma 1, lettera c) del decreto del Presidente  della Repubblica 28 dicembre  2000,  n.  445  (Testo  unico delle disposizioni legislative e regolamentari  in  materia  di   documentazione   amministrativa):   “Art. 1 (R) (Definizioni). – 1. Ai  fini  del  presente   testo unico si intende per:  (Omissis);  c) DOCUMENTO DI RICONOSCIMENTO ogni documento  munito  di  fotografia  del  titolare  e  rilasciato,  su  supporto cartaceo,  magnetico  o  informatico,   da   una   pubblica  amministrazione italiana o di  altri  Stati,  che  consenta  l’identificazione personale del titolare”;

-Il decreto del Presidente della Repubblica 30  maggio 1989, n.  223,  reca  “Approvazione  del nuovo  regolamento  anagrafico della popolazione  residente”. 

5. Di seguito riportiamo ampi STRALCI DELL’ORDINANZA DI RIMESSIONE DEL TRIBUNALE DI MILANO

ORDINANZA (Atto di promovimento)[2], 1°agosto 2019, del Tribunale di Milano, sul ricorso proposto da A. H., Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e Associazione “avvocati per niente onlus” contro Ministero dell’interno e Comune di Milano.

Giudice Laura Massari

“[…] 8. NON MANIFESTA INFONDATEZZA.

[…]

8.2. ART. 2 COST.

Quanto alle censure relative al contenuto della  disposizione  di cui all’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2), d.l. n. 113/2018, convertito  nella  l. n. 132/2018, la questione di legittimità costituzionale  appare,  ad avviso di questo giudice, non manifestamente infondata in  relazione,

in primo luogo, all’art. 2 Cost.

 Come già ampiamente argomentato, la disposizione in  questione, nell’unica lettura ammissibile, comporta il diniego generalizzato del diritto  di  iscrizione  anagrafica  per  gli  stranieri   legalmente soggiornanti sul  territorio  italiano  in  qualità  di  richiedenti asilo.

La Corte  Costituzionale  ha  oramai  da  tempo  abbracciato  una concezione dell’art. 2 Cost. quale “norma  di  apertura”,  idonea  a ricondurre  sotto  la  garanzia  costituzionalmente  prevista  per  i diritti inviolabili  anche  ipotesi  non  esplicitamente  contemplate nella Legge fondamentale, o che  non  siano  direttamente  desumibili dalle stesse. Vero punto di svolta è stata la pronuncia C. cost., 18 dicembre 1987, n. 561, che ha  riconosciuto  come  “fondamentale”  il diritto alla libertà sessuale, non presente in Costituzione, seguita da altre decisioni a  conferma,  come  quelle  che  hanno  ricondotto all’art. 2 Cost., ex pluribus, il diritto sociale all’abitazione  (C. cost., 7 aprile 1988, n. 404 e ID., 19 novembre  1991,  n.  419),  il diritto alla vita (C. cost.,  27  giugno  1996,  n.  223  e  ID.,  10 febbraio 1997, n. 35), il diritto di abbandonare il proprio paese (C. cost., 17 giugno 1992, n. 278), il  diritto all’identità  personale (C. cost., 3 febbraio 1994, n. 13; ID., 23 luglio 1996, n. 297;  ID., 11 maggio 2001, n. 120; ID., 21 dicembre 2016, n. 286), il diritto al rispetto e alla libera esplicazione della personalità (C. cost.,  30 luglio 1997, n. 283), il diritto alla famiglia (C. cost., 22 novembre 2013, n. 278).

La   Corte   ha   così   suggerito   un    carattere    dinamico dell’inviolabilità,  che  muta  al  mutare   della   società,   con un’apertura dei diritti inviolabili che non significa però una  loro indeterminatezza, dovendo e potendo essere ricompresi nel loro novero solo  quelli  che  siano  riconducibili   al   cuore  del   progetto costituente, ossia quello di predisporre per  ciascun  consociato  le condizioni per il conseguimento di una vita libera e degna.

Così, la dignità umana diventa tratto comune o,  meglio,  punto di arrivo di questi diritti inviolabili. 

La centralità della persona, d’altronde, trova diretto riscontro nel testo della norma  che,  nell’individuare  i  soggetti  a  cui  i diritti inviolabili devono essere riconosciuti,  non  fa  riferimento all’individuo  in  quanto  partecipe  di  una  determinata  comunità politica, ma in quanto essere umano,  parlando  di  riconoscimento  e garanzia,  da  parte  della  Repubblica,  dei  diritti   fondamentali dell’uomo (così, C. cost. 105/2001).

 “[..] Che la dignità umana e, quindi, i  diritti  necessari  alla  sua garanzia (ex art. 2 Cost) non spettino solo ai cittadini trova inconfutabile  conferma nei principi di  eguaglianza  e  di  parità  sociale  contenuti  nel successivo  art.  3  Cost.  Prima   di   tutto,   la   giurisprudenza costituzionale  ha  riconosciuto  come   “il   testuale   riferimento dell’art. 3, comma 1, Cost. ai soli cittadini non esclude  […]  che l’eguaglianza davanti alla legge sia garantita agli stessi  stranieri dove si tratti  di  assicurare  la  tutela  dei  diritti  inviolabili dell’uomo” (così, testualmente, C. cost. 54/1979; vedasi  anche,  C. cost. 120/1967; ID., 21/1968;  ID.,  104/1969;  ID.,  144/1970;  ID., 177/1974; ID., 244/1974 e ID., 490/1988) o che “quando venga in gioco il riferimento al godimento  dei  diritti inviolabili  dell’uomo  il principio costituzionale  di  eguaglianza  in  generale  non  tollera discriminazioni  fra  la  posizione  del  cittadino  e  quella  dello straniero” (C. cost. 62/1994).

I diritti inviolabili, dunque, rappresentano  campo  privilegiato di applicazione del principio di uguaglianza, così da assicurare una loro pari titolarità al cittadino e allo straniero.

Questo riconoscimento in favore  dello  straniero  non  ha  però impedito  alla  Corte  di  specificare  ulteriormente  la  questione, affermando come “tra cittadino  e  straniero,  benché  uguali  nella titolarità di certi diritti  di  libertà,  esistano  differenze  di fatto che  possano  giustificare  un  loro  diverso  trattamento  nel godimento di quegli stessi diritti” (C. cost. 104/1969).

