Pronuncia della Corte costituzionale, del 9 Luglio 2020
20 Luglio 2020SULL’ISCRIZIONE ANAGRAFICA DEI RICHIEDENTI ASILO[1].
“Irragionevole precludere L’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo”. Pronuncia della Corte costituzionale, del 9 Luglio 2020, sul primo “decreto sicurezza”.
1. IL 9 LUGLIO 2020 la Corte Costituzionale ha esaminato le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Milano, Ancona e Salerno relative alla norma che preclude l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, introdotta dal primo “decreto sicurezza”, il D.L. n.113/2018, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito in legge con L. 1° Dicembre 2018, n. 132
In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte ha fatto sapere che la disposizione censurata non è stata ritenuta dalla Corte in contrasto con l’articolo 77 della Costituzione sui requisiti di necessità e di urgenza dei decreti legge. Tuttavia, la Corte ne ha dichiarato l’incostituzionalità per violazione dell’articolo 3 della Costituzione sotto un duplice profilo: a) per irrazionalità intrinseca, poiché la norma censurata non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza; b) per irragionevole disparità di trattamento, perché rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi che siano anche ad essi garantiti.
2. ISCRIZIONE ANAGRAFICA.
L’art.13,D.L.n. 113/2018, modificando l’art.4 D.lgs. 142/2015, ha stabilito che il permesso di soggiorno per richiesta della protezione internazionale “non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”. Tuttavia la norma non pone alcun esplicito divieto ma si limita ad escludere che il particolare tipo di permesso di soggiorno motivato dalla richiesta di asilo possa essere documento utile per formalizzare la domanda di residenza. La giurisprudenza formatasi sul punto è orientata nel senso di ritenere ancora possibile per i richiedenti la protezione internazionale l’iscrizione anagrafica.
3. ART. 13. Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica
Al decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 4:
1) al comma 1, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”;
2) dopo il comma 1, è inserito il seguente:
“1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”;
b) all’articolo 5:
1) il comma 3 è sostituito dal seguente:
“3. L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2”;
2) al comma 4, le parole “un luogo di residenza” sono sostituite dalle seguenti: «”n luogo di domicilio”;
c) l’articolo 5-bis è abrogato.
4. RIFERIMENTI NORMATIVI ESSENZIALI
-Art. 4, commi 1 e 1-bis del D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, come mod. dalla presente legge:
“Art. 4 (Documentazione).
- Al richiedente è rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta asilo valido nel territorio nazionale per sei mesi, rinnovabile fino alla decisione della domanda o comunque per il tempo in cui è autorizzato a rimanere nel territorio nazionale ai sensi dell’art. 35-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25. Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.
1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’art. 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”.
-Per completezza d’informazione si riporta il testo dell’art. 1, comma 1, lettera c) del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa): “Art. 1 (R) (Definizioni). – 1. Ai fini del presente testo unico si intende per: (Omissis); c) DOCUMENTO DI RICONOSCIMENTO ogni documento munito di fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri Stati, che consenta l’identificazione personale del titolare”;
-Il decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, reca “Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente”.
5. Di seguito riportiamo ampi STRALCI DELL’ORDINANZA DI RIMESSIONE DEL TRIBUNALE DI MILANO
ORDINANZA (Atto di promovimento)[2], 1°agosto 2019, del Tribunale di Milano, sul ricorso proposto da A. H., Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e Associazione “avvocati per niente onlus” contro Ministero dell’interno e Comune di Milano.
Giudice Laura Massari
“[…] 8. NON MANIFESTA INFONDATEZZA.
[…]
8.2. ART. 2 COST.
Quanto alle censure relative al contenuto della disposizione di cui all’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2), d.l. n. 113/2018, convertito nella l. n. 132/2018, la questione di legittimità costituzionale appare, ad avviso di questo giudice, non manifestamente infondata in relazione,
in primo luogo, all’art. 2 Cost.
Come già ampiamente argomentato, la disposizione in questione, nell’unica lettura ammissibile, comporta il diniego generalizzato del diritto di iscrizione anagrafica per gli stranieri legalmente soggiornanti sul territorio italiano in qualità di richiedenti asilo.
La Corte Costituzionale ha oramai da tempo abbracciato una concezione dell’art. 2 Cost. quale “norma di apertura”, idonea a ricondurre sotto la garanzia costituzionalmente prevista per i diritti inviolabili anche ipotesi non esplicitamente contemplate nella Legge fondamentale, o che non siano direttamente desumibili dalle stesse. Vero punto di svolta è stata la pronuncia C. cost., 18 dicembre 1987, n. 561, che ha riconosciuto come “fondamentale” il diritto alla libertà sessuale, non presente in Costituzione, seguita da altre decisioni a conferma, come quelle che hanno ricondotto all’art. 2 Cost., ex pluribus, il diritto sociale all’abitazione (C. cost., 7 aprile 1988, n. 404 e ID., 19 novembre 1991, n. 419), il diritto alla vita (C. cost., 27 giugno 1996, n. 223 e ID., 10 febbraio 1997, n. 35), il diritto di abbandonare il proprio paese (C. cost., 17 giugno 1992, n. 278), il diritto all’identità personale (C. cost., 3 febbraio 1994, n. 13; ID., 23 luglio 1996, n. 297; ID., 11 maggio 2001, n. 120; ID., 21 dicembre 2016, n. 286), il diritto al rispetto e alla libera esplicazione della personalità (C. cost., 30 luglio 1997, n. 283), il diritto alla famiglia (C. cost., 22 novembre 2013, n. 278).
