Nota di Luigi Verde
Cassazione Civile, Sez. Lav., 19 maggio 2023, n. 13806 .
C. contro F.
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO (NOZIONE, DIFFERENZE DALL’APPALTO E DAL RAPPORTO DI LAVORO AUTONOMO, DISTINZIONI) – DIRITTI ED OBBLIGHI DEL DATORE E DEL PRESTATORE DI LAVORO – TUTELA DELLE CONDIZIONI DI LAVORO. Malattia professionale contratta dal “de cuius” – Diritto degli eredi al risarcimento del danno “iure hereditatis” e “iure proprio” – Prescrizione – Decorrenza – Fattispecie.
1.In materia di malattia professionale contratta nel corso del rapporto di lavoro dal “de cuius”, da cui sia derivato il decesso di quest’ultimo, la prescrizione del diritto dei superstiti al risarcimento del danno, sia “iure hereditatis” che “iure proprio”, decorre dal momento della conoscenza o conoscibilità, da parte dei medesimi – secondo il metro dell’ordinaria diligenza, tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche -, della malattia, quale danno ingiusto conseguente al comportamento illegittimo del datore, e del carattere professionale della stessa, che deve necessariamente comprendere la conoscenza (o possibilità di conoscenza) della presenza dell’agente nocivo nell’ambito del processo lavorativo e dell’esposizione ad esso del lavoratore con modalità tali da poter costituire un probabile fattore causale della malattia stessa. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva dichiarato prescritta la domanda risarcitoria, sul rilievo della conoscenza o conoscibilità della eziologia della malattia da parte dei ricorrenti per effetto dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 277 del 1991 – che ha predisposto cautele per i lavoratori esposti all’amianto -, in assenza, tuttavia, di qualsiasi accertamento su elementi anche indiziari da cui avrebbero potuto percepire la derivazione della malattia dall’esposizione del loro congiunto ad agenti nocivi nel corso del rapporto di lavoro).
Riferimenti normativi: Cod. Civ. art. 2087; Cod. Civ. art. 2935; Decreto Legisl. 15 agosto 1991, n. 277 (Attuazione delle direttive n. 80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, n. 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n. 88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma dell’art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212).
2.Riportiamo di seguito alcuni passi della sentenza.
“[…] Diritto
7. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2730 e 1362 c.c., nonchè degli artt. 125, 228 e 229 c.p.c., per avere la Corte di merito rinvenuto nelle allegazioni del ricorso introduttivo di primo grado una confessione degli appellanti sulla conoscenza, già nel (Omissis), della nocività dell’ambiente di lavoro del de cuius. Si afferma che le dichiarazioni sfavorevoli alla parte, contenute nel ricorso o nella comparsa di costituzione, non possono considerarsi confessione giudiziale spontanea, ai sensi dell’art. 229 c.p.c., facendo riferimento tale norma agli “atti processuali” che si compiono nel processo, nel contraddittorio tra le parti. Si sostiene che, comunque, la Corte di merito ha male interpretato l’espressione contenuta nel ricorso in appello (“il sopradescritto reparto è il più inquinato della fabbrica, come si evince da una relazione tecnica del Dott. F.F., funzionario del dipartimento di prevenzione dell’Asl TA/(Omissis), che evidenzia la rilevante presenza, all’interno del reparto cokeria, di idrocarburi policiclici aromatici (i.p.a.) che sono sostanze cancerogene derivanti, appunto, dai processi di distillazione del carbon fossile. Peraltro, il Dott. F.F. nella detta relazione, nel (Omissis), rappresentava l’obsolescenza degli impianti, il carattere ancora manuale di molte operazioni previste del ciclo operativo; nonchè la mancanza di dispositivi di aspirazione dei fumi all’origine”) in quanto la relazione a cui si fa riferimento non era stata mai pubblicata e di essa gli appellanti erano venuti a conoscenza in quanto richiamata in un processo penale definito con sentenza di primo grado del 2007, come precisato all’udienza del 13 maggio 2014, allorquando è stata prodotta la sentenza penale n. 408/2007.
8. Con il secondo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2934 e segg. e art. 2697 c.c., nonchè degli artt. 112, 115 e 416 c.p.c., per avere la Corte d’appello dichiarato la prescrizione del diritto per fatti diversi da quelli allegati dalla società. Si sostiene che quest’ultima, costituendosi nel giudizio di primo grado, aveva eccepito la prescrizione estintiva del diritto fatto valere sul rilievo “che l’evento dannoso si è verificato ben ventuno anni prima della notifica del ricorso e che non vi è stato rapporto contrattuale tra i ricorrenti e la convenuta e pertanto gli stessi non possono invocare i termini prescrizionali”. La sentenza impugnata ha accolto l’eccezione di prescrizione sulla base di elementi di fatto non provati e non dedotti dalla società, ed esattamente sul rilievo della conoscenza della eziologia della malattia da parte dei ricorrenti per effetto del D.Lgs. n. 277 del 1991.
