(Studio legale G. Patrizi, G.Arrigo, G.Dobici)

Corte di cassazione. Ordinanza 14 maggio 2024, n. 13274.

Licenziamento per giusta causa, Permessi ex Lege 104/1992 in concomitanza con l’orario di lavoro,  Finalità assistenziali, Nozione e concetto di assistenza.

Nota di Giovanni Patrizi.

1.Nella pronuncia in commento la S.C ha richiamato i principi posti alla base della sua consolidata giurisprudenza secondo cui può costituire giusta causa di licenziamento l’utilizzo, da parte del lavoratore, di permessi exL. 104/1992 in attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, in tal modo violando la finalità stessa per la quale viene concesso tale diritto

Secondo la Corte, in coerenza con la ratio del beneficio, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile.

La norma invero non consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui essa è preordinata. Il beneficio in parola comporta oltretutto un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore come meritevoli di superiore tutela. Qualora il nesso causale tra l’assenza dal lavoro e l’assistenza al disabile manchi del tutto, non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la funzione sua propria e pertanto si è in presenza di un uso non consentito ovvero di un abuso del diritto (cfr. ex multis, Cass. sez. VI, 17102/2021), oppure, secondo concorrente o distinta prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’ente assicurativo (anche ove non si volesse seguire la figura dell’abuso di diritto che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell’unione Europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza dell’Unione europea (si v. Cass. n. 9217/2016).

Nondimeno, in relazione a fattispecie concrete più simili a quella de qua, la Cassazione ha sancito che deve ritenersi illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per abuso dei permessi assistenziali ex art. 33 L. n. 104 del 1992 allorché sia emerso in corso di causa che il lavoratore aveva utilizzato tali permessi per attendere a finalità assistenziali in favore della ex moglie presso la propria abitazione (cfr. Cass. sez. lav., n. 21529/2019); ovvero, per contro, che la condotta del lavoratore nella fruizione dei permessi retribuiti previsti dalla L. 5 febbraio 1992, n. 104, consistente nell’aver svolto l’attività assistenziale soltanto per una parte marginale del tempo totale concesso, concreta un abuso in grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. e costituisce pertanto giusta causa di recesso del datore di lavoro (Cfr. Cass. Sez. Lav., 5574/2016). Tali principi sono stati confermati anche in Cass. n. 25290/2022, ponendosi in luce che i permessi ex art. 33, comma 3, L. n. 104/1992, da un lato, sono delineati quali permessi giornalieri (tre al mese), e non su base oraria o cronometrica, e, dall’altro, possono essere fruiti “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno”, ma per assistere, in forme non specificate, segnatamente in termini infermieristici o di accompagnamento, una “persona con handicap in situazione di gravità”.

Giova ricordare al riguardo, che la Suprema Corte, richiamando in altre pronunce gli orientamenti della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia, ha posto l’accento sull’esigenza di “socializzazione” del disabile, che consente al medesimo lo sviluppo della propria personalità quale diritto fondamentale dell’individuo a una sana vita di relazione . In particolare, la Corte costituzionale ha affermato che la finalità della L. n. 104 del 1992 non è solo quella di predisporre tutte le azioni necessarie al fine di garantire il “pieno rispetto della dignità umana e dei diritti di libertà e autonomia della persona handicappata” (in tal senso, Corte cost. n. 233/2005), ma anche di assicurare al portatore di handicap il “diritto alla salute psicofisica, ricomprensivo dell’assistenza e della socializzazione” (Corte cost., n. 213/2016).  

In virtù di quanto qui ricordato, la Cassazione afferma quindi che “i permessi ex art. 33, comma 6 della legge n. 104 del 1992 sono riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale, senza che la fruizione di detto beneficio debba essere necessariamente diretto alle esigenze di cura”.

Ora, il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 L. n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi dell’abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed oltretutto integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale.