La Corte ha così suggerito un carattere dinamico dell’inviolabilità, che muta al mutare della società, con un’apertura dei diritti inviolabili che non significa però una loro indeterminatezza, dovendo e potendo essere ricompresi nel loro novero solo quelli che siano riconducibili al cuore del progetto costituente, ossia quello di predisporre per ciascun consociato le condizioni per il conseguimento di una vita libera e degna.
Così, la dignità umana diventa tratto comune o, meglio, punto di arrivo di questi diritti inviolabili.
La centralità della persona, d’altronde, trova diretto riscontro nel testo della norma che, nell’individuare i soggetti a cui i diritti inviolabili devono essere riconosciuti, non fa riferimento all’individuo in quanto partecipe di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umano, parlando di riconoscimento e garanzia, da parte della Repubblica, dei diritti fondamentali dell’uomo (così, C. cost. 105/2001).
“[..] Che la dignità umana e, quindi, i diritti necessari alla sua garanzia (ex art. 2 Cost) non spettino solo ai cittadini trova inconfutabile conferma nei principi di eguaglianza e di parità sociale contenuti nel successivo art. 3 Cost. Prima di tutto, la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto come “il testuale riferimento dell’art. 3, comma 1, Cost. ai soli cittadini non esclude […] che l’eguaglianza davanti alla legge sia garantita agli stessi stranieri dove si tratti di assicurare la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo” (così, testualmente, C. cost. 54/1979; vedasi anche, C. cost. 120/1967; ID., 21/1968; ID., 104/1969; ID., 144/1970; ID., 177/1974; ID., 244/1974 e ID., 490/1988) o che “quando venga in gioco il riferimento al godimento dei diritti inviolabili dell’uomo il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero” (C. cost. 62/1994).
I diritti inviolabili, dunque, rappresentano campo privilegiato di applicazione del principio di uguaglianza, così da assicurare una loro pari titolarità al cittadino e allo straniero.
Questo riconoscimento in favore dello straniero non ha però impedito alla Corte di specificare ulteriormente la questione, affermando come “tra cittadino e straniero, benché uguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto che possano giustificare un loro diverso trattamento nel godimento di quegli stessi diritti” (C. cost. 104/1969).
Da un lato, dunque, l’espressione “certi diritti” demarca l’esigenza di discernere tra diritti inviolabili spettanti solo al cittadino e diritti spettanti al cittadino e allo straniero, dall’altro, assume rilevanza l’esigenza di distinguere tra titolarità – estesa a tutti – e godimento – differentemente modulabile- di un diritto inviolabile.
In quest’ottica, la Corte ha introdotto il concetto di “nucleo irriducibile” dei diritti inviolabili che, per i diritti non limitati ai cittadini, deve essere sempre e comunque riconosciuto a tutti (C. cost. 252/2001). L’accesso e il godimento di quella porzione di diritto involabile che eccede questo ‘nucleo’, invece, ricadono nel margine di discrezionalità spettante al legislatore: in questo caso, la differenza di trattamento tra cittadino e straniero è ammissibile, ma, ad ogni modo, deve restare circoscritta entro il limite per cui la disparità di trattamento non sconfini nell’irragionevolezza.
Rinviando l’approfondimento su tale profilo al successivo punto riguardante la non manifesta infondatezza del contrasto con l’art. 3 della novella del 2018, in questa sede non resta che evidenziare come il diritto all’iscrizione anagrafica ricada tra i diritti che hanno come punto di approdo ultimo quello della dignità umana, nella sua dimensione individuale e sociale.
L’iscrizione anagrafica, infatti, diventa presupposto dell’identificazione di se stessi anche e soprattutto mediante lo sviluppo di un senso di appartenenza con la comunità locale presso cui si decide di fissare la propria stabile dimora. Senso di appartenenza che, dunque, è prodromico all’inserimento dell’individuo nella società al cui interno egli può avere pieno e libero svolgimento della propria personalità, come riconosciuto dall’art. 2 Cost.
L’iscrizione anagrafica, quindi, diventa passo essenziale di quel processo di integrazione a cui sono chiamati tanto lo straniero quanto la società presso cui egli si stabilisce: anche qualora si tratti di uno straniero richiedente asilo, a fronte dell’innegabile regolarità della sua presenza sul territorio italiano per tutto il
tempo necessario alla definizione della sua richiesta. Questo in considerazione del fatto che, al di là delle tempistiche è tutto fuorché istantanee con cui può essere definito il suo status, la transitorietà è legittimamente riferibile solo al suo status di richiedente asilo, ma non alla sua presenza sul suolo italiano: l’intera disciplina dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, infatti, non può che ritenersi strutturata attorno all’ipotesi dello straniero che sia effettivamente titolare del diritto d’asilo, per il quale il processo di integrazione (e la presenza sul territorio italiano) costituisce un fluire ininterrotto che inizi quale richiedente e continui quale titolare di protezione internazionale.
Infine, anche da un punto di vista simbolico, negare l’iscrizione anagrafica significa lasciare l’individuo al margine della collettività stessa, confinandolo in un “non luogo” giuridico e sociale che appare sicuramente come un limite alla libera e dignitosa crescita della sua personalità e che difficilmente può ritenersi compatibile con l’impegno alla partecipazione alla vita economica, sociale e culturale che lo stesso legislatore individua come momento saliente del processo di integrazione (art. 4 bis TUI). Basti pensare che l’iscrizione anagrafica è condizione per il rilascio della carta di identità: un documento che, anche su un piano meramente evocativo, esprime una maggiore identificazione con la comunità in cui ci si inserisce rispetto al solo permesso di soggiorno che, invece, comunica sempre e comunque una sensazione di estraneità.