Da  un  lato,  dunque,  l’espressione  “certi  diritti”   demarca l’esigenza di discernere tra diritti inviolabili  spettanti  solo  al cittadino  e  diritti  spettanti  al  cittadino  e  allo   straniero, dall’altro,  assume   rilevanza   l’esigenza   di   distinguere   tra titolarità – estesa  a  tutti –  e  godimento  – differentemente modulabile- di un diritto inviolabile.

In quest’ottica, la Corte ha introdotto il  concetto  di  “nucleo irriducibile” dei diritti inviolabili che, per i diritti non limitati ai cittadini, deve essere sempre e comunque riconosciuto a tutti  (C. cost. 252/2001). L’accesso e il godimento  di quella  porzione  di diritto involabile che eccede questo ‘nucleo’, invece,  ricadono  nel margine di discrezionalità spettante al legislatore: in questo caso, la  differenza  di  trattamento  tra   cittadino   e   straniero è ammissibile, ma, ad ogni modo, deve  restare  circoscritta  entro  il limite  per  cui  la   disparità  di   trattamento   non   sconfini nell’irragionevolezza.

Rinviando l’approfondimento su tale profilo al  successivo  punto riguardante la non manifesta infondatezza del contrasto con l’art.  3 della novella del 2018, in questa sede non resta che evidenziare come il diritto all’iscrizione anagrafica ricada tra i diritti  che  hanno come punto di approdo ultimo quello della dignità umana,  nella  sua dimensione individuale e sociale.

 L’iscrizione    anagrafica,    infatti,    diventa    presupposto dell’identificazione di se stessi anche  e  soprattutto  mediante  lo sviluppo di un senso di appartenenza con la comunità  locale  presso cui si  decide  di  fissare  la  propria  stabile  dimora.  Senso  di appartenenza   che,    dunque,    è   prodromico    all’inserimento dell’individuo nella società al cui interno egli può avere pieno  e libero svolgimento  della  propria  personalità,  come  riconosciuto dall’art. 2 Cost.

L’iscrizione anagrafica, quindi, diventa passo essenziale di quel processo di integrazione a  cui  sono  chiamati  tanto  lo  straniero quanto la società presso cui egli si stabilisce:  anche  qualora  si tratti di uno straniero richiedente asilo, a  fronte  dell’innegabile regolarità della sua presenza sul territorio italiano per  tutto  il

tempo necessario alla definizione  della  sua  richiesta.  Questo  in considerazione del fatto che,  al  di    delle  tempistiche è tutto fuorché istantanee con cui può essere definito il  suo  status,  la transitorietà è legittimamente riferibile solo  al  suo  status  di richiedente asilo, ma non  alla  sua  presenza  sul  suolo  italiano: l’intera  disciplina  dell’accoglienza  dei  richiedenti   protezione internazionale, infatti, non può che ritenersi  strutturata  attorno all’ipotesi dello  straniero  che  sia effettivamente  titolare  del diritto d’asilo, per il quale  il  processo  di  integrazione  (e  la presenza sul territorio italiano) costituisce un fluire  ininterrotto che inizi quale richiedente e continui quale titolare  di  protezione internazionale.

Infine, anche da un punto di vista simbolico, negare l’iscrizione anagrafica  significa   lasciare  l’individuo   al   margine   della collettività stessa, confinandolo in  un  “non  luogo”  giuridico  e sociale che appare sicuramente come un limite alla libera e dignitosa crescita della sua personalità e che  difficilmente  può  ritenersi compatibile con l’impegno alla partecipazione  alla  vita  economica, sociale e culturale che lo stesso legislatore individua come  momento saliente del processo di integrazione (art. 4 bis TUI). Basti pensare che l’iscrizione anagrafica è condizione per il rilascio della carta di  identità:  un  documento che,  anche  su  un  piano   meramente evocativo, esprime una maggiore identificazione con la  comunità  in cui ci si inserisce rispetto  al  solo  permesso  di  soggiorno  che, invece, comunica sempre e comunque una sensazione di estraneità.

Diventa così irrilevante  il  fatto  che  l’accesso  ai  servizi sociali generalmente erogati in base  alla residenza    e,  dunque, all’iscrizione anagrafica – venga ora garantito in base al domicilio, poiché’ il divieto di iscrizione anagrafica lede un diritto  autonomo e presupposto rispetto a questi ulteriori diritti sociali.

Allo stesso modo, la suesposta violazione dell’art.  2  Cost.  si verifica  anche  trascendendo  dalla  (tutto  fuorché  trascurabile) presenza nel nostro ordinamento – già evidenziata  nella  precedente sezione dedicata all’interesse ad agire – di diritti sociali, a  loro volta fondamentali e inviolabili, la cui titolarità deriva sempre  e comunque  dalla  durata  della  residenza  sul  territorio   italiano (diritto all’acquisto della  cittadinanza,  all’accesso  all’edilizia popolare, all’accesso al reddito di cittadinanza, ecc.).

Tutto ciò posto, non rimane che confermare come  il  diritto  di iscrizione anagrafica sia – fuori ogni dubbio –  un  diritto  di  cui possono  essere  titolari  anche  gli  stranieri.  Come  già  visto, infatti, tale diritto è riconosciuto, alle medesime  condizioni  che ai cittadini italiani, anche agli stranieri  legalmente  soggiornanti (cfr., in primis„  l’art.  6,  comma  7,  TUI),  tra  cui  certamente ricadono anche gli stranieri richiedenti asilo titolari  di  apposito permesso.

D’altra  parte,  ciò  che   sembra   comportare   l’applicazione dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n.  142/2015,  introdotto  dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, non è una (ragionevole)  compressione  del  diritto  in questione, conforme  al  principio dell’ammissibilità  del  diverso trattamento nel godimento  dei  diritti  tra  italiani  e  stranieri, quanto piuttosto una sua negazione totale in  capo  a  una  specifica categoria di stranieri, senza che possa ravvisarsi alcun  margine  di conservazione di un suo ‘nucleo essenziale’.

8.3. ART. 3 COST.

La questione, anche alla luce  di  quanto  già  esposto,  appare inoltre non manifestamente infondata in relazione all’art. 3 Cost. la cui applicabilità agli stranieri è pacificamente riconosciuta dalla Corte costituzionale.