9. Con il terzo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 277 del 1991, per avere la Corte di merito attribuito a tale testo normativo un contenuto diverso da quello effettivo; inoltre, violazione e falsa applicazione dell’art. 2935 c.c. e art. 2947 c.c., comma 1, artt. 2727 e 2729 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., per avere individuato la decorrenza della prescrizione senza tener conto delle conoscenze scientifiche specifiche. Si premette che il dante causa dei ricorrenti aveva contratto una neoplasia laringo-faringea e che ha errato la Corte territoriale nel desumere la conoscibilità scientifica della patologia da parte dei ricorrenti dal D.Lgs. citato, che riconosce come malattie collegate all’amianto solo l’asbestosi e il mesotelioma. Si aggiunge che nel 1991, data di pubblicazione del citato decreto, la scienza medica non aveva ancora collegato il tumore laringo-faringeo all’esposizione ad amianto e agli i.p.a.. Difatti, nella tabella delle malattie professionali dell’industria, di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 3, le uniche malattie neoplastiche correlate all’esposizione ad amianto erano il mesotelioma pleurico, pericardico e peritoneale della tunica vaginale del testicolo e il carcinoma polmonare. Solo nel 2012 l’Agenzia Internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha ritrovato una “evidenza sufficiente per ritenere l’amianto causalmente associato nell’uomo al tumore alla laringe”, mentre il riconoscimento con i Criteri di Helsinki risale al 2014.
10. Con il quarto motivo si addebita alla sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 c.c., per avere i giudici di appello respinto l’impugnazione sul rilievo che i ricorrenti non avrebbero allegato le regole di condotta violate dalla società. Si sostiene come gravi sulla parte datoriale l’onere di provare l’adozione di tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno alla salute dei lavoratori.
11. I primi tre motivi di ricorso, che attengono, sia pure da diversi angoli di visuale, alla questione del dies a quo del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria proposta dagli eredi del lavoratore (iure hereditatis e iure proprio) per i danni conseguenti alla malattia professionale dal medesimo contratta nel corso del rapporto e che ne ha causato il decesso, possono essere trattati congiuntamente e sono fondati per le ragioni di seguito esposte.
12. E’ necessario premettere che, a partire dalla sentenza n. 10441 del 2007, questa Corte ha enunciato il principio secondo cui, in materia di prescrizione del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale da malattia professionale, trova applicazione il medesimo criterio relativo alla azione diretta a conseguire la rendita da inabilità permanente nei confronti dell’INAIL, azione per la quale si è affermato che la prescrizione decorre dal momento in cui uno o più fatti concorrenti forniscano certezza della conoscibilità da parte dell’assicurato dello stato morboso, della sua eziologia professionale e del raggiungimento della misura minima indennizzabile.
13. Successivamente le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 576 del 2008, intervenute sulla questione della decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno in caso di patologie contratte per fatto doloso o colposo di un terzo (esattamente, in tema di responsabilità per danni alla salute conseguenti ad emotrasfusioni di sangue infetto da virus HBV, HIV e HCV), hanno condiviso l’orientamento dalla Sezione lavoro (Cass. n. 2002 del 2005; Cass. n. 19575 del 2004; Cass. n. 23110 del 2004) che, ai fini del decorso della prescrizione del diritto al conseguimento delle prestazioni assicurative per malattia professionale, aveva elaborato “una nozione piuttosto precisa di che cosa si debba intendere per “manifestazione del danno” comprensiva, anche della conoscenza della causa professionale della lesione”.