2. Testo dell’Ordinanza del 14 maggio 2024, n. 13274.

“[…] Fatti di causa

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Campobasso rigettava il reclamo proposto da A.G. contro la sentenza del Tribunale di Isernia n. 122/2019, la quale aveva respinto la sua opposizione all’ordinanza del medesimo Tribunale che, nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato a detto lavoratore in data 27.6.2017 dalla convenuta datrice di lavoro, P.S. s.r.l.; la Corte inoltre riteneva assorbito l’appello incidentale condizionato, proposto da detta società e condannava il reclamante al pagamento delle ulteriori spese processuali.

2. La Corte territoriale premetteva che, per i giorni di venerdì 13 maggio e martedì 23 maggio 2017, l’A. aveva chiesto ed ottenuto due giorni di permesso, ai sensi dell’art. 33, comma 3, L. 104/1992, per assistere il padre, portatore di handicap in situazione di gravità, e che la datrice di lavoro gli aveva contestato di aver sbrigato in quelle giornate, per la parte coincidente con il suo abituale orario di lavoro, affari del tutto diversi dall’assistenza che, per legge, avrebbe dovuto prestare al padre, come in dettaglio specificato nella nota di contestazione disciplinare.

3. Dopo ampia premessa in punto di diritto circa l’istituto dei permessi in questione, in base a diversi precedenti di legittimità, e all’esito di capillare riesame delle risultanze processuali, la Corte concludeva che il 12 maggio e il 23 maggio 2017, giorni in cui aveva usufruito dei permessi ex lege 104/1992, in concomitanza con l’orario di lavoro, l’A. si era recato presso l’abitazione del genitore solo per mezz’ora, dedicandosi, per il resto della durata dei permessi ad attività del tutto diverse ed estranee alla finalità di assistenza in vista della quale il beneficio era stato concesso ed è previsto dall’ordinamento.

4. Per quanto qui ancora interessa, la Corte territoriale riteneva infondati anche il motivo di reclamo relativo alla asserita sproporzione tra la violazione accertata e la sanzione non conservativa comminata dalla datrice di lavoro, nonché il motivo a mezzo del quale il reclamante contestava la condanna a suo carico delle spese di prime cure.

5. Avverso tale decisione A.G. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

6. Ha resistito l’intimata con controricorso e deposito di successiva memoria.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 ex art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c. Secondo il ricorrente, l’errore di diritto imputabile alla Corte d’appello consiste nell’aver ritenuto di dover porre alla base della propria decisione l’accertamento e la valutazione esclusivamente sulla circostanza del se e quanta attività di assistenza abbia in concreto prestato il lavoratore in favore del genitore, recandosi presso il domicilio dello stesso, durante l’arco temporale dei due permessi, ossia, nell’arco temporale coincidente con il suo orario di lavoro, nel quale si era assentato per usufruire dei permessi.

2. Col secondo motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 5 legge 604 del 1966 in relazione alla ripartizione dell’onere della prova in tema di licenziamento ex art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c. Ritiene, infatti, che la Corte di Campobasso abbia fatto cattivo governo della regola di giudizio di cui al cit. art. 5 L. n. 604/1966, perché nella sua valutazione assume valore decisivo la ritenuta inattendibilità della testimonianza su di una circostanza, peraltro ritenuta provata dal giudice della fase di opposizione, che evidentemente si riteneva dirimente.

3. Con un terzo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. per violazione del principio di proporzionalità, nella individuazione della sanzione applicabile; dell’art. 9 CCNL di categoria applicato in azienda nonché dell’art. 2119 c.c. – Insussistenza di una giusta causa di licenziamento (art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.)”.

4. Con un quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 92, co. 2, c.p.c. in relazione alla condanna alle spese (art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.).

5. Il primo motivo è privo di fondamento.

6. Esso presenta anzitutto profili d’inammissibilità per tutta la parte in cui il ricorrente, nella chiave di apparente deduzione della violazione di una sola norma di diritto, ossia, dell’art. 33, comma 3, L. n. 104/1992, in realtà, da una parte, critica nel merito l’apprezzamento probatorio compiuto dalla Corte territoriale e, dall’altra, propone una propria diversa lettura della fattispecie concreta sul piano probatorio, preclusa ovviamente in questa sede (cfr. pagg. 14-15 del ricorso).