Diventa così irrilevante il fatto che l’accesso ai servizi sociali generalmente erogati in base alla residenza – e, dunque, all’iscrizione anagrafica – venga ora garantito in base al domicilio, poiché’ il divieto di iscrizione anagrafica lede un diritto autonomo e presupposto rispetto a questi ulteriori diritti sociali.
Allo stesso modo, la suesposta violazione dell’art. 2 Cost. si verifica anche trascendendo dalla (tutto fuorché trascurabile) presenza nel nostro ordinamento – già evidenziata nella precedente sezione dedicata all’interesse ad agire – di diritti sociali, a loro volta fondamentali e inviolabili, la cui titolarità deriva sempre e comunque dalla durata della residenza sul territorio italiano (diritto all’acquisto della cittadinanza, all’accesso all’edilizia popolare, all’accesso al reddito di cittadinanza, ecc.).
Tutto ciò posto, non rimane che confermare come il diritto di iscrizione anagrafica sia – fuori ogni dubbio – un diritto di cui possono essere titolari anche gli stranieri. Come già visto, infatti, tale diritto è riconosciuto, alle medesime condizioni che ai cittadini italiani, anche agli stranieri legalmente soggiornanti (cfr., in primis„ l’art. 6, comma 7, TUI), tra cui certamente ricadono anche gli stranieri richiedenti asilo titolari di apposito permesso.
D’altra parte, ciò che sembra comportare l’applicazione dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, non è una (ragionevole) compressione del diritto in questione, conforme al principio dell’ammissibilità del diverso trattamento nel godimento dei diritti tra italiani e stranieri, quanto piuttosto una sua negazione totale in capo a una specifica categoria di stranieri, senza che possa ravvisarsi alcun margine di conservazione di un suo ‘nucleo essenziale’.
8.3. ART. 3 COST.
La questione, anche alla luce di quanto già esposto, appare inoltre non manifestamente infondata in relazione all’art. 3 Cost. la cui applicabilità agli stranieri è pacificamente riconosciuta dalla Corte costituzionale.
All’applicabilità in astratto del principio di eguaglianza agli stranieri si aggiunge, nel caso di specie, il suo espresso riconoscimento normativo in relazione al diritto di iscrizione anagrafica: l’art. 6, comma 7, TUI introduce come regola generale, infatti, quella dell’iscrivibili’ degli stranieri legalmente soggiornanti in Italia all’anagrafe della popolazione residente, alle medesime condizioni dei cittadini italiani. L’art. 4, comma l bis, d.lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13 d.l. n. 113/2018, costituisce così una deroga a tale disciplina generale disponendo, come già argomentato, la non iscrivibili’ di una particolare tipologia di stranieri legalmente soggiornati sul territorio nazionale – i richiedenti asilo – all’anagrafe della popolazione residente.
D’altra parte, tale deroga non appare capace di soddisfare i requisiti di razionalità e ragionevolezza che costituiscono i parametri tradizionalmente adottati dalla Corte per svolgere il giudizio costituzionale di eguaglianza.
Il primo comporta una verifica della coerenza tra la norma soggetta a sindacato di costituzionalità e le altre disposizioni normative nella stessa materia, così da verificare se sussista una congruità dispositiva o, invece, vi siano contraddizioni insanabili (in questo senso, C. cost., n. 10/1980).
La presenza di contraddizioni insanabili tra l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 e il contesto normativo in cui esso si inserisce appare, a questo punto, configurabile sotto una serie di profili, ulteriori rispetto al contrasto tra la previsione in esame e il diritto, per tutti gli stranieri legalmente presenti sul territorio, all’iscrizione anagrafica.
Primo sintomo dell’irrazionalità della norma e del trattamento differenziato che essa introduce è la sua incoerenza con le finalità perseguite dal legislatore mediante l’adozione del d.l. n. 113/2018, all’interno del quale si colloca la disposizione stessa. Negare l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo significa limitare, in primo luogo, le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica su una categoria di stranieri, rendendo più incerti i dati relativi alla loro presenza sul territorio e ai loro spostamenti. Ciò mal si coniuga, come detto, con le finalità perseguite dal decreto, tra cui compaiono l’esigenza di rafforzare i dispositivi a garanzia della sicurezza pubblica e il potenziamento delle misure di rimpatrio. Limitare le informazioni sulla localizzazione di una categoria di stranieri caratterizzata dalla precarietà del loro diritto di permanenza sul suolo nazionale (quanto meno secondo l’ottica seguita dal legislatore nel negare loro l’iscrizione anagrafica) non appare compatibile con tali esigenze.
Questa inconciliabilità logica rende così plausibile l’assenza di giustificazioni della disciplina derogatoria introdotta con il d.l. n. 113/2018 al generale regime di uguaglianza tra italiani e stranieri nel diritto all’iscrizione anagrafica.
Tutto ciò trova ulteriore conferma se si ragiona sulla coerenza tra l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 e la disciplina dell’ordinamento delle anagrafi della popolazione residente. La presenza di una sanzione specificamente indirizzata a tutti gli stranieri – quindi anche i richiedenti asilo – che non procedano ad iscrizione anagrafica (art. 11 1. n. 1228/1954) altro non fa che ribadire la natura obbligatoria di tale iscrizione (art. 2 1. n. 1228/1954), che risulta così chiaramente preposta al soddisfacimento di primari interessi pubblici, tra cui proprio quello di assicurare la puntuale conoscenza dei soggetti presenti sul territorio italiano e, dunque, anche la sicurezza pubblica. E’ palese la contraddizione di una normativa che, da un lato, impedisce allo straniero di iscriversi all’anagrafe e, dall’altro, individua nell’iscrizione un obbligo rafforzato da una sanzione amministrativa, per di più senza che la disciplina del 2018 contenga una deroga espressa a tale obbligo (e a tale sanzione) per i richiedenti asilo.