All’applicabilità in astratto del principio di eguaglianza  agli stranieri  si  aggiunge,  nel  caso  di  specie,  il   suo   espresso riconoscimento  normativo  in  relazione  al  diritto  di  iscrizione anagrafica: l’art. 6, comma 7, TUI introduce  come  regola  generale, infatti,  quella  dell’iscrivibili’  degli  stranieri   legalmente soggiornanti in Italia all’anagrafe della popolazione residente, alle medesime condizioni dei cittadini italiani. L’art. 4,  comma  l  bis, d.lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13  d.l.  n.  113/2018, costituisce così una deroga a tale disciplina  generale  disponendo, come già argomentato,  la  non  iscrivibili’  di  una  particolare tipologia  di  stranieri  legalmente   soggiornati  sul   territorio nazionale – i richiedenti  asilo    all’anagrafe  della  popolazione residente.

D’altra parte, tale deroga non  appare  capace  di  soddisfare  i requisiti  di  razionalità  e  ragionevolezza  che  costituiscono  i parametri tradizionalmente  adottati  dalla  Corte  per  svolgere  il giudizio costituzionale di eguaglianza.

Il primo comporta  una  verifica  della  coerenza  tra  la  norma soggetta a sindacato di costituzionalità  e  le  altre  disposizioni normative nella stessa materia, così da verificare se  sussista  una congruità dispositiva o, invece, vi siano contraddizioni  insanabili (in questo senso, C. cost., n. 10/1980).

La presenza di contraddizioni insanabili tra l’art.  4,  comma  1 bis, d.lgs. n. 142/2015 e  il  contesto  normativo  in  cui  esso  si inserisce appare, a questo punto, configurabile sotto  una  serie  di profili, ulteriori rispetto al contrasto tra la previsione in esame e il  diritto,  per  tutti  gli  stranieri  legalmente   presenti   sul territorio, all’iscrizione anagrafica.

Primo sintomo dell’irrazionalità della norma e  del  trattamento differenziato  che  essa  introduce  è  la  sua  incoerenza  con  le finalità perseguite dal legislatore mediante l’adozione del d.l.  n. 113/2018, all’interno del quale si colloca la disposizione stessa.      Negare l’iscrizione anagrafica  ai  richiedenti asilo  significa limitare, in primo luogo, le capacità di  controllo  e  monitoraggio dell’autorità pubblica su una categoria di stranieri, rendendo  più incerti i dati relativi alla loro presenza sul territorio e  ai  loro spostamenti. Ciò mal  si  coniuga,  come  detto,  con  le  finalità perseguite dal decreto, tra cui compaiono l’esigenza di rafforzare  i dispositivi a garanzia della sicurezza pubblica  e  il  potenziamento delle  misure  di   rimpatrio.   Limitare   le   informazioni   sulla localizzazione di una categoria  di  stranieri  caratterizzata  dalla precarietà del  loro  diritto  di  permanenza  sul  suolo  nazionale (quanto meno secondo l’ottica seguita dal legislatore nel negare loro l’iscrizione anagrafica) non appare compatibile  con  tali  esigenze.

Questa inconciliabilità logica rende così plausibile  l’assenza  di giustificazioni della disciplina derogatoria introdotta con  il  d.l. n.  113/2018  al  generale  regime  di  uguaglianza  tra  italiani  e stranieri nel diritto all’iscrizione anagrafica.

Tutto ciò trova ulteriore conferma se si ragiona sulla  coerenza tra l’art. 4, comma  1  bis,  d.lgs.  n.  142/2015  e  la  disciplina dell’ordinamento  delle  anagrafi  della  popolazione  residente.  La presenza di una  sanzione  specificamente  indirizzata  a  tutti  gli stranieri – quindi anche i richiedenti asilo – che non  procedano  ad iscrizione anagrafica (art. 11 1. n.  1228/1954)  altro  non  fa  che ribadire la natura obbligatoria di tale  iscrizione  (art.  2  1.  n. 1228/1954), che risulta così chiaramente preposta al soddisfacimento di primari interessi pubblici, tra cui proprio quello  di  assicurare la puntuale conoscenza dei soggetti presenti sul territorio  italiano e, dunque, anche la sicurezza pubblica. E’ palese  la  contraddizione di una normativa  che,  da  un  lato,  impedisce  allo  straniero di iscriversi all’anagrafe e, dall’altro, individua  nell’iscrizione  un obbligo rafforzato da una sanzione amministrativa, per di più  senza che la disciplina del  2018  contenga  una  deroga  espressa  a  tale obbligo (e a tale sanzione) per i richiedenti asilo.

Da ultimo, negare l’iscrizione anagrafica  ai  richiedenti  asilo mostra la sua incoerenza con le finalità  perseguite  dal  d.lgs.  a 142/2015, al cui art. 4 si inserisce la modifica apportata  dall’art. 13, comma 1, lett. a), n.  2,  d.l.  n.  113/2018.  La  direttiva  n. 33/2013, recepita tramite il  d.lgs.  n.  142/2015,  mira  infatti  a introdurre una disciplina di garanzia  e  tutela  per  i  richiedenti asilo,  diretta  a  creare  “uno  spazio  di  libertà,  sicurezza  e giustizia  aperto  a  quanti,  spinti  dalle   circostanze,   cercano legittimamente protezione nell’Unione”.  Di  talché’,  gli  specifici obiettivi di migliorare l’accoglienza e, soprattutto,  di  “garantire un livello di vita  dignitoso”  al  richiedente  asilo  non  sembrano affatto compatibili con l’istituzione di un non  necessario  ostacolo all’integrazione e al libero  sviluppo  individuale  dello  straniero qual è la negazione del diritto d’iscrizione anagrafica,  come  già sopra argomentato.

Passando al controllo sulla ragionevolezza dell’art. 4,  comma  1 bis,  d.lgs.  n.  142/2015,  anch’esso  dimostra  l’assenza  di   una giustificazione al trattamento differenziato tra richiedenti asilo  e cittadini  italiani,  nonché  tra  richiedenti  asilo  e  gli  altri stranieri legalmente presenti sul territorio nazionale.