In particolare, nello sviluppo di tale censura il ricorrente assume che la Corte d’appello, perseverando nell’errore commesso dai giudici di primo grado, ha posto a base della propria decisione solo alcuni dei fatti risultanti dall’istruttoria, ignorandone altri, pur dedotti e confermati nel processo, essenziali ai fini del giudizio.

Erroneamente, però, lo stesso sostiene di così contestare alla Corte di merito “un’errata ricostruzione della fattispecie astratta”, perché i fatti, asseritamente ignorati, che il ricorrente rappresenta come dedotti, confermati, nonché essenziali, afferiscono all’evidenza proprio alla ricostruzione della fattispecie concreta.

Tali fatti, a suo dire, sono i seguenti: a) il lavoratore prestava la sua opera d’assistenza al genitore da lungo tempo e con continuità tutte le mattine, avendo chiesto ed ottenuto a tale scopo un mutamento dell’orario di lavoro, collocato nel pomeriggio, quando l’opera di assistenza poteva essere prestata all’occorrenza dalla sorella; b) anche nei giorni dei due permessi oggetto di contestazione, durante la mattina, o in orari diversi dall’orario del permesso, il lavoratore aveva prestato assistenza al genitore, cosa di cui dava atto la stessa Corte d’appello.

6.1. Rileva ancora il Collegio che il ricorrente non fa valere l’ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che ha formato oggetto di discussione tra le parti” di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c. E del resto tale mezzo si sarebbe imbattuto nella preclusione della c.d. “doppia conforme”, ai sensi del combinato disposto dei commi quarto e quinto dell’art. 348 ter c.p.c.

6.2. In ogni caso, diversamente da quanto opina il ricorrente, la Corte territoriale, sin dall’inizio della propria valutazione del caso, non aveva mancato di considerare che, prima dei fatti di cui è processo, “Alla fine del 2012 l’A. otteneva di prestare la propria attività di lavoro a “turno fisso”, in quanto lo stesso tutte le mattine doveva assistere il padre incapace di provvedere ai propri bisogni, lavorando, perciò, solo nel turno pomeridiano, dalle ore 14,00 alle ore 22,00, da lunedì a venerdì” (così tra la pag. 7 e la pag. 8 della sua sentenza); ed ha poi premesso “che l’A. lavorava solo il pomeriggio dalle 14,00 alle 22,00, dal lunedì al venerdì, e che ha usufruito dei premessi ex lege 104/1992, nelle giornate cui si riferisce la contestazione, in coincidenza con l’orario di lavoro” (così a pag. 12 della stessa sentenza).

6.3. Quanto, poi, agli ulteriori fatti che il ricorrente assume pretermessi dalla Corte territoriale, egli fa riferimento al passo in cui la stessa Corte aveva dato conto che il giudice della fase sommaria: “Aveva escluso che potesse avere rilievo la circostanza che nelle stesse giornate, in orari diversi, il lavoratore, come emerso dalle testimonianze di A. A. e I. E.G., avesse prestato assistenza al congiunto, atteso che ciò non escluderebbe che negli orari oggetto di diretta osservazione da parte degli investigatori incaricati egli non l’avesse prestata in un arco temporale in cui avrebbe dovuto sussistere la diretta relazione di causa tra permesso dal lavoro e assistenza” (così a pag. 2 dell’impugnata sentenza).

6.4. Ma il relativo assunto non coglie nel segno in una duplice prospettiva.

Da un lato, il passo riferito dal ricorrente fa parte soltanto del resoconto del pregresso svolgimento del processo, offerto dalla Corte di merito, né risulta che quest’ultima l’abbia espressamente fatto proprio.

Dall’altro lato, la stessa Corte ha ritenuto di dover, esplicitamente, quanto motivatamente, dissentire da quanto ritenuto provato dal primo giudice in base alle deposizioni nella fase di opposizione di A. A., sorella del ricorrente, e di M.M., compagno di quest’ultima (cfr. pagg. 12-14 della sua sentenza).