Da ultimo, negare l’iscrizione anagrafica ai richiedenti asilo mostra la sua incoerenza con le finalità perseguite dal d.lgs. a 142/2015, al cui art. 4 si inserisce la modifica apportata dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 113/2018. La direttiva n. 33/2013, recepita tramite il d.lgs. n. 142/2015, mira infatti a introdurre una disciplina di garanzia e tutela per i richiedenti asilo, diretta a creare “uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nell’Unione”. Di talché’, gli specifici obiettivi di migliorare l’accoglienza e, soprattutto, di “garantire un livello di vita dignitoso” al richiedente asilo non sembrano affatto compatibili con l’istituzione di un non necessario ostacolo all’integrazione e al libero sviluppo individuale dello straniero qual è la negazione del diritto d’iscrizione anagrafica, come già sopra argomentato.
Passando al controllo sulla ragionevolezza dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, anch’esso dimostra l’assenza di una giustificazione al trattamento differenziato tra richiedenti asilo e cittadini italiani, nonché tra richiedenti asilo e gli altri stranieri legalmente presenti sul territorio nazionale.
In generale, possono considerarsi violative del principio costituzionale di uguaglianza le deroghe alla disciplina generale di una materia, prive di giustificazione adeguata, capaci di introdurre ipotesi ingiustificate di disparità di trattamento, per esempio imponendo sacrifici irragionevoli ad una categoria di soggetti (così C. cost., nn. 4, 24, 76/1994; e ID., 285/1995).
Prima di tutto, risulta difficile (se non impossibile) comprendere quale sia l’interesse che il legislatore ha perseguito nell’introduzione del divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo, che fornirebbe una motivazione al sacrificio imposto a questa categoria di stranieri: il diniego di iscrizione anagrafica, come già evidenziato, ne’ apporta ulteriori garanzie alla sicurezza pubblica, ne’ facilita l’espulsione di stranieri irregolari, ne’ può considerarsi un passo mosso verso una più efficiente accoglienza di questi soggetti. Non si coglie quale vantaggio – anche meramente economico – derivi dunque alla Repubblica da tale previsione. Né, d’altra parte, lo status di richiedente presenta in concreto caratteristiche tali da legittimare l’esclusione dal diritto di iscrizione anagrafica.
Per un’ultima volta, anche i richiedenti asilo sono soggetti legalmente presenti sul territorio italiano, proprio come attesta il rilascio di un apposito permesso di soggiorno. Non appare ragionevole, poi, giustificare il diniego di iscrizione anagrafica a fronte della provvisorietà del diritto di soggiorno. Prima di tutto, ad essere provvisorio è solo lo status di richiedente asilo, il quale è destinato a tramutarsi – nell’ipotesi fisiologica – in status di titolare di protezione internazionale, la cui regolare presenza sul territorio italiano prosegue, senza soluzione di continuità alcuna. D’altra parte, non sembra razionale porre a fondamento della negazione del diritto di iscrizione anagrafica la diversa ipotesi in cui lo straniero richiedente asilo si veda negata la protezione internazionale: questo, come già sottolineato, si porrebbe in contrasto con la ratio del d.lgs. n. 142/2015, che ha come obiettivo principe l’accoglienza dei richiedenti protezione, nell’ottica di una loro futura stabilizzazione, e non del loro allontanamento.
Anche da un punto di vista materiale, non risulta convincente parlare di precarietà della presenza dello straniero sul suolo italiano: il permesso di soggiorno per richiedenti asilo ha scadenza semestrale, rinnovabile fino alla decisione della domanda.
Quest’ultimo termine ricomprende non solo i tempi del procedimento amministrativo, ma anche quelli dell’eventuale impugnazione giurisdizionale del diniego. Il completamento dei procedimenti amministrativi e giudiziari, d’altro canto, non è assicurato in un breve periodo, così da rendere plausibili anche periodi molto lunghi di soggiorno, fino a tre o quattro anni. Volendo schematizzare queste tempistiche, in seguito alla presentazione della richiesta di protezione internazionale, la Commissione territoriale competente deve provvedere al colloquio personale col richiedente entro 30 giorni dal ricevimento della domanda stessa, per poi decidere entro i tre giorni feriali successivi. Tuttavia, qualora la Commissione ritenga di dover acquisire nuovi elementi, questi termini sono prorogabili di sei mesi, nonché di ulteriori nove mesi se la decisione richiede valutazioni complesse, oppure in caso di inosservanza dell’obbligo di cooperazione che grava sul richiedente ex art. 11 d.lgs. n. 25/2008, ma anche per il semplice fatto che, in un determinato frangente, risulti presentato un elevato numero di richieste. A questo punto, in casi eccezionali, il termine di conclusione del procedimento può essere esteso di altri tre mesi (art. 27, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25).
Già solo in relazione al procedimento amministrativo è evidente come la normativa renda possibile una regolare permanenza del richiedente asilo sul territorio italiano per ben 19 mesi. A questo termine, ampiamente superiore all’anno, possono poi aggiungersi i tempi del processo di impugnazione della decisione della Commissione innanzi al giudice ordinario: la presentazione del ricorso (entro trenta giorni dalla notificazione del diniego) ha, infatti, efficacia sospensiva del provvedimento, e da’ avvio a un giudizio che, ex lege, dovrebbe concludersi entro quattro mesi dalla presentazione del ricorso stesso (così art. 35 bis d.lgs. n. 25/2008). Si arriva, così, a 24 mesi anche solo applicando le tempistiche previste dal legislatore, escludendo ritardi di sorta e trascurando la possibile impugnazione innanzi alla Cassazione della decisione di primo grado, la quale – pur non avendo automatica efficacia sospensiva della pronuncia del tribunale – può essere accompagnata da apposita istanza di sospensione.