14. La detta sentenza n. 576 del 2008 ricostruisce, con ampi riferimenti (a cui si rinvia), l’evoluzione giurisprudenziale sul tema della individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, rimarcando il “sostanziale ribaltamento degli schemi introdotti dal legislatore del ‘42”, con l’art. 2935 c.c. e art. 2947 c.c., comma 1; dà atto che in un primo momento la giurisprudenza ha interpretato l’espressione “verificarsi del danno”, di cui all’art. 2947 c.c., comma 1, come riferita al danno che sia “oggettivamente percepibile e riconoscibile” anche in relazione alla sua rilevanza giuridica (“non è sufficiente la mera consapevolezza della vittima di “stare male”, bensì occorre che quest’ultima si trovi nella possibilità di apprezzare la “gravità” delle conseguenze lesive della sua salute anche con riferimento alla loro “rilevanza giuridica””); rileva che la considerazione per cui in “tutta una serie di casi… la vittima, senza sua negligenza, si trova ad ignorare la causa del suo stato psicofisico o, al massimo, può sul punto formulare mere ipotesi, prive tuttavia di riscontri sufficientemente oggettivi” e la preoccupazione di evitare che “l’inattività della stessa possa esplicare effetti negativi sotto il profilo dell’interruzione della prescrizione” sono alla base della elaborazione giurisprudenziale che è giunta a collocare il dies a quo nel “momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche; puntualizza che ove non sia conoscibile la causa della malattia, la prescrizione non può iniziare a decorrere, non essendo la malattia “idonea in sè a concretizzare il “fatto” che l’art. 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione”.
15. La sentenza n. 576 del 2008 rifugge dal rischio di dare rilievo, ai fini della decorrenza della prescrizione, alla mera conoscibilità soggettiva del danneggiato e ancora il citato termine a due parametri obiettivi, l’uno interno e l’altro esterno al soggetto: da un lato al parametro dell’ordinaria diligenza, dall’altro al livello di conoscenze scientifiche dell’epoca, elementi entrambi verificabili dal giudice con apprezzamento di fatto al medesimo riservato. Affida quindi al giudice il compito di indagare, quanto al primo profilo, “sul contenuto della diligenza esigibile dalla vittima nel caso concreto, ovvero sulle informazioni che erano in suo possesso, o alle quali doveva esser messa in condizioni di accedere, o che doveva attivarsi per procurarsi”; quanto al secondo profilo, sullo stato delle conoscenze scientifiche dell’epoca, al fine di stabilire “se la riconducibilità della possibilità di un determinato tipo di contagio dalla trasfusione fosse nota alla comunità scientifica ed ai comuni operatori professionali del settore”, quindi, in tema di malattie professionali, se la riconducibilità di una determinata patologia a specifiche condizioni nocive dell’ambiente di lavoro fosse nota alla comunità scientifica.
16. Secondo le S.U. citate e la successiva giurisprudenza, l’ordinaria diligenza richiesta al soggetto danneggiato sarà soddisfatta dall’avvenuta consultazione di personale sanitario e dalla sottoposizione agli accertamenti prescritti, dovendosi misurare il livello delle conoscenze scientifiche dell’epoca in riferimento al personale o alla struttura sanitaria che ha avuto in cura il paziente ed accertare se siano state fornite informazioni atte a consentire all’interessato il collegamento con la causa della patologia o se lo stesso sia stato quanto meno posto in condizione di assumere tali conoscenze (v. Cass. n. 22045 del 2017; Cass. n. 13745 del 2018; Cass. n. 24164 del 2019 in tema di danno da emotrasfusione).
17. Punto di arrivo della giurisprudenza di legittimità, sia in tema di danno extracontrattuale (Cass. 2 luglio 2013, n. 16550; Cass. 3 maggio 2016, n. 8645; Cass. 22 settembre 2017, n. 22045; Cass. 31 maggio 2018, n. 13745 sul danno da emotrasfusione) e sia in materia di malattia professionale (Cass. 31919 del 2022; Cass. 34377 del 2022; Cass. n. 7850 del 2019; Cass. n. 32376 del 2018; Cass. 13284 del 2010) è che la prescrizione decorre non dal giorno in cui il terzo abbia determinato la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si sia manifestata all’esterno, bensì da quello in cui essa venga percepita o possa essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.
18. I principi richiamati sono stati ribaditi anche per la posizione dei superstiti. Si è affermato che “in tema di malattie professionali, anche per i superstiti dell’assicurato, perchè possa esercitarsi l’azione per il conseguimento della prestazione INAIL loro spettante “iure proprio”, nella qualità, e quindi, perchè possa iniziare il decorso della prescrizione, è indispensabile – non essendo ravvisabili a questo proposito situazioni differenti rispetto a quella dell’assicurato che rivendichi la rendita per inabilità – il realizzarsi di entrambi i requisiti previsti dalla relativa disciplina, e cioè la morte dell’assicurato e la conoscenza o conoscibilità da parte dei predetti superstiti, dell’eziologia professionale del decesso, la quale può non coincidere con la morte, ma essere raggiunta solo dopo di essa (Cass. n. 2002 del 2005; Cass. n. 5090 del 2001; Cass. n. 10951 del 2000; Cass. n. 6828 del 2000).