In  generale,  possono  considerarsi  violative   del   principio costituzionale di uguaglianza le deroghe alla disciplina generale di una materia, prive di giustificazione adeguata, capaci di  introdurre ipotesi ingiustificate di  disparità  di  trattamento,  per  esempio imponendo sacrifici irragionevoli ad una categoria di soggetti (così C. cost., nn. 4, 24, 76/1994; e ID., 285/1995).

Prima  di  tutto,  risulta   difficile   (se   non   impossibile) comprendere quale sia l’interesse che il  legislatore  ha  perseguito nell’introduzione  del  divieto  di  iscrizione  anagrafica   per   i richiedenti asilo,  che  fornirebbe  una  motivazione  al  sacrificio imposto a questa categoria di stranieri:  il diniego  di  iscrizione anagrafica, come già evidenziato,  ne’  apporta  ulteriori  garanzie alla sicurezza  pubblica,  ne’  facilita  l’espulsione  di  stranieri irregolari, ne’ può considerarsi  un  passo  mosso  verso  una  più efficiente accoglienza  di  questi  soggetti.  Non  si  coglie  quale vantaggio – anche meramente economico – derivi dunque alla Repubblica da tale previsione. Né, d’altra parte, lo status di richiedente presenta in concreto caratteristiche tali  da  legittimare  l’esclusione  dal diritto  di iscrizione anagrafica.

Per un’ultima volta, anche  i  richiedenti  asilo  sono  soggetti legalmente presenti sul territorio italiano, proprio come attesta  il rilascio  di  un  apposito  permesso   di   soggiorno. Non appare ragionevole, poi, giustificare il diniego di iscrizione anagrafica  a fronte della provvisorietà del diritto di soggiorno. Prima di tutto, ad essere provvisorio è solo lo  status  di  richiedente  asilo,  il quale è destinato a  tramutarsi    nell’ipotesi  fisiologica    in status di titolare di  protezione  internazionale,  la  cui  regolare presenza  sul  territorio  italiano  prosegue,  senza  soluzione   di continuità alcuna. D’altra  parte,  non  sembra  razionale  porre  a fondamento della negazione del diritto di  iscrizione  anagrafica  la diversa ipotesi in cui lo straniero richiedente asilo si veda  negata la protezione internazionale:  questo,  come  già  sottolineato,  si porrebbe in contrasto con la ratio del d.lgs.  n.  142/2015,  che  ha come obiettivo principe  l’accoglienza  dei  richiedenti  protezione, nell’ottica di una  loro  futura  stabilizzazione,  e  non  del loro allontanamento.

Anche da un punto di vista  materiale,  non  risulta  convincente parlare di precarietà  della  presenza  dello  straniero  sul  suolo italiano: il permesso di soggiorno per richiedenti asilo ha  scadenza semestrale, rinnovabile fino alla decisione della domanda. 

Quest’ultimo  termine  ricomprende   non   solo   i   tempi   del procedimento   amministrativo,   ma  anche   quelli   dell’eventuale impugnazione  giurisdizionale  del  diniego.  Il  completamento   dei procedimenti amministrativi  e  giudiziari,  d’altro  canto,  non  è assicurato in un breve periodo, così da  rendere  plausibili  anche periodi molto lunghi di soggiorno, fino a tre o quattro anni. Volendo schematizzare queste tempistiche, in seguito alla presentazione della richiesta di protezione internazionale, la  Commissione  territoriale competente deve provvedere al  colloquio  personale  col richiedente entro 30  giorni  dal  ricevimento  della  domanda  stessa,  per  poi decidere entro i tre giorni feriali successivi. Tuttavia, qualora  la Commissione ritenga di dover acquisire nuovi elementi, questi termini sono prorogabili di sei mesi, nonché di ulteriori nove  mesi  se  la decisione  richiede  valutazioni complesse,  oppure   in   caso   di inosservanza dell’obbligo di cooperazione che grava  sul  richiedente ex art. 11 d.lgs. n. 25/2008, ma anche per il semplice fatto che,  in un determinato frangente, risulti presentato  un  elevato  numero  di richieste. A  questo  punto,  in  casi  eccezionali,  il  termine  di conclusione del procedimento può essere esteso  di  altri  tre  mesi (art. 27, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25).

Già solo in relazione al procedimento amministrativo è evidente come  la  normativa  renda  possibile  una  regolare  permanenza  del richiedente asilo sul territorio italiano per ben 19 mesi.  A questo termine, ampiamente superiore all’anno,  possono  poi  aggiungersi  i tempi del processo di impugnazione della decisione della  Commissione innanzi al giudice ordinario: la  presentazione  del ricorso  (entro trenta giorni dalla notificazione del diniego) ha, infatti, efficacia sospensiva del provvedimento, e da’ avvio a un giudizio che, ex lege, dovrebbe concludersi  entro  quattro  mesi  dalla  presentazione  del ricorso stesso (così art. 35 bis  d.lgs.  n.  25/2008).  Si  arriva, così, a 24 mesi anche solo applicando le  tempistiche  previste  dal legislatore, escludendo ritardi di sorta e trascurando  la  possibile impugnazione innanzi alla Cassazione della decisione di primo  grado, la quale – pur  non  avendo  automatica  efficacia  sospensiva  della pronuncia del  tribunale    può  essere  accompagnata  da  apposita istanza di sospensione.

L’irragionevolezza del diniego di iscrizione anagrafica  e  della sua giustificazione legata alla precarietà del diritto di  soggiorno sul territorio italiano (poiché limitato, in prima  battuta,  a  sei mesi) risulta ancora più chiara se si tiene in considerazione quanto disposto dal d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, concernente il diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini europei. L’art. 9 del  decreto prevede espressamente  che  un   cittadino   europeo   che   intenda soggiornare per più  di  tre  mesi  sul  territorio  italiano  debba procedere all’iscrizione anagrafica. Dunque, non si capisce quale sia la ragione per cui, in un caso, “più di tre mesi” (quindi anche solo quattro o cinque) debbano considerarsi come  una  finestra  temporale sufficiente  per  escludere  la  precarietà  della  presenza   dello straniero sul territorio italiano, facendo sorgere il  diritto/dovere di iscrizione anagrafica, e, nell’altro caso, sei  mesi  -de  plano incrementabili fino oltre due anni – non lo siano.  Né in concreto,  né in  astratto,  quindi,  il  soggiorno  del richiedente  asilo  può  definirsi  “precario”   e,   pertanto,   la precarietà non può considerarsi causa ragionevole della  differenza di trattamento – quanto al diritto di  iscrizione  anagrafica-  tra richiedenti e cittadini, nonché tra richiedenti e altre categorie di stranieri.