L’irragionevolezza del diniego di iscrizione anagrafica e della sua giustificazione legata alla precarietà del diritto di soggiorno sul territorio italiano (poiché limitato, in prima battuta, a sei mesi) risulta ancora più chiara se si tiene in considerazione quanto disposto dal d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, concernente il diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini europei. L’art. 9 del decreto prevede espressamente che un cittadino europeo che intenda soggiornare per più di tre mesi sul territorio italiano debba procedere all’iscrizione anagrafica. Dunque, non si capisce quale sia la ragione per cui, in un caso, “più di tre mesi” (quindi anche solo quattro o cinque) debbano considerarsi come una finestra temporale sufficiente per escludere la precarietà della presenza dello straniero sul territorio italiano, facendo sorgere il diritto/dovere di iscrizione anagrafica, e, nell’altro caso, sei mesi -de plano incrementabili fino oltre due anni – non lo siano. Né in concreto, né in astratto, quindi, il soggiorno del richiedente asilo può definirsi “precario” e, pertanto, la precarietà non può considerarsi causa ragionevole della differenza di trattamento – quanto al diritto di iscrizione anagrafica- tra richiedenti e cittadini, nonché tra richiedenti e altre categorie di stranieri.
Ciò posto, gli effetti di un’irragionevole e irrazionale (e, dunque, incostituzionale) deroga al principio di uguaglianza producono conseguenze concrete sulla vita di questa categoria di soggetti, già richiamate nel paragrafo dedicato all’art. 2 Cost. Così, il diniego di iscrizione anagrafica mostra tutta la sua irragionevolezza, costituendo un ostacolo al processo di integrazione per i soli richiedenti asilo (e, dunque, anche per tutti i futuri titolari di protezione internazionale). L’integrazione, quale processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società, non è solo un diritto per gli stranieri, ma anche un dovere, cosi come è un dovere per lo Stato italiano promuovere l’integrazione. Questo principio è diventato inconfutabile a seguito dell’introduzione dell’art. 4 bis TUI in tema di accordo di integrazione, e trova conferma, ad esempio, nella Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione di cui al decreto del Ministro dell’interno 23 aprile 2007, alla quale viene riconosciuto il ruolo di direttiva generale per l’esercizio delle attribuzioni del Ministero stesso (art. 1). Nella Carta si riconosce, appunto, come base dell’integrazione sia l’impegno dell’Italia “perché’ ogni persona sin dal primo momento in cui si trova sul territorio italiano possa fruire dei diritti fondamentali, senza distinzione di sesso, etnia, religione, condizioni sociali”. D’altra parte, allo straniero, si domanda pari impegno, chiedendogli di “rispettare i valori su cui poggia la società, diritti degli altri, i doveri di solidarietà richiesti dalle leggi”.
Allo stesso modo, il Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale di ottobre 2017, valido per il biennio successivo, riconosce come il processo di integrazione sia un processo particolarmente delicato nei confronti dei richiedenti protezione internazionale (in considerazione della loro posizione iniziale di svantaggio e vulnerabilità) che richiede tempo, così da rendere necessario che le “attività di supporto all’integrazione siano offerte fin da subito anche ai richiedenti [asilo]”. Proprio in quest’ottica viene affermata la centralità di un rapido accesso all’alloggio e alla residenza, riconoscendo come “l’iscrizione anagrafica sia uno dei presupposti necessari per avviare e proseguire qualsiasi percorso d’inclusione sociale”.
Ciò posto, se la particolare posizione di vulnerabilità dei richiedenti asilo avrebbe potuto legittimare una deroga razionale al principio di eguaglianza predisponendo una disciplina di favore per l’iscrizione anagrafica degli stranieri (come di fatto avvenuto con l’introduzione della procedura semplificata ex art. 5 bis d.lgs. n. 142/2015, abrogata, però, sempre dall’art. 13, comma 1, lett. c), d.l. n. 113/2018), non sembra assolutamente ragionevole l’introduzione di’ una disciplina di sfavore, che svantaggi questi soggetti – rispetto agli altri stranieri – nel loro processo di integrazione.
L’impossibilità di procedere ad iscrizione anagrafica, infine, impedisce o rende più difficoltoso l’esercizio di alcuni diritti sociali del richiedente asilo rispetto ai cittadini italiani e ad altre categorie di stranieri.
Si è già detto dei diritti per la cui titolarità è previsto il requisito della residenza protratta per un determinato periodo di tempo, come il reddito di cittadinanza, l’accesso all’edilizia popolare o il c.d. bonus bebè materia, vedasi anche C. cost., n. 141/2014 e ID, n. 222/2013, che hanno affermato la conformità a costituzione del requisito della residenza protratta per questo genere di prestazioni sociali). Negare l’iscrizione anagrafica significa negare – quanto meno per un certo periodo di tempo – la residenza, dando luogo ora a un’irragionevole discriminazione capace
di estendere anche verso il futuro i propri effetti: il richiedente, ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale, non potrà vedersi computato, a parità di condizioni con gli italiani e con gli altri stranieri, il periodo iniziale di soggiorno legale sul territorio, allontanando nel tempo la possibilità di accedere ai diritti in analisi.