19. Tale conclusione è coerente con le regole generali in materia di successione universale, secondo cui l’erede può esercitare tutte le azioni spettanti al de cuius, e quindi, ove la conoscenza o la conoscibilità dell’eziologia professionale della patologia intervengano dopo la morte del lavoratore, gli eredi possono agire per il risarcimento del danno iure hereditatis e iure proprio nel termine di prescrizione decorrente dall’intervenuta conoscenza o conoscibilità (v. Cass. n. 18248 del 2016 in tema di decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di annullamento del contratto per errore, esercitata degli eredi del contraente, nel caso in cui l’errore si manifesti successivamente alla morte del de cuius, rimastone ignaro).
20. Con riferimento ai superstiti del danneggiato, si è ulteriormente precisato come la conoscenza o conoscibilità dell’eziologia professionale di una malattia debba necessariamente comprendere “la conoscenza (o possibilità di conoscenza) della presenza dell’agente nocivo nell’ambito del processo lavorativo ed inoltre dell’esposizione ad esso del lavoratore interessato con modalità tali da poter costituire un probabile fattore causale della malattia” (così Cass. n. 17656 del 2020).
21. Secondo l’indirizzo univoco, formatosi in tema di assicurazione Inail ma esteso all’ambito del risarcimento del danno differenziale, la conoscenza o conoscibilità dell’origine professionale della malattia sono desumibili da eventi oggettivi ed esterni alla persona dell’assicurato, che costituiscano fatto noto, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., come la domanda amministrativa, nonchè la diagnosi medica, contemporanea, dalla quale la malattia sia riconoscibile per l’assicurato (v. per tutte Cass. n. 27323 del 2005).
22. La sentenza d’appello ha individuato, quale dies a quo del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria proposta dagli eredi del lavoratore deceduto, “l’entrata in vigore della L. n. 277 del 1991 (rectius, D.Lgs. n. 277 del 1991) che ha predisposto cautele per i lavoratori esposti all’amianto” ed ha collegato a tale evento la possibilità degli eredi di percepire la malattia del de cuius “come conseguenza del comportamento del datore di lavoro che aveva esposto il dipendente all’inalazione di polveri così pericolose da esserne vietata la lavorazione”.
23. In tal modo, i giudici di secondo grado hanno del tutto omesso di applicare i principi di diritto finora richiamati che esigono, al fine della individuazione del dies a quo della prescrizione, un accertamento concreto sulla conoscenza o conoscibilità dell’origine professionale della malattia, che non si fermi al dato della manifestazione esteriore della stessa ma che, basandosi su plurimi elementi probatori anche di natura indiziaria, individui il momento in cui possa ragionevolmente ritenersi che il lavoratore, oppure i suoi eredi, usando l’ordinaria diligenza (che include la consultazione di personale medico) e sulla base delle conoscenze scientifiche dell’epoca (proprie del personale medico) abbiano percepito o erano in condizioni di percepire la malattia quale danno ingiusto conseguente al comportamento illegittimo di parte datoriale.
24. In materia di malattia professionale, la prescrizione decorre non dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno (o è posta la diagnosi di malattia comune), ma dal momento della conoscenza o conoscibilità, da parte del lavoratore o dei suoi eredi, secondo il metro dell’ordinaria diligenza, dell’origine professionale della patologia desumibile da elementi oggettivi ed esterni al soggetto leso, come la domanda amministrativa o la diagnosi medica, tenuto conto delle conoscenze scientifiche dell’epoca accessibili attraverso la consultazione del personale medico.
25. Posto che, ai fini del decorso della prescrizione, è necessario che l’inerzia del danneggiato o dei suoi eredi possa considerarsi, in qualche misura, colpevole, ciò presuppone che l’uno o gli altri siano consapevoli o in condizioni di conoscere, secondo criteri di diligenza e tenuto conto delle conoscenze scientifiche dell’epoca, sia la malattia che il suo carattere professionale. La mancata conoscenza della malattia e del rapporto di causalità della stessa con l’attività lavorativa costituisce un impedimento giuridico all’esercizio del diritto, e non consente quindi il decorso della prescrizione. L’entrata in vigore di un testo normativo, nel caso di specie del D.Lgs. n. 277 del 1991, nulla consente di inferire riguardo alla sussistenza di fatti e circostanze capaci di determinare, in concreto, la conoscenza o la conoscibilità per gli eredi del fatto che il lavoratore loro congiunto era affetto da una malattia, causativa del decesso, avente origine professionale e, a monte, dell’esposizione del predetto, nel corso del rapporto di lavoro, ad agenti nocivi. Il D.Lgs. che, nell’ottica della Corte d’appello, soddisfa il requisito di conoscibilità non consente neppure di inferire elementi significativi sulle conoscenze scientifiche dell’epoca in relazione al possibile nesso tra gli agenti nocivi che gli eredi assumono presenti nel luogo di lavoro e la patologia diagnosticata al lavoratore.