Ciò posto, gli effetti di  un’irragionevole  e  irrazionale  (e, dunque,  incostituzionale)  deroga  al  principio   di   uguaglianza producono conseguenze concrete sulla  vita  di  questa  categoria  di soggetti, già richiamate nel paragrafo dedicato all’art. 2 Cost.  Così, il diniego di iscrizione anagrafica mostra  tutta  la  sua irragionevolezza, costituendo un ostacolo al processo di integrazione per i soli richiedenti asilo (e, dunque, anche  per  tutti  i  futuri titolari di protezione internazionale).  L’integrazione,  quale processo  finalizzato  a  promuovere   la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla  Costituzione italiana,  con  il  reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale  della società, non è solo un diritto  per  gli  stranieri,  ma  anche  un dovere, cosi come è un  dovere  per  lo  Stato  italiano  promuovere l’integrazione. Questo principio è diventato inconfutabile a seguito dell’introduzione  dell’art.  4  bis TUI  in  tema  di  accordo   di integrazione, e trova conferma, ad esempio, nella  Carta  dei  valori della cittadinanza e dell’integrazione di cui al decreto del Ministro dell’interno 23 aprile 2007, alla quale viene riconosciuto  il  ruolo di  direttiva  generale  per  l’esercizio  delle   attribuzioni   del     Ministero stesso (art. 1). Nella Carta si  riconosce,  appunto,  come base  dell’integrazione  sia  l’impegno  dell’Italia  “perché’   ogni persona sin dal primo momento in cui si trova sul territorio italiano possa fruire dei diritti fondamentali, senza  distinzione  di  sesso, etnia, religione, condizioni sociali”. D’altra parte, allo straniero, si domanda pari impegno, chiedendogli di “rispettare i valori su  cui poggia la società, diritti degli altri,  i  doveri  di  solidarietà richiesti dalle leggi”.

Allo stesso modo, il Piano nazionale d’integrazione dei  titolari di protezione internazionale di ottobre 2017, valido per  il  biennio successivo,  riconosce  come  il  processo  di  integrazione  sia  un processo  particolarmente  delicato  nei  confronti  dei  richiedenti protezione internazionale (in  considerazione  della  loro  posizione iniziale di svantaggio e vulnerabilità) che richiede tempo, così da rendere necessario che le  “attività  di  supporto  all’integrazione siano offerte fin da subito anche ai richiedenti [asilo]”. Proprio in quest’ottica viene affermata la  centralità  di  un  rapido  accesso all’alloggio  e  alla  residenza,  riconoscendo  come   “l’iscrizione anagrafica sia uno dei presupposti necessari per avviare e proseguire qualsiasi percorso d’inclusione sociale”.

Ciò posto, se la particolare  posizione  di  vulnerabilità  dei richiedenti asilo avrebbe potuto legittimare una deroga razionale  al principio di eguaglianza predisponendo una disciplina di  favore  per l’iscrizione anagrafica degli stranieri (come di fatto  avvenuto  con l’introduzione della procedura semplificata ex art. 5 bis  d.lgs.  n. 142/2015, abrogata, però, sempre dall’art. 13, comma  1,  lett.  c), d.l.   n.   113/2018),   non   sembra    assolutamente    ragionevole l’introduzione di’ una disciplina di sfavore,  che  svantaggi  questi soggetti – rispetto agli altri  stranieri    nel  loro  processo  di integrazione.

L’impossibilità di procedere ad iscrizione  anagrafica,  infine, impedisce o rende più difficoltoso  l’esercizio  di  alcuni  diritti sociali del richiedente asilo rispetto ai  cittadini  italiani  e  ad altre categorie di stranieri.

Si è già detto dei diritti per la cui titolarità  è  previsto il requisito della residenza protratta per un determinato periodo  di tempo,  come  il  reddito  di  cittadinanza,  l’accesso  all’edilizia popolare o il c.d. bonus bebè materia, vedasi  anche  C.  cost.,  n. 141/2014 e ID, n. 222/2013, che  hanno affermato  la  conformità  a costituzione del  requisito  della  residenza  protratta  per  questo genere  di  prestazioni  sociali).  Negare  l’iscrizione   anagrafica significa negare – quanto meno per un certo periodo  di  tempo    la residenza, dando luogo ora a un’irragionevole discriminazione  capace

di estendere anche verso il futuro i propri effetti: il  richiedente, ottenuto  il  riconoscimento  della protezione  internazionale,  non potrà vedersi computato, a parità di condizioni con gli italiani  e con gli altri stranieri, il periodo iniziale di soggiorno legale  sul territorio, allontanando nel tempo la  possibilità  di  accedere  ai diritti in analisi.

D’altra  parte,  anche  assicurare  sul   luogo   del   domicilio “l’accesso ai  servizi  previsti  dal  presente  decreto  [d.lgs.  n. 142/2015 e a quelli comunque erogati sul territorio  ai  sensi  delle norme vigenti” (art. 13, comma 1, lett. b),  d.l.  n.  113/2018)  non esclude la creazione di una situazione deteriore  per  i  richiedenti asilo rispetto agli altri stranieri regolarmente soggiornanti. Mentre per questi ultimi la residenza mediante  l’iscrizione  anagrafica  è accertata una volta per tutte in modo ufficiale dal Comune (anche con il rilascio della carta di identità), il domicilio  dei  richiedenti asilo  è  situazione  oggettivamente  più  vaga   e   incerta,   in conseguenza delle stesse previsioni di legge: si pensi anche solo  al fatto che l’art. 5, commi 1 e 2, d.lgs. n. 142/2015 individua ben tre ipotesi  di  domicilio,  cioè  quello  indicato  nella  domanda   di protezione   internazionale,   quello  indicato   nella   successiva comunicazione alla questura e quello indicato nella dichiarazione del centro   di   accoglienza.   Una   simile   esibizione   ogni   volta potenzialmente differenziata del domicilio per  accedere  ai  servizi generalmente predisposti per i residenti, però, diventa pratica più complessa proprio per chi sia appena arrivato  nel  paese  e  perciò abbia maggiori difficoltà, anche solo di comprensione linguistica.