D’altra parte, anche assicurare sul luogo del domicilio “l’accesso ai servizi previsti dal presente decreto [d.lgs. n. 142/2015 e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti” (art. 13, comma 1, lett. b), d.l. n. 113/2018) non esclude la creazione di una situazione deteriore per i richiedenti asilo rispetto agli altri stranieri regolarmente soggiornanti. Mentre per questi ultimi la residenza mediante l’iscrizione anagrafica è accertata una volta per tutte in modo ufficiale dal Comune (anche con il rilascio della carta di identità), il domicilio dei richiedenti asilo è situazione oggettivamente più vaga e incerta, in conseguenza delle stesse previsioni di legge: si pensi anche solo al fatto che l’art. 5, commi 1 e 2, d.lgs. n. 142/2015 individua ben tre ipotesi di domicilio, cioè quello indicato nella domanda di protezione internazionale, quello indicato nella successiva comunicazione alla questura e quello indicato nella dichiarazione del centro di accoglienza. Una simile esibizione ogni volta potenzialmente differenziata del domicilio per accedere ai servizi generalmente predisposti per i residenti, però, diventa pratica più complessa proprio per chi sia appena arrivato nel paese e perciò abbia maggiori difficoltà, anche solo di comprensione linguistica.
Del resto, l’accesso ai servizi pubblici in base al domicilio non si dimostra capace di prevenire tutti gli ostacoli che emergono nell’ambito delle relazioni sociali. Ciò appare evidente nei rapporti tra privati, refrattari a superare la rilevanza, ai fini dell’identificazione delle parti, dell’iscrizione anagrafica: per esempio, la mancanza di una carta d’identità ostacola l’assunzione dello straniero, considerato come tale documento sia considerato fondamentale, agli occhi del datore di lavoro, per il riconoscimento del lavoratore.
In aggiunta, è evidente che nelle due ipotesi del domicilio indicato nell’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 142/2015 lo straniero titolare di permesso di soggiorno per richiesta di asilo è esposto all’onere di esibire copia della domanda di protezione internazionale o copia della successiva dichiarazione fatta presso la Questura.
Di talché’, al fine di accedere ai servizi sociali, mentre agli altri stranieri regolarmente soggiornanti è sufficiente esibire la carta di identità per attestare l’iscrizione anagrafica, al richiedente asilo si chiede di esibire tale documentazione per attestare il proprio domicilio, così violando l’obbligo di riservatezza delle informazioni concernenti le domande di protezione internazionale, previsto dall’art. 37 d.lgs. n. 25/2008, in attuazione dell’articolo 48 della direttiva 2013/32/UE.
A questo punto, in riferimento all’art. 3 Cost., appare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, avendo adottato la sola interpretazione ammissibile della previsione in analisi, ossia quella che comporta l’esclusione in toto dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica.
8.3.1. (SEGUE) ART. 3 COST.
Vale la pena notare, tuttavia, che anche una lettura dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 che consentisse l’iscrizione anagrafica costringendo il richiedente asilo a produrre documentazione differente dal permesso di soggiorno per provare la propria identità e il proprio soggiorno legale sul suolo italiano risulterebbe, comunque, incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. Essa, infatti, ingenererebbe un trattamento irrazionalmente e irragionevolmente deteriore per una categoria di stranieri rispetto alle altre, senza alcuna giustificazione. Tutto ciò a conferma della non accogliibili’ dell’interpretazione conforme proposta da altri giudici e descritta al precedente paragrafo 7.
Evidente sarebbe l’irrazionalità legislativa che, nella stessa disposizione di legge (art. 4 d.lgs. n. 142/2015), da una parte qualifica espressamente il permesso di soggiorno come documento di identità e, dall’altra, nega che questo documento possa servire per l’identificazione dello straniero nella procedura di iscrizioneanagrafica.
Altrettanto evidente sarebbe l’irragionevolezza dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 anche qualora lo si ritenesse interpretabile nel senso di consentire l’iscrizione anagrafica, proprio perché’ non permetterebbe al richiedente di produrre quello che è il documento principale a sua disposizione per provare la propria identità e, soprattutto, la propria legale presenza sul territorio.
Quanto alla prova della propria identità, la scelta legislativa di non considerare il permesso di soggiorno potrebbe essere compensata tramite la produzione del passaporto (o di altra documentazione del paese di provenienza, non potendo naturalmente lo straniero produrre una carta di identità italiana, che presuppone proprio l’iscrizione anagrafica). E’ lo stesso art. 14 d.P.R. n. 223/1989 che, in tema di iscrizione anagrafica dello straniero, prevede che: “Chi trasferisce la residenza dall’estero deve comprovare all’atto della dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1, lettera a), la propria identità mediante l’esibizione del passaporto o di altro documento equipollente”. Tuttavia, domandare allo straniero richiedente asilo di produrre il proprio passaporto significa applicare il principio di uguaglianza in modo cieco e incostituzionale, trattando in maniera uguale categorie di stranieri che, in realtà, si trovano in differenti condizioni concrete. Si pensi al confronto fra un migrante economico, che giunge in Italia per lavorare e risulta quindi titolare di permesso di soggiorno per motivi di lavoro, e un richiedente asilo, che giunge in Italia per sfuggire alla situazione di crisi che caratterizza la propria nazione di origine. Solo lo status di richiedente protezione internazionale, infatti, presuppone una condizione di persecuzione, guerra o, generalmente, pericolo nel paese di provenienza che ben potrebbe precludere i contatti del cittadino straniero con le autorità pubbliche e, quindi, l’ottenimento del passaporto e di altra documentazione di identità. Da ciò discende l’importanza e la ragionevolezza di consentire, proprio ai richiedenti, di provare la propria identità con il permesso di soggiorno, rilasciato in seguito a un procedimento di identificazione da parte della autorità italiane competenti, e di non fare dei richiedenti asilo l’unica categoria esclusa da tale facoltà.