Inoltre, secondo la Corte territoriale, “il lavoratore non ha mai esplicitamente asserito di aver assistito il genitore, semmai raggiungendo a piedi l’abitazione dello stesso, neanche in occasione della audizione successiva alla nota del 12.6.2017 contenente la contestazione disciplinare (allegato 17 al fascicolo della Proma della fase sommaria), non avendo neppure articolato mezzi istruttori sul punto” (cfr. pag. 14 della sentenza).

7. Per il resto, nell’impugnata sentenza non è comunque riscontrabile la violazione dell’art. 33, co. 3, L. n. 104/1992.

7.1. Per chiarezza occorre precisare che l’art. 33 L. n. 104/1992 e, in particolare, il suo comma 3 hanno formato oggetto nel tempo di numerose modifiche e riformulazioni, da ultimo, con la (nuova) sostituzione di detto comma ad opera dell’art. 3, comma 1, lett. b), n. 2, d.lgs. n. 105/2022, n. 105.

La Corte territoriale ha preso in considerazione il testo dell’art. 33, comma 3, cit., come sostituito dall’art. 24, comma 1, lett. a), L. n. 183/2010, e, cioè, la versione della norma pacificamente applicabile ratione temporis alla fattispecie di cui è causa.

7.2. Ciò per ora rilevato, per pacifica giurisprudenza di questa Corte può costituire giusta causa di licenziamento l’utilizzo, da parte del lavoratore che fruisca di permessi ex lege n. 104 del 1992, in attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso (Cass. n. 4984 del 2014; Cass. n. 8784 del 2015; Cass. n. 5574 del 2016; Cass. n. 9749-del 2016; ancora di recente: Cass. n. 23891 del 2018 e Cass. n. 8310 del 2019).

In coerenza con la ratio del beneficio, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile. Tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto (cfr. Cass. sez. VI, 16.6.2021, n. 17102; id., sez. lav., 19.7.2019, n. 19580; id., sez. lav., 25.3.2019, n. 8310; id., sez. lav., 13.9.2016, n. 17968), oppure, secondo concorrente o distinta prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’ente assicurativo (anche ove non si volesse seguire la figura dell’abuso di diritto che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell’unione Europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza Europea: in termini v. Cass. n. 9217 del 2016).

7.3. Inoltre, la verifica in concreto, sulla base dell’accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio, dell’esercizio con modalità abusive difformi da quelle richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è consentito appartiene alla competenza ed all’apprezzamento del giudice di merito (in termini: Cass. n. 509 del 2018; v. anche Cass. n. 29062 del 2017; Cass. n. 30676 del 2018).

Nondimeno, in relazione a fattispecie concrete più simili a quella che ci occupa, questa Corte ha sancito che deve ritenersi illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per abuso dei permessi assistenziali ex art. 33 L. n. 104 del 1992 allorché sia emerso in corso di causa che il lavoratore aveva utilizzato tali permessi per attendere a finalità assistenziali in favore della ex moglie presso la propria abitazione (cfr. Cass. sez. lav., 20.8.2019, n. 21529, in cui fu respinta la tesi datoriale secondo cui vi era, quantomeno, un inadempimento parziale da parte del lavoratore, atteso che una parte della giornata in cui aveva fruito del permesso non era stata dedicata all’assistenza al disabile); ovvero, per contro, che la condotta del lavoratore nella fruizione dei permessi retribuiti previsti dalla L. 5 febbraio 1992, n. 104, consistente nell’aver svolto l’attività assistenziale soltanto per una parte marginale del tempo totale concesso, concreta un abuso in grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. e costituisce pertanto giusta causa di recesso del datore di lavoro (così Cass. sez. lav., 22.3.2016, n. 5574, già cit.).