Del resto, l’accesso ai servizi pubblici in base al domicilio non si dimostra capace di  prevenire  tutti gli  ostacoli  che  emergono nell’ambito  delle  relazioni  sociali.  Ciò  appare  evidente   nei rapporti tra privati, refrattari a superare  la  rilevanza,  ai  fini dell’identificazione delle  parti,  dell’iscrizione  anagrafica:  per esempio, la mancanza di una carta d’identità  ostacola  l’assunzione dello straniero, considerato  come  tale  documento  sia  considerato fondamentale, agli occhi del datore di lavoro, per il  riconoscimento del lavoratore.

In aggiunta, è evidente che  nelle  due  ipotesi  del  domicilio indicato nell’art. 5,  comma  1,  d.lgs.  n.  142/2015  lo  straniero titolare di permesso di soggiorno per richiesta di asilo  è  esposto all’onere di esibire copia della domanda di protezione internazionale o copia della successiva dichiarazione fatta presso la Questura.

Di talché’, al fine di accedere ai servizi sociali,  mentre  agli altri stranieri regolarmente soggiornanti è sufficiente  esibire  la carta  di  identità  per  attestare  l’iscrizione   anagrafica,   al richiedente asilo  si  chiede  di  esibire  tale  documentazione  per attestare  il  proprio  domicilio,  così   violando   l’obbligo   di riservatezza delle informazioni concernenti le domande di  protezione internazionale,  previsto  dall’art.  37  d.lgs.   n.   25/2008,   in attuazione dell’articolo 48 della direttiva 2013/32/UE.

A questo punto, in  riferimento  all’art.  3  Cost.,  appare  non manifestamente infondata la questione di legittimità  costituzionale dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n.  142/2015,  introdotto  dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, avendo  adottato  la  sola interpretazione  ammissibile della previsione in analisi, ossia quella che  comporta  l’esclusione in toto dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica.

8.3.1. (SEGUE) ART. 3 COST.

Vale la pena notare, tuttavia, che anche una lettura dell’art. 4, comma  1  bis,  d.lgs.  n.  142/2015  che  consentisse   l’iscrizione anagrafica   costringendo   il   richiedente   asilo    a    produrre documentazione differente dal permesso di soggiorno  per  provare  la propria identità e il proprio soggiorno legale  sul  suolo  italiano risulterebbe, comunque, incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza ex  art.  3  Cost.  Essa,  infatti,  ingenererebbe  un trattamento irrazionalmente e  irragionevolmente  deteriore  per  una categoria  di   stranieri   rispetto   alle   altre,   senza   alcuna giustificazione. Tutto  ciò  a  conferma  della  non  accogliibili’ dell’interpretazione conforme proposta da altri giudici  e  descritta al precedente paragrafo 7.

Evidente sarebbe l’irrazionalità legislativa che,  nella  stessa disposizione di legge (art. 4  d.lgs.  n.  142/2015),  da  una  parte qualifica espressamente il permesso di soggiorno  come  documento  di identità e, dall’altra, nega che questo documento possa servire  per l’identificazione  dello  straniero  nella  procedura  di  iscrizioneanagrafica.

Altrettanto  evidente  sarebbe  l’irragionevolezza  dell’art.  4, comma 1 bis,  d.lgs.  n.  142/2015  anche  qualora  lo  si  ritenesse interpretabile  nel  senso  di  consentire  l’iscrizione  anagrafica, proprio perché’ non permetterebbe al richiedente di  produrre  quello che è il documento principale a  sua  disposizione  per  provare  la propria identità e, soprattutto,  la  propria  legale  presenza  sul territorio.

Quanto alla prova della propria identità, la scelta  legislativa di  non  considerare  il  permesso  di  soggiorno   potrebbe   essere compensata  tramite  la  produzione  del  passaporto  (o di altra documentazione del paese di provenienza, non potendo naturalmente  lo straniero produrre una carta di identità  italiana,  che  presuppone proprio l’iscrizione anagrafica). E’ lo stesso art.  14  d.P.R.  n. 223/1989 che, in  tema  di  iscrizione  anagrafica  dello  straniero, prevede  che:  “Chi  trasferisce  la   residenza   dall’estero   deve comprovare all’atto della dichiarazione di cui all’art. 13, comma  1, lettera a), la propria identità mediante l’esibizione del passaporto o  di  altro  documento  equipollente”.  Tuttavia,   domandare   allo straniero  richiedente  asilo  di  produrre  il  proprio   passaporto significa applicare il principio  di  uguaglianza  in  modo  cieco  e incostituzionale, trattando in maniera uguale categorie di  stranieri che, in realtà, si trovano in  differenti  condizioni  concrete.  Si pensi al confronto fra un migrante economico, che  giunge  in  Italia per lavorare e risulta quindi titolare di permesso di  soggiorno  per motivi di lavoro, e un richiedente asilo, che giunge  in  Italia  per sfuggire alla situazione di crisi che caratterizza la propria nazione di origine. Solo lo status di richiedente protezione  internazionale, infatti,  presuppone  una  condizione  di  persecuzione,  guerra   o, generalmente, pericolo nel paese  di  provenienza  che  ben  potrebbe precludere i  contatti  del  cittadino  straniero  con  le  autorità pubbliche  e,  quindi,  l’ottenimento  del  passaporto  e  di   altra documentazione di identità.  Da  ciò  discende  l’importanza  e  la ragionevolezza di consentire, proprio ai richiedenti, di  provare  la propria identità con il permesso di soggiorno, rilasciato in seguito a  un  procedimento  di  identificazione  da  parte  della  autorità italiane competenti, e di non  fare  dei  richiedenti  asilo  l’unica categoria esclusa da tale facoltà.

Ancora, la norma trascura del tutto la particolare  posizione  di fragilità dei richiedenti asilo, anche rispetto agli altri stranieri legalmente presenti sul territorio italiano, abrogando una  normativa di favore (art. 5 bis, d.lgs. n. 142/2015) e  sostituendola  con  una previsione che crea incertezze sulla documentazione che i richiedenti asilo dovrebbero presentare congiuntamente alla domanda di iscrizione anagrafica. L’art.  4,  comma  l  bis,  d.  lgs.  n.  142/2015,  come introdotto dall’art. 13 d.l. n. 113/2018, dice  quale  documento  non può  essere  presentato,  tacendo  su  cosa,  invece,  sarebbe   ora necessario produrre per provare la propria  identità  e  il  proprio regolare soggiorno.