26. La sentenza impugnata incorre in un errore di sussunzione e, dunque, nella falsa applicazione dell’art. 2935 c.c., poichè, ai fini della determinazione della decorrenza del termine di prescrizione, ritiene la conoscenza o la conoscibilità dell’origine professionale della malattia conseguita o, comunque, conseguibile dagli eredi del lavoratore deceduto per effetto dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 277 del 1991, in assenza di qualsiasi accertamento su elementi anche indiziari da cui i medesimi avrebbero potuto percepire la derivazione della malattia dall’esposizione del loro congiunto ad agenti nocivi nel corso del rapporto di lavoro (v. Cass. n. 13745 del 2018; Cass. n. 24164 del 2019; v. anche Cass., S.U. n. 4115 del 2022 e Cass. n. 2146 del 2021 in materia di risarcimento del danno da alluvione).
27. La conclamata violazione di legge e, specificamente, delle disposizioni in materia di decorrenza della prescrizione come interpretate da una giurisprudenza assolutamente consolidata, assorbe le residue censure oggetto dei primi tre motivi di ricorso, che rilevano ai fini dell’accertamento in fatto omesso dai giudici di appello ed ora demandato al giudice di rinvio.
28. Anche il quarto motivo di ricorso è fondato.
29. E’ univoco è l’insegnamento di questa Corte secondo cui incombe sul lavoratore che deduca di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso di causalità tra l’una e l’altra, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.
In particolare, nel caso in cui si discorra di misure di sicurezza cosiddette “innominate”, di cui all’art. 2087 c.c., la prova liberatoria a carico del datore di lavoro risulta generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorchè non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (v. Cass. n. 12445 del 2006; Cass. n. 3033 del 2012; Cass. n. 15082 del 2014; Cass. n. 4084 del 2018; Cass. n. 27964 del 2018; Cass. n. 10319 del 2019).
30. Gli eredi del sig. E.E. hanno depositato il ricorso introduttivo di primo grado trascritto le allegazioni ivi contenute, riassumendole a pag. 2 del ricorso per cassazione (“il congiunto aveva lavorato alle dipendenze della Italsider Spa , assorbita da Fintecna, all’interno dello stabilimento siderurgico di (Omissis) dal (Omissis) alla data del decesso; per tutto il periodo lavorativo aveva svolto l’attività di operaio nelle batterie dei forni e nella cokeria, come addetto al carico e scarico del carbone; aveva operato in ambienti altamente inquinati ed era stato esposto a sostanze nocive, quali l’amianto e gli idrocarburi policiclici aromatici presenti nello stabilimento, come accertato dal dottor F.F., funzionario del Dipartimento di Prevenzione dell’ASL Ta/(Omissis), con una relazione acquisita nel processo penale definito con la sentenza 408/2007; la società datoriale aveva omesso di dotare i dipendenti di idonei dispositivi protettivi nonchè di eliminare l’amianto; all’inizio del (Omissis) gli era stata diagnosticata una neoplasia faringea, metastatizzata alle regioni latero cervicali e ai polmoni, a causa della era deceduto il (Omissis)”). La Corte di merito non ha fatto corretta applicazione della regola di distribuzione dell’onere di prova, a cui è direttamente correlato l’onere di allegazione, nel caso di specie soddisfatto.
31. E’ utile, infine, ricordare che se è vero che l’ammissione della consulenza tecnica di ufficio è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, è anche vero che questi può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (v. Cass. n. 3717 del 2019; Cass. n. 6155 del 2009), come è certamente in tema di malattie professionali (v. sul punto Cass. n. 37027 del 2022); inoltre, recentemente le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 3086 del 2022, hanno affermato il principio di diritto per cui “in materia di consulenza tecnica d’ufficio, il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può accertare tutti i fatti inerenti all’oggetto della lite, il cui accertamento si renda necessario al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non si tratti dei fatti principali che è onere delle parti allegare a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio” e “può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti – non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a loro carico -, tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio”.
32. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere accolto e deve cassarsi la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità […]”.
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