Ancora, la norma trascura del tutto la particolare posizione di fragilità dei richiedenti asilo, anche rispetto agli altri stranieri legalmente presenti sul territorio italiano, abrogando una normativa di favore (art. 5 bis, d.lgs. n. 142/2015) e sostituendola con una previsione che crea incertezze sulla documentazione che i richiedenti asilo dovrebbero presentare congiuntamente alla domanda di iscrizione anagrafica. L’art. 4, comma l bis, d. lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13 d.l. n. 113/2018, dice quale documento non può essere presentato, tacendo su cosa, invece, sarebbe ora necessario produrre per provare la propria identità e il proprio regolare soggiorno.
L’incertezza è forte, soprattutto considerata l’altra documentazione che, a una prima lettura, potrebbe ritenersi producibile: la copia della domanda di protezione internazionale presentata dallo straniero alla questura per dare inizio al relativo procedimento amministrativo, oppure la copia del Modello C3 e dei relativi allegati, cioè il modulo con cui si formula ufficialmente la domanda di protezione internazionale. A una riflessione più attenta, tuttavia, ritenere che il legislatore abbia negato la producibilità del permesso di soggiorno per consentire quella della domanda di protezione o del Modulo C3 appare fortemente irrazionale, considerato come questi. ultimi siano atti endoprocedimentali, prodromici al rilascio del permesso di soggiorno per richiesta di asilo. Non si coglie proprio il senso di non consentire la produzione di un provvedimento con chiara efficacia esterna, come riconosciuto dallo stesso art. 13, comma 1, lett. a), n. 1, per consentire invece la produzione degli atti interni, legati alla fase di iniziativa e istruttoria del procedimento, che a tale provvedimento hanno portato.
Permane, cosi, il dubbio tanto sulla documentazione che si dovrebbe produrre quanto sulla razionalità di una norma che, secondo questa interpretazione, da un lato consentirebbe ancora l’iscrizione anagrafica, ma dall’altro negherebbe – senza alcuna utilità – la possibilità di produrre il permesso di soggiorno, ossia il documento che, più di tutti, si rivelerebbe idoneo a provare identità e regolarità del soggiorno.
Tutta questa incertezza, già di per se’ inammissibile nel nostro ordinamento giuridico, diviene ancor più difficilmente giustificabile quando si traduce in un inasprimento della condizione di soggetti già in posizione di particolare fragilità. Nei confronti dei richiedenti asilo – stranieri provenienti da condizioni di forte disagio e pericolo, generalmente privi delle conoscenze linguistiche, culturali e delle competenze giuridiche per capire a fondo il nostro ordinamento – una scelta di semplificazione degli adempimenti burocratici sarebbe sicuramente più corrispondente al principio di uguaglianza, piuttosto che una complicazione della loro posizione.
8.4. ART. 10 COST.
In terzo luogo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2) d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018 appare, ad avviso di questo giudice, non manifestamente infondata in relazione anche all’art. 10 Cost.
La normativa in questione, infatti, da’ luogo a un trattamento diversificato soltanto nei confronti di una categoria di stranieri regolarmente soggiornanti, ossia proprio quelli che hanno esercitato il diritto di asilo ex art. 10, comma 3, Cost. Si noti, però, come questi ultimi siano titolari di un diritto soggettivo perfetto al soggiorno: infatti, il diritto d’asilo comporta il diritto all’ingresso e alla permanenza nel territorio dello Stato, in attesa che venga definita la propria domanda di protezione internazionale, così da evitare fin da subito il rischio che il richiedente sia nuovamente sottoposto al pericolo di violazione dei diritti umani fondamentali.
Condizione, quest’ultima, da cui lo straniero fugge e che viene in ogni caso posta alla base dell’accoglienza e del soggiorno nel nostro paese.
Il diritto d’asilo ex art. 10 Cost., poi, è un diritto soggettivo perfetto all’ingresso e al soggiorno nel territorio italiano, immediatamente azionabile anche in mancanza delle leggi ordinarie che fissino alcune condizioni per il suo esercizio (Cass. civ., Sez. Un., 12 dicembre 1996, n. 4674), che si configura come una condizione più favorevole per lo straniero richiedente asilo rispetto a quella degli altri migranti i quali, invece, sono generalmente titolari di soli interessi legittimi circa l’accesso e la permanenza sul territorio italiano.
Ciò posto, appare ancor più irrazionale e irragionevole il trattamento differenziato introdotto dall’art. 13 d.l. n. 113/2018, perché al diritto di soggiornare legalmente si accompagna il divieto di esercizio del diritto-dovere di fissare la propria residenza in un comune della Repubblica proprio per una categoria di stranieri che, per definizione, hanno abbandonato la loro residenza all’estero per chiedere di essere ammessi a rimanere nel territorio.
Senza contare il paradosso che l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015 appare creare: come visto, negare ai richiedenti asilo l’iscrizione anagrafica significa precludere loro l’esercizio di un diritto fondamentale quando proprio l’esigenza di sottrarre tale categoria di stranieri al pericolo di lesione dei loro diritti fondamentali è presupposto per il riconoscimento del diritto di asilo.