L’incertezza   è   forte,   soprattutto   considerata l’altra documentazione  che,  a  una  prima   lettura,   potrebbe   ritenersi producibile: la copia  della  domanda  di  protezione  internazionale presentata dallo straniero alla questura per dare inizio al  relativo procedimento amministrativo, oppure la copia del  Modello  C3  e  dei relativi allegati, cioè il modulo con cui si  formula  ufficialmente la domanda di  protezione internazionale.  A  una  riflessione  più attenta, tuttavia,  ritenere  che  il  legislatore  abbia  negato  la producibilità del permesso di soggiorno per consentire quella  della domanda di protezione o del Modulo C3 appare fortemente  irrazionale, considerato  come  questi.  ultimi  siano  atti   endoprocedimentali, prodromici al rilascio del permesso di  soggiorno  per  richiesta  di asilo. Non si coglie proprio il senso di non consentire la produzione di un provvedimento con chiara efficacia esterna,  come  riconosciuto dallo stesso art. 13, comma 1, lett. a), n. 1, per consentire  invece la produzione degli atti interni, legati alla fase  di  iniziativa  e istruttoria del procedimento, che a tale provvedimento hanno portato.

Permane, cosi,  il  dubbio  tanto  sulla  documentazione  che  si dovrebbe produrre quanto sulla razionalità di una norma che, secondo questa interpretazione, da un lato consentirebbe ancora  l’iscrizione anagrafica, ma dall’altro negherebbe – senza  alcuna  utilità    la possibilità di produrre il permesso di soggiorno, ossia il documento che, più di tutti, si  rivelerebbe  idoneo  a  provare  identità  e regolarità del soggiorno.

Tutta questa incertezza, già di per se’ inammissibile nel nostro ordinamento   giuridico,    diviene   ancor    più    difficilmente giustificabile quando si traduce in un inasprimento della  condizione di  soggetti  già  in  posizione  di  particolare  fragilità.   Nei confronti dei richiedenti asilo – stranieri provenienti da condizioni di forte disagio e  pericolo,  generalmente  privi  delle  conoscenze linguistiche, culturali e delle competenze giuridiche  per  capire  a fondo il nostro ordinamento – una  scelta  di  semplificazione  degli adempimenti burocratici sarebbe sicuramente  più  corrispondente  al principio di uguaglianza, piuttosto che una complicazione della  loro posizione.

8.4. ART. 10 COST.

In terzo  luogo,  la  questione  di  legittimità  costituzionale dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n.  142/2015,  introdotto  dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018 appare, ad avviso di questo giudice,  non  manifestamente infondata in relazione anche all’art. 10 Cost.

La normativa in questione, infatti, da’ luogo  a  un  trattamento diversificato soltanto nei confronti di una  categoria  di  stranieri regolarmente soggiornanti, ossia proprio quelli che hanno  esercitato il diritto di asilo ex art. 10, comma 3, Cost. Si noti,  però,  come questi ultimi siano titolari di un  diritto  soggettivo  perfetto  al soggiorno:  infatti,  il  diritto   d’asilo   comporta   il   diritto all’ingresso e alla permanenza nel territorio dello Stato, in  attesa che venga definita la propria domanda di  protezione  internazionale, così da evitare fin da subito il  rischio  che  il  richiedente  sia nuovamente sottoposto al pericolo di  violazione  dei  diritti  umani fondamentali.

Condizione, quest’ultima, da cui lo straniero fugge e  che  viene in ogni caso posta alla base dell’accoglienza  e  del  soggiorno  nel nostro paese.

Il  diritto  d’asilo  ex  art.  10  Cost.,  poi,  è  un  diritto soggettivo  perfetto  all’ingresso  e  al soggiorno  nel  territorio italiano, immediatamente azionabile anche  in  mancanza  delle  leggi ordinarie che fissino alcune condizioni per il suo  esercizio  (Cass. civ., Sez. Un., 12 dicembre 1996, n. 4674), che si configura come una condizione  più  favorevole  per  lo  straniero  richiedente   asilo rispetto  a  quella  degli  altri  migranti  i  quali,  invece,  sono generalmente titolari di soli interessi legittimi circa  l’accesso  e la permanenza sul territorio italiano.

Ciò posto, appare ancor  più  irrazionale  e  irragionevole  il trattamento differenziato introdotto dall’art. 13 d.l.  n.  113/2018, perché al diritto di soggiornare legalmente si accompagna il divieto di esercizio del diritto-dovere di fissare la propria residenza in un comune della Repubblica proprio per una categoria di  stranieri  che, per definizione, hanno abbandonato la loro residenza  all’estero  per chiedere di essere ammessi a rimanere nel territorio.

Senza contare il paradosso che l’art. 4, comma 1 bis,  d.lgs.  n. 142/2015 appare creare:  come  visto,  negare  ai  richiedenti  asilo l’iscrizione anagrafica significa precludere loro l’esercizio  di  un diritto fondamentale quando  proprio  l’esigenza  di  sottrarre  tale categoria di stranieri  al  pericolo  di lesione  dei  loro  diritti fondamentali è presupposto per  il  riconoscimento  del  diritto  di asilo.

8.5. ART. 117, COMMA 1, COST.

La questione di legittimita’ costituzionale appare,  infine,  non manifestamente infondata in riferimento all’art. 117, comma 1,  Cost. in relazione all’art. 2, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali  (di seguito, Cedu), nonché in riferimento agli artt. 14 Cedu  e  26  del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore  il  23  marzo  1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.

Quanto al primo profilo di censura, ritiene  questo  giudice  che l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs.  142/2015,  impedendo  al  titolare  di permesso di soggiorno per richiesta asilo di iscriversi all’anagrafe, violi l’art. 2, § 1, Protocollo n. 4 Cedu, secondo cui  “chiunque  si trovi regolarmente sul territorio di  uno  Stato  ha  il  diritto  di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza”.