Tutti tali principi sono stati, di recente, confermati anche in Cass. 24.8.2022, n. 25290, pure riferita a caso analogo a quello in esame, ponendosi in luce che i permessi ex art. 33, comma 3, L. n. 104/1992, da un lato, sono delineati quali permessi giornalieri (tre al mese), e non su base oraria o cronometrica, e, dall’altro, possono essere fruiti “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno”, ma per assistere, in forme non specificate, segnatamente in termini infermieristici o di accompagnamento, una “persona con handicap in situazione di gravità”.

7.4. Ebbene, la decisione della Corte di merito risulta in linea con tali principi di diritto.

La Corte d’appello ha, infatti, condivisibilmente ritenuto “che il concetto di assistenza non va inteso come vicinanza continuativa e ininterrotta alla persona disabile, essendo evidente che la cura di un congiunto affetto da menomazioni psico-fisiche, non in grado di provvedere alle esigenze fondamentali di vita, spesso richiede interventi diversificati, non implicanti la vicinanza allo stesso”.

A riguardo ha svolto delle considerazioni esemplificative di tale più lata nozione di assistenza (cfr. pag. 11 della sua decisione).

Indi, ha richiamato in proposito la sopra già cit. Cass. civ., sez. lav., 2.10.2018, n. 23891, evidenziando che quest’ultima aveva “confermato, ritenendola in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di permessi ex lege 104/1992, la sentenza della Corte di appello di Roma che aveva escluso la finalizzazione a scopi personali delle ore di permesso utilizzate dal lavoratore per attività come il fare la spesa, l’usare lo sportello P., incontrare il geometra e l’architetto, essendo emerso, dalle prove raccolte, che le stesse erano ricollegate a specifici interessi ed utilità dei congiunti in tal modo assistiti”.

7.5. In punto di fatto, quindi, come già premesso in narrativa, la Corte di merito ha accertato in estrema sintesi che nei due giorni, in cui il lavoratore aveva usufruito dei permessi, in concomitanza con l’orario di lavoro che avrebbe dovuto altrimenti osservare, egli si era recato presso l’abitazione del genitore solo per mezz’ora (dalle ore 19.02 alle 19.32 del solo giorno 23.5.2017), dedicandosi per il resto della durata dei permessi ad attività del tutto diverse ed estranee alla finalità di assistenza in vista della quale il beneficio era stato concesso (cfr. in extenso pagg. 12-15 della sentenza gravata).

7.6. Sul piano giuridico, allora, le considerazioni svolte dalla Corte distrettuale, in relazione a quanto accertato e diffusamente apprezzato a livello probatorio, risultano ineccepibili; viepiù tenendo conto del dato, pacifico in causa, che il lavoratore non conviveva con il padre disabile e non essendosi constatato che nei due giorni oggetto di contestazione egli si fosse altrimenti dedicato all’assistenza in senso lato del congiunto.

Invero, ribadito che il grado di sviamento della condotta concreta rispetto al legittimo esercizio del congedo spetta al giudice del merito, risulta incensurabile l’apprezzamento della Corte di merito secondo cui “nel caso di specie il tempo dedicato dal lavoratore al disabile in occasione del permesso è stato talmente irrisorio (mezz’ora appena, nel tempo di durata dei due permessi) da risultare del tutto insignificante, a conferma della finalizzazione del permesso stesso ad esigenze del tutto personali del lavoratore”.

8. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.

9. Nella decisione gravata, infatti, non è riscontrabile la violazione dell’art. 5 L. n. 604/1966 circa l’onere probatorio incombente sulla datrice di lavoro.

Pervero, come già accennato nell’esaminare il primo motivo, in base ad una complessiva rivalutazione delle risultanze processuali, in rapporto a quanto allegato da entrambe le parti, la Corte territoriale ha ritenuto interamente dimostrato quanto sostenuto dalla datrice di lavoro circa il permesso fruito il 12.5.2017, cui si riferisce in particolare la censura ora in esame. E tanto, come pure già evidenziato, in forza anche, ma non soltanto, di un diverso apprezzamento di talune deposizioni testimoniali (cfr. in extenso pagg. 12-15 della sua sentenza).