8.5. ART. 117, COMMA 1, COST.
La questione di legittimita’ costituzionale appare, infine, non manifestamente infondata in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 2, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di seguito, Cedu), nonché in riferimento agli artt. 14 Cedu e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
Quanto al primo profilo di censura, ritiene questo giudice che l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. 142/2015, impedendo al titolare di permesso di soggiorno per richiesta asilo di iscriversi all’anagrafe, violi l’art. 2, § 1, Protocollo n. 4 Cedu, secondo cui “chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza”.
L’iscrizione all’anagrafe, invero, costituisce l’essenza stessa del fissare la residenza in un comune dello Stato e, pertanto, negare a un soggetto (legalmente presente sul territorio nazionale) l’iscrizione all’anagrafe implica ledere il suo diritto a fissare liberamente la residenza sul territorio dello Stato.
Del resto, che il termine ‘residenza’ utilizzato dalla disposizione della Convenzione in esame afferisca al concetto tecnico di residenza di cui all’art. 43 del codice civile italiano, e dunque nel senso rilevante ai fini del caso oggetto del presente giudizio, è desumibile dalla stessa terminologia utilizzata nell’art. 2, § 1,
Protocollo n. 4 Cedu, che si differenzia rispetto al diverso vocabolo ‘domicilio’ utilizzato nell’art. 8 Cedu. Il termine ‘domicilio’ nell’art. 8 Cedu designa, genericamente, “lo spazio fisico determinato in cui si svolge la vita privata e familiare” (Corte edu, Giacomelli c. Italia, 2 novembre 2006, § 76), pertanto la scelta di utilizzare il differente termine ‘residenza’ non può che essere indicativa della volontà di fare riferimento al concetto tecnico che in ciascuno Stato firmatario della Convenzione da’ rilievo giuridico al luogo in cui la persona stabilisce la propria dimora abituale. Conferma di ciò si ricava, inoltre, dall’analisi del testo della
Convenzione nella versione in lingua inglese, in cui emerge la medesima distinzione tra il termine ‘home’ dell’art. 8 Cedu e il vocabolo ‘residence’ utilizzato, invece, nell’art. 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione.
Peraltro, l’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. 142/2015, nell’introdurre la restrizione al diritto dei richiedenti asilo di stabilire liberamente la residenza, non rispetta neppure la riserva di legge rinforzata prevista dall’art. 2, § 1, Protocollo n. 4 Cedu.
Il diniego del diritto di stabilire liberamente la residenza sul territorio dello Stato nei confronti dei soli titolari del permesso di soggiorno per richiesta asilo è inoltre dettato da ragioni discriminatorie, risolvendosi dunque, altresì, nella violazione dell’art. 14 Cedu. Tale previsione stabilisce, infatti, che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute dalla Convenzione – nella specie, dell’art. 2, §1, Protocollo n. 4 Cedu – deve essere assicurato senza discriminazione di alcun tipo, tant’è che la disposizione in esame si chiude con una espressione generale che pone il divieto di discriminazione sulla base “ogni altra condizione” (“other status” secondo la versione inglese).
La novella introdotta con il d.l. n. 113/2018 introduce una discriminazione circa l’esercizio del diritto di iscrizione all’anagrafe (e dunque della libertà di fissa liberamente la residenza sul territorio dello Stato) differenziando in base allo status richiedente asilo: possono infatti iscriversi all’anagrafe tutti gli stranieri regolarmente presenti in Italia tranne i titolari del permesso di soggiorno per richiesta asilo.
Il sindacato condotto dalla Corte Edu per valutare le violazioni del divieto distinzione sulla base della clausola aperta prevista dall’art. 14 Cedu si avvicina a quello compiuto dalle Corti costituzionali nazionali sulla base del principio di ragionevolezza pertanto, sono qui riproducibili gli argomenti già esposti sopra in relazione alla violazione dell’art. 3 Cost. (§ 8.2.)
Per le ragioni esposte in relazione all’art. 14 Cedu, ritiene questo giudice che l’art. comma 1 bis, d.lgs. 142/2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. 113/2018 n rispetti infine l’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici che, insieme ai citati articoli della Convenzione edu, costituisce un ulteriore parametro interposto legittimita’ costituzionale”.
“P.Q.M.
Visti gli artt. 11. cost. 1/1948 e 23 1. n. 87/1953, ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, rimette alla Corte Costituzionale la questione di legittimità 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 142/2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, perché’, negando il diritto di iscrizione anagrafica al richiedente asilo si pone in contrasto con gli articoli 2, 3, 10, 117, comma 1,Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 2, § 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché in riferimento agli artt. 14 Cedu e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
L’art. 13, co. 1, lett. a), n. 2 d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, inoltre, si pone in contrasto con l’art. 77, secondo comma, Cost. per difetto dei requisiti dei casi di straordinaria necessità e urgenza, nonché del requisito di omogeneità, così come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale.
Il Giudice sospende il giudizio e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che la presente ordinanza sia notificata a cura della Cancelleria alle parti, al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Milano, 1° agosto 2019”.
[1] A cura della Redazione
[2] Come a molti noto, l’atto di promovimento è l’atto che introduce un giudizio davanti alla Corte costituzionale. Assume la forma dell’ordinanza di rimessione nei giudizi di legittimità costituzionale delle leggi in via incidentale, e la forma del ricorso nei giudizi di legittimità costituzionale delle leggi in via principale e nei giudizi per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e tra poteri dello Stato. Nei giudizi di ammissibilità di referendum abrogativo il potere-dovere della Corte di pronunciarsi sorge a seguito dell’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione, che dichiara la legittimità della richiesta referendaria. Infine, il giudizio di accusa contro il Presidente della Repubblica è introdotto dalla deliberazione di messa in stato di accusa adottata dal Parlamento in seduta comune (nota della Red.).