(Studio legale G. Patrizi, G. Arrigo, G. Dobici)
Cassazione Civile, Sez. Lav., Ordinanza 12 febbraio 2024, n. 3822.
1.Escluso il mobbing, resta da accertare se il datore di lavoro poteva evitare le vessazioni subite dal lavoratore.
“Nell’accertamento del mobbing, l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto […]; a tal fine fa legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere fa condotta, unitariamente considerata (v. Cass. n. 26684/2017). In altri termini, così come una pluralità di comportamenti illegittimi non implica, di per sé, il mobbing, allo stesso modo la legittimità di ogni singolo comportamento non esclude l’intento vessatorio. Quella che non può mancare è la valutazione complessiva della pluralità di fatti allegati come integranti il mobbing, fermo restando che la prova dell’elemento soggettivo è facilitata nel caso di comportamenti illeciti ed è, al contrario, resa più ardua dalla riscontrata legittimità di tutti i comportamenti denunciati come unitariamente finalizzati alla persecuzione e all’isolamento del lavoratore“.
“Fermo restando che, ai fini dell’accertamento del mobbing in ambito lavorativo, il giudice deve valutare complessivamente i fatti allegati a sostegno della domanda del lavoratore, in caso di accertata insussistenza del mobbing bisogna comunque accertare se sussista un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore“.
Questo è il principio, ribadito dalla Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su due questioni quasi identiche. Le sentenze impugnate, pronunciate rispettivamente dalla Corte d’Appello di Milano e dalla Corte d’Appello di Ancona, avevano rigettato la richiesta di risarcimento presentata da due diverse assistenti amministrative scolastiche nei confronti del MIUR per i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa di comportamenti vessatori subiti sul posto di lavoro.
2. “Cassazione Civile, Sez. Lav., Ordinanza 12 febbraio 2024, n. 3822.
[…]
Fatto
La ricorrente impugna la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado del Tribunale di Monza, rigettò la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni da lei subiti a causa di comportamenti vessa tori posti in essere nei suoi confronti da personale deI MIUR, alle cui dipendenze aveva prestato servizio quale assistente amministrativa.
Il Tribunale di Monza aveva ravvisato gli estremi di un’ipotesi di mobbing verticale e riconosciuto alla ricorrente il diritto al risarcimento dei danni alla salute e non patrimoniali diversi dal biologico, liquidati in complessivi€ 16.000. La Corte d’Appello ha invece negato che vi fossero «elementi in base ai quali ritenere la sussistenza di singole condotte vessatorie …, né tantomeno per ritenere di essere in presenza di un’ipotesi di mobbing».
Il ricorso per cassazione è articolato in tre motivi.
Il MIUR è rimasto intimato, così come la dirigente scolastica e la collega della ricorrente cui quest’ultima imputa i comportamenti vessatori e che quindi ha convenuto in giudizio unitamente al Ministero.
La ricorrente ha depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.
Diritto
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, «ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione ed errata applicazione di norme di diritto», che nella successiva illustrazione vengono indicate negli «articoli 2087 e 2043 c.c.».
2. Il secondo motivo di ricorso è volto a censurare, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la «nullità della sentenza o del procedimento». Con questo motivo la ricorrente, da un lato, si lamenta del rigetto della propria eccezione di inammissibilità dell’appello per genericità delle critiche mosse alla sentenza di primo grado; dall’altro lato, accusa la Corte territoriale di avere motivato in modo del tutto generico ed apodittico il rigetto della domanda di risarcimento del danno.
3. Infine, il terzo motivo denuncia «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. La ricorrente ravvisa nella motivazione della sentenza impugnata «una incomprensibile atomizzazione degli eventi», che ripercorre, unitamente alle relative fonti di prova, invocandone una valutazione nel loro significato complessivo.
4. I tre motivi vanno esaminati congiuntamente perché convergono nel censurare un’errata interpretazione, da parte della Corte d’Appello, della nozione di mobbing quale fatto illecito e inadempimento contrattuale del datore di lavoro, così come essa è delineata nella giurisprudenza di legittimità in applicazione degli artt. 2043 e 2087 c.c.
4.1. In questi termini, il ricorso è fondato, perché nella sentenza impugnata effettivamente si riscontra una valutazione meramente atomistica dei singoli comportamenti indicati dalla ricorrente come rivelatori del mobbing e, a parte alcune dichiarazioni di ossequio formale aI principio, manca del tutto una valutazione complessiva del quadro risultante dall’insieme di quei comportamenti. Inoltre, con riguardo alla posizione del datore di lavoro, manca completamente il doveroso esame, una volta escluso un comportamento attivo integrante il mobbing, della possibilità che dai medesimi fatti emerga comunque una responsabilità da inadempimento inattivo dell’obbligo di «adottare … tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale» della lavoratrice.