L’iscrizione all’anagrafe, invero, costituisce  l’essenza  stessa del fissare la residenza in un comune dello Stato e, pertanto, negare a  un  soggetto  (legalmente  presente  sul   territorio   nazionale) l’iscrizione all’anagrafe implica ledere il  suo  diritto  a  fissare liberamente la residenza sul territorio dello Stato.

Del  resto,  che  il   termine   ‘residenza’   utilizzato   dalla disposizione della Convenzione in esame afferisca al concetto tecnico di residenza di cui all’art. 43 del codice civile italiano, e  dunque nel senso rilevante ai fini del caso oggetto del  presente  giudizio, è desumibile dalla stessa terminologia utilizzata nell’art. 2, §  1,

Protocollo n. 4 Cedu, che si differenzia rispetto al diverso vocabolo ‘domicilio’ utilizzato  nell’art.  8  Cedu.  Il  termine  ‘domicilio’ nell’art.  8  Cedu  designa,   genericamente,   “lo   spazio   fisico determinato in cui si svolge la vita privata e familiare” (Corte edu, Giacomelli c. Italia, 2 novembre 2006, § 76), pertanto la  scelta  di utilizzare il differente termine  ‘residenza’  non  può  che  essere indicativa della volontà di fare riferimento al concetto tecnico che in ciascuno Stato firmatario della Convenzione da’ rilievo  giuridico al luogo in cui la persona stabilisce la propria dimora abituale.  Conferma di ciò si ricava, inoltre, dall’analisi del testo della

Convenzione nella versione  in  lingua  inglese,  in  cui  emerge  la medesima distinzione tra il termine ‘home’  dell’art.  8  Cedu  e  il vocabolo ‘residence’ utilizzato, invece, nell’art. 2  del  Protocollo n. 4 della Convenzione.

Peraltro, l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. 142/2015, nell’introdurre la  restrizione  al  diritto  dei  richiedenti  asilo  di   stabilire liberamente la residenza, non rispetta neppure la  riserva  di  legge rinforzata prevista dall’art. 2, § 1, Protocollo n. 4 Cedu.

Il diniego del diritto di stabilire liberamente la residenza  sul territorio dello Stato nei confronti dei soli titolari  del  permesso di soggiorno per  richiesta  asilo  è  inoltre  dettato  da  ragioni discriminatorie,  risolvendosi  dunque,  altresì,  nella  violazione dell’art. 14  Cedu.  Tale  previsione stabilisce,  infatti,  che  il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute dalla Convenzione – nella specie, dell’art. 2, §1, Protocollo n. 4 Cedu –  deve  essere assicurato senza  discriminazione  di  alcun  tipo,  tant’è  che  la disposizione in esame si chiude con una espressione generale che pone il divieto di discriminazione  sulla  base  “ogni  altra  condizione” (“other status” secondo la versione inglese).

La novella introdotta con  il  d.l.  n.  113/2018  introduce  una discriminazione  circa  l’esercizio  del   diritto   di   iscrizione all’anagrafe  (e  dunque  della  libertà  di  fissa  liberamente  la residenza sul territorio dello Stato)  differenziando  in  base  allo status richiedente asilo:  possono  infatti  iscriversi  all’anagrafe tutti gli stranieri regolarmente presenti in Italia tranne i titolari del permesso di soggiorno per richiesta asilo.

Il sindacato condotto dalla Corte Edu per valutare le  violazioni del divieto distinzione sulla base  della  clausola  aperta  prevista dall’art.  14  Cedu  si  avvicina  a  quello  compiuto  dalle   Corti costituzionali nazionali sulla base del principio  di  ragionevolezza pertanto, sono qui riproducibili gli argomenti già esposti sopra  in relazione alla violazione dell’art. 3 Cost. (§ 8.2.)

Per le ragioni esposte in relazione  all’art.  14  Cedu,  ritiene questo giudice che l’art. comma 1 bis,  d.lgs.  142/2015,  introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a),  n.  2,  d.l.  113/2018  n  rispetti infine l’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti  civili e politici che, insieme ai citati  articoli  della Convenzione  edu, costituisce   un   ulteriore   parametro   interposto    legittimita’ costituzionale”.

P.Q.M.

Visti gli artt. 11. cost. 1/1948 e 23 1. n. 87/1953, ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, rimette alla Corte Costituzionale la questione di  legittimità  4,  comma  1 bis, d.lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. n.  113/2018,  convertito  nella  legge  n.  132/2018, perché’, negando il diritto di iscrizione anagrafica  al  richiedente asilo si pone in contrasto con gli articoli 2, 3, 10, 117,  comma  1,Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 2, § 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo  e  delle libertà fondamentali nonché in riferimento agli artt. 14 Cedu e  26 del Patto internazionale  relativo  ai diritti  civili  e  politici.

L’art. 13, co. 1, lett. a), n. 2 d.l. n. 113/2018,  convertito  nella legge n. 132/2018, inoltre, si  pone  in  contrasto  con  l’art.  77, secondo  comma,  Cost.  per  difetto  dei  requisiti  dei   casi   di straordinaria  necessità  e  urgenza,  nonché  del   requisito   di omogeneità,   così   come   interpretati    dalla    giurisprudenza costituzionale.

Il Giudice sospende il giudizio e  dispone  l’immediata  trasmissione  degli atti alla Corte Costituzionale.

Ordina che la presente ordinanza  sia  notificata  a  cura  della Cancelleria alle parti, al Presidente del Consiglio  dei  Ministri  e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Milano, 1° agosto 2019”.

 

[1] A cura della Redazione

[2] Come a molti noto, l’atto di promovimento è l’atto che introduce un giudizio davanti alla Corte costituzionale. Assume la forma dell’ordinanza di rimessione nei giudizi di legittimità costituzionale delle leggi in via incidentale, e la forma del ricorso nei giudizi di legittimità costituzionale delle leggi in via principale e nei giudizi per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e tra poteri dello Stato. Nei giudizi di ammissibilità di referendum abrogativo il potere-dovere della Corte di pronunciarsi sorge a seguito dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione, che dichiara la legittimità della richiesta referendaria. Infine, il giudizio di accusa contro il Presidente della Repubblica è introdotto dalla deliberazione di messa in stato di accusa adottata dal Parlamento in seduta comune (nota della Red.).