In definitiva, il buco significativo nell’osservazione degli investigatori, di cui si era avvalsa la datrice di lavoro, dalle ore 19,15 alle ore 22,00 del 12 maggio 2017 – sostenuto dal ricorrente nel secondo motivo – rientra in un accertamento fattuale riservato al giudice di merito. E la Corte d’appello non ha annesso rilevanza a tale preteso “vuoto”.

10. Pure è privo di fondamento il terzo motivo.

11. Anche in questo caso, infatti, si è in presenza di valutazioni fattuali riservate alla Corte di merito, la quale ha confermato “una grave violazione intenzionale degli obblighi gravanti sul dipendente, idonea a minare la fiducia del datore di lavoro sull’esatto adempimento delle prestazioni future”, come già ritenuto dal primo giudice.

In tal senso, la Corte ha considerato il dato obiettivo dell’abusiva fruizione di due permessi in rapida successione nel corso dello stesso mese, il 12 e il 23 maggio 2017.

Ha, altresì, valorizzato “la posizione sindacale dell’A., delegato della FIOM CGIL, e, dunque, ben consapevole della funzione dei permessi e della loro destinazione alla assistenza dei disabili”, con ciò volendo evidenziare che tale peculiare posizione metteva il lavoratore pienamente in grado di rendersi conto del disvalore di tali condotte.

Infine, a fronte di tanto ha reputato subvalenti la circostanza che fosse la prima volta che il lavoratore abusasse dei permessi in questione e il dato che egli non fosse “in precedenza destinatario di contestazioni disciplinari”.

11.1. Rispetto a queste considerazioni il ricorrente fa, tra l’altro, riferimento all’art. 9 del CCNL dei Metalmeccanici applicato al rapporto, di cui ha riportato uno stralcio (cfr. pag. 21 del ricorso), senza peraltro aver prodotto il testo integrale di tale CCNL.

Del resto, stando allo stralcio proposto, tale norma collettiva non fa il benché minimo cenno all’ipotesi dell’utilizzo abusivo dei permessi in questione, che comunque, come già posto in luce in precedenza (cfr. gli anteriori § 7.2. e 7.3. di questa motivazione), è condotta che, se accertata, come nel caso in esame, è tale da integrare giusta causa di licenziamento.

11.2. Per il resto, pure nel terzo motivo, per un verso, si critica la valutazione dei singoli elementi apprezzati dalla Corte di merito in punto di proporzionalità della sanzione espulsiva, e, per altro verso, si addebita alla stessa Corte di non aver “preso in considerazione effettivamente tutte le circostanze rilevanti nella vicenda” (cfr. pagg. 22-24 del ricorso).

12. E’, infine, inammissibile l’ultimo motivo che attiene al regolamento delle spese dei gradi di merito, operato dalla Corte territoriale.

12.1. Quest’ultima ha ritenuto che, alla stregua dell’art. 92 c.p.c., nel testo risultante dalla riforma del 2014, “la compensazione delle spese può essere disposta (oltre che nel caso della soccombenza reciproca), nelle ipotesi di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, nonché – per effetto della sentenza 7 marzo 2018 n. 77 della Corte costituzionale – nelle analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e in quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità delle ipotesi tipiche espressamente previste dall’articolo 92, comma 2, cod. proc. civ. (cfr. Cass. Sezione VI, ordinanza n. 4696 del 18.2.2019)”. E, nel respingere il motivo di reclamo del lavoratore circa le spese processuali di primo grado, poste a carico di quest’ultimo, ha considerato che: “Nessuna delle suddette ipotesi ricorre nel caso di specie”.

Circa, poi, le spese del secondo grado, ha ritenuto che, “alla luce di quanto appena osservato e stante l’assorbimento dell’appello incidentale condizionato proposto dalla P.S.”, dette spese dovevano seguire “la soccombenza”.

12.2. Ebbene, secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (così, ex plurimis, Cass., sez. I. 6.9.2021, n. 24056).

12.3. Per conseguenza, la censura suddetta esula dal sindacato di questa Corte.

13. Il ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo. Il ricorrente è inoltre tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15% e I.V.A e C.P.A. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto […]”.