4.2. Nella sentenza impugnata sono elencati i fatti che, secondo il giudice di primo grado, integrano, nel loro complesso, gli estremi della fattispecie del mobbing: il trasferimento all’ufficio archivi al rientro da un periodo di malattia; le condizioni fatiscenti dell’archivio; la rimozione della porta e delle veneziane dalle finestre dell’archivio; l’assegnazione a mansioni differenti e «piuttosto elementari e ripetitive»; le modaIità di controllo dell’orario lavorativo; il diffuso modo di fare aggressivo e denigratorio della dirigente scolastica e della dirigente dei servizi generali e amministrativi. A tale elenco segue poi un esame analitico di ogni singolo comportamento, che tende ad escludere una illiceità individuale, ma non è completato dalla necessaria valutazione complessiva aI fine di trarne un giudizio motivato sulla prospettata finalizzazione, sistematica e protratta nel tempo, alla persecuzione e all’isolamento della lavoratrice.
In alcuni casi l’illegittimità dei comportamenti non è nemmeno del tutto esclusa, ma soltanto minimizzata. Così avviene per la destinazione a rendere la prestazione lavorativa in un ambiente inadeguato (di cui la Corte territoriale si limita ad evidenziare la breve durata) e per gli atteggiamenti aggressivi della dirigente (apodittica mente declassati a «modi bruschi», di cui la ricorrente avrebbe sofferto perché «particolarmente emotiva»). Il tutto senza alcun riferimento alle risultanze della c.t.u. medico-legale di cui pure si dà atto che era stata svolta in primo grado e valorizzata dal Tribunale nel giungere alla decisione di accoglimento riformata dalla Corte d’Appello.
4.3. Occorre allora ricordare e ribadire che, nell’accerta mento del mobbing, «l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito fa condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto …; a tal fine fa legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere fa condotta, unitariamente considerata» (Cass. n. 26684/2017). In aItri termini, così come una pluralità di comportamenti illegittimi non implica, di per sé, il mobbing, allo stesso modo la legittimità di ogni singolo comportamento non esclude l’intento vessatorio. Quella che non può mancare è la valutazione complessiva della pluralità di fatti allegati come integranti il mobbing, fermo restando che la prova dell’elemento soggettivo è facilitata nel caso di comportamenti illeciti ed è, al contrario, resa più ardua dalla riscontrata legittimità di tutti i comportamenti denunciati come unitariamente finalizzati alla persecuzione e all’isolamento del lavoratore.
Il giudice del merito non può escludere la sussistenza del mobbing con enunciati meramente assertivi, pervenendo a conclusioni disancorate dalle risultanze istruttorie costituite dalle prove dichiarative e dalla consulenza medico-legale acquisite in primo grado, con motivazione meramente figurativa e apparente (Cass. n. 16247/2018); che è quanto avvenuto nel caso di specie, in mancanza di una valutazione sul significato complessivo dei fatti singolarmente esaminati e sulla base di un giudizio generico e atecnico sulla «sensibilità personale» della ricorrente che ha sostituito l’esame delle risultanze della c.t.u..
Come questa Corte ha già avuto modo di statuire, non rientrano tra le nozioni di fatto di comune esperienza «quelle valutazioni che, per fa specificità scientifica e l’assenza di un’acquisita tangibilità oggettiva diffusa, necessitino, per essere formulate, di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante c.t.u. o mezzi cognitivi peritali analoghi» (Cass. n. 15159/2019). ll giudice del merito può e deve apprezzare in modo critico le valutazioni del c.t.u. e può anche disattenderne motivatamente le conclusioni (solitamente sulla scorta di osservazioni di un c.t.p., ritenute più convincenti), ma non può prescindere totalmente dall’esame della consulenza e affidarsi a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche.
4.4. Anche nel caso in cui dovesse essere confermata l’assenza degli estremi del mobbing, non verrebbe comunque meno la necessità di valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute della ricorrente.
Infatti, «è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ,… fungo da falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 cod. civ.» (Cass. 3692/2023, che cita a sua volta Cass. n. 3291/2016).
Si deve aggiungere che «non integra violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. l’aver qualificato la fattispecie comestraining mentre in ricorso si sia fatto riferimento al mobbing, in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alfa salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni ‘stressogene’ che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio» (Cass. n. 18164/2018, che cita a sua volta Cass. nn. 3291/2016 e 7844/2018).
5. In definitiva, accolto il ricorso per quanto di ragione, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, per decidere, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, attenendosi al seguente principio di diritto: «ai fini dell’accertamento dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve procedere alla valutazione complessiva, e non meramente atomistica, dei fatti allegati a sostegno della domanda, al fine di verificare la sussistenza sia dell’elemento oggettivo (pluralità continuata di comportamenti dannosi), che dell’elemento soggettivo (intendimento persecutorio nei confronti della vittima); in caso di accertata insussistenza del mobbing, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e fa tecnica, erano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; nell’apprezzare la sussistenza di un danno alla salute e del nesso causale tra questo e l’ambiente di lavoro, il giudice non può prescindere da un esame critico delle risultanze della svolta c.t.u. medico legale per affidarsi esclusivamente a proprie intuizioni e convinzioni personali su aspetti il cui apprezzamento richiede particolari competenze tecniche».
6. Si dà atto che, in base all’esito del giudizio, non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il ricorso, per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, anche per decidere sulle spese legali del presente giudizio di legittimità […]”